Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  aprile 07 Venerdì calendario

Intervista a Phil Kley


Per uno scrittore come Phil Klay è difficile separare l’esperienza personale dalla narrativa. Se poi, per parafrasare E.L. Doctorow, è vero che la narrativa è frutto della memoria soggettiva, diventa impossibile.
Klay ha modellato la sua memoria soggettiva da capitano dei Marines di stanza in Iraq tra il 2003 e il 2008 e l’ha messa su carta prima con una raccolta di racconti che nel 2014 gli è valsa il National Book Award, Fine missione, e poi con il suo primo romanzo La buona guerra – entrambi magistralmente tradotti da Silvia Pareschi e pubblicati in Italia da Einaudi.
La sua riflessione sul conflitto, che si estende al ruolo e alle ambizioni dei soldati, a quello dei civili e ai retroscena politici e sociali che fanno da sfondo a ogni fronte, è il motore di un racconto approfondito e utile per comprendere una condizione, quella dello scontro armato, che nella contemporaneità sembra sempre più distante dalla quotidianità. Estraneo tanto all’epica eroica di chi ha narrato le due Guerre Mondiali, quanto al disfattismo di chi si è misurato con i conflitti dalla Guerra Fredda al Vietnam, fino alla prima guerra del Golfo.
Se per un lettore comprendere di cosa si parli quando si parla di guerra sta diventando via via più difficile, il lavoro di Klay, che con la sua narrativa si pone l’obbiettivo di, per quanto possibile, semplificare il concetto, si fa fondamentale. Vitale, verrebbe da dire.
Questo è il suo primo tentativo di romanzo o ne ha scritti altri che non sono stati pubblicati?
«Ho iniziato a scrivere diversi romanzi che non ho mai finito, in realtà».
Si sente uno scrittore di guerra?
«Mi sento uno scrittore. E spesso si dice che è meglio scrivere di ciò che si conosce. Il mio passato ha inevitabilmente influenzato la mia scrittura. Per me è difficile pensare a una storia abbastanza credibile, nella quale io mi senta a mio agio al punto di volerla trasmettere ai lettori, senza tornare al mio passato da militare».
È intrappolato in questo ruolo?
«No, non direi. In un certo senso mi sento liberato».
Spesso chi ha vissuto la guerra e poi ne ha scritto lo ha fatto anche in maniera terapeutica. È il suo caso?
«Mi ha aiutato, sì, ma non è qualcosa che ho ricercato. Mi è servito a incanalare i miei pensieri e le mie sensazioni riguardo all’esperienza che avevo vissuto, a renderli in qualche modo universali».
Sono argomenti delicati, pensa mai ai modi in cui potrebbero influenzare i lettori?
«Sì, ci penso. Sono argomenti intensi, che a volte richiedono una certa dose di crudezza nel modo in cui vengono esposti. Alcune scene devono necessariamente essere dure, non possono essere addolcite o eroicizzate in nessun modo se non correndo il rischio di banalizzarle o di renderle meno credibili. So di persone che non sono riuscite a finire di leggere La buona guerra perché era troppo vicino alla loro esperienza ed emotivamente non riuscivano. Ma non c’è niente di gratuito, niente di scioccante per il gusto di scioccar»e.
Ma tutto è necessario…
«Sì, se il mio obbiettivo è quello di fornire un quadro attendibile, comprensibile a tutti i livelli e realistico, allora è necessario essere diretti, crudi, a volte violenti».
«La buona guerra» non è un romanzo facile e il conflitto armato colombiano non è di pubblico dominio. Lei è uno scrittore molto ben organizzato?
«Non lo sono, ma ho fatto molta ricerca. Sulla Colombia, sulla situazione del conflitto – che prosegue da sessant’anni ma del quale in pochi sanno qualcosa di specifico a livello internazionale -, sulle persone che lo vivono e quelle che si trovano là a combattere e a lavorare. Prima di iniziare a scrivere avevo assolutamente presente la struttura che avrei voluto dare al libro. Sapevo che se avessi voluto perseguire l’obbiettivo di scrivere un romanzo del genere, avrei dovuto utilizzare la struttura che mi ero prefissato.
È metodo. Qualcosa che le deriva dal suo passato militare?
«No, non direi. È una questione di consapevolezza, più che altro. Come scrittore ho sempre cercato di essere il più accessibile possibile per i lettori, soprattutto sapendo di toccare argomenti delicati o che potrebbero essere avvertiti come distanti dalla maggior parte delle persone».
Immagino ci sia anche la necessità di formare una sorta di esperienza immersiva?
«Esatto. Voglio trascinare il lettore dentro le situazioni che racconto, non voglio che ne rimanga al di fuori come uno spettatore esterno. In genere mi dedico all’esplorazione di argomenti complessi, situazioni che a loro volta richiedono una certa complessità nell’essere articolate e rivisitate per il racconto. Ci sono grandi romanzi di guerra che sono diventati capolavori perché sono stati in grado di restituire l’esperienza dal punto di vista di chi l’ha vissuta in prima persona, tralasciando le dinamiche politiche, e grandi trattati che hanno sorvolato sulle condizioni dei singoli. Volevo arrivare a una giusta via di mezzo».
Che poi è quello che accade normalmente quando si parla di guerra, la maggior parte di noi si sente distante, poco coinvolta…
«Non è solo il conflitto, che ormai sembra sempre qualcosa che appartiene a un oscuro passato benché ci siano diversi fronti aperti. Ho voluto scrivere un romanzo che sostanzialmente parlasse di come l’America proietta se stessa nel mondo, attraverso il conflitto. Un argomento ancora più ostico, ancora più distante dalla gente comune. Per farlo, avevo necessità di modellare questa struttura: una prima parte che tracciasse i singoli personaggi, che li seguisse passo passo nel loro rapporto con il conflitto, e una seconda che facesse un passo indietro e che riportasse la narrazione a un punto di vista più generale, esterno».
Sembrerebbe più pratico il contrario: prima fornire una panoramica generale e poi entrare nelle singole vicende dei protagonisti. Come mai le è sembrato meglio così?
«Volevo che una volta arrivati all’incontro tra i protagonisti, alla panoramica, fosse perfettamente chiaro quanto ognuno dei miei personaggi fosse intimamente e personalmente coinvolto nella vicenda. La guerra è qualcosa che destabilizza gli assetti mondiali, sposta i confini, muove le masse, ma è anche, e forse soprattutto, qualcosa che tocca le singole esistenze, che rivoluziona le intimità; guardarla con la coscienza di chi conosce il coinvolgimento personale, la rende narrativamente tutta un’altra cosa».
Voleva in qualche modo lasciare una testimonianza di cosa sia la guerra moderna?
«Volevo tracciare ciò che la guerra è diventata – un insieme di interessi politici, accordi e relazioni nascoste alle masse -, significhi per tutte le persone che ne sono coinvolte a diversi livelli della società. Chi si trova in guerra oggi sostanzialmente non ha idea di che cosa abbia scatenato il conflitto, di quali siano esattamente gli interessi in campo e non può immaginare cosa porterà a una risoluzione o a un’escalation. Il mio è un tentativo di dare al lettore una visione su tutti gli angoli che compongono un conflitto e analizzare quanto un livello di lettura influenzi profondamente gli altri».
Ha conosciuto davvero i suoi quattro protagonisti?
«In un certo senso. Non sono direttamente ispirati a persone reali, ma incarnano molti aspetti delle varie persone che ho conosciuto sia durante le ricerche per questo romanzo, sia nelle mie precedenti esperienze in zone di conflitto. La guerra è un teatro contemporaneamente imprevedibile e sempre uguale, nel quale si muovono molte maschere conosciute ma è sempre difficile intuire come ognuno si comporterà, come ne uscirà».
Uno dei protagonisti è un’inviata di guerra che non può fare a meno di tornare nelle zone di conflitto: mi ha ricordato Oriana Fallaci, sa chi era?
«Certo! Mi ricordo in particolare che Henry Kissinger definì la sua intervista con Fallaci “l’esperienza peggiore della sua vita"».
Cosa c’è di tanto affascinante nella guerra da non riuscire più a staccare gli occhi?
«La guerra è eccitante. È terribile, ma è anche incredibilmente magnetica. Il pensiero di trovarsi così vicini al fuoco da rischiare di bruciarsi e di poterne uscire vivi è qualcosa che spesso rafforza gli animi. La guerra moderna, poi, ha perso per i civili molte delle implicazioni morali che caratterizzavano le guerre passate: il combattimento, per chi non lo vive sulla propria pelle, è diventato impersonale, i soldati sono professionisti, spesso mercenari; quindi, essere spettatori in un teatro di guerra è diventato in qualche modo più semplice».
Dice uno dei suoi protagonisti: «L’aspetto peggiore è che niente di ciò che viviamo in guerra potremo condividerlo con le nostre famiglie, non capirebbero». Pensa che libri come i suoi possano aiutare in questo senso?
«Uno degli aspetti più soddisfacenti e appaganti del mio lavoro finora è quello di sapere che in effetti sia Fine missione, sia La buona guerra sono utilizzati per aiutare le famiglie dei veterani a comprendere e condividere le esperienze che sono spesso difficili da esternare. La verità è che ogni aspetto del trovarsi in un conflitto è comprensibile anche a chi non ci si è mai trovato, se raccontato con le parole giuste e accolto con la giusta empatia».
Ha cambiato idea sulla guerra, col tempo, e stando lontano dal combattimento?
«Di sicuro non sono diventato un pacifista. Credo che ci siano giusti motivi per essere coinvolti in un conflitto e per sostenerlo – l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia ne è un esempio – così come credo che spesso si siano prese delle decisioni sbagliate e a farne le spese siano state persone innocenti che non avevano alcun interesse né alcun motivo di trovarsi sotto un fuoco incrociato che non avevano i mezzi per comprendere».
In definitiva, esiste una guerra giusta?
«Giusta in senso assoluto, no. Ma sono esistiti ed esistono scenari nei quali il conflitto è inevitabile per evitare complicazioni ulteriori». —