la Repubblica, 7 aprile 2023
Intervista a Sonny Vaccaro
È l’uomo dalla scarpa d’oro. Quello che ha puntato, scelto, messo sotto contratto Michael Jordan. E che con Air lo ha reso un prodotto, una merce mondiale, ma soprattutto un valore. Sonny Vaccaro, 83 anni, nato a Trafford in Pennsylvania, ma di origini italiane (Falerna, Catanzaro) ha fatto le scarpe al mondo. E ha rivoluzionato l’industria sportiva. Potete considerarlo un Super Sneaker Salesman, il Frontman delle scarpe da ginnastica o il più famoso sports marketing executive del basket (Nike, Adidas, Reebok), ma è il primo nel suo ruolo a finire sul grande schermo. Air si chiama il film, lo ha diretto Ben Affleck, e Matt Damon, ex della saga di Jason Bourne, interpreta proprio lui, Sonny, un tipo pieno di iniziative (e di fiuto) che lavorava alla Nike. Vaccaro vive con la moglie Pam, preziosa collaboratrice, a Santa Monica.
Alle sei di mattina ha già la voce squillante.
Glielo chiedono tutti: come convinse a firmare Jordan?
«Era l’84, Giochi di Los Angeles, chiesi a Michael chi nella vita contasse di più per lui. Mi aspettavo dicesse il mio coach, i compagni di squadra. Invece rispose: i miei. Così trovai il numero di casa, non era ancora tempo di cellulari, mi rispose la madre, Deloris, e parlammo a lungo. Michael aveva 21 anni, giocava per North Carolina, la sua come la mia era una famiglia di lavoratori, papà era operaio metallurgico a Pittsburgh. Con Jordan non scattò nessun colpo di fulmine, era riottoso, non sapeva chi fossimo, preferiva Adidas che faceva tute belle. All’azienda diedi un consiglio: abbiamo un budget di due milioni e mezzo di dollari, non spalmiamolo su una serie di giovani, diamolo tutto al ragazzo.
Bè non è che fossero molto convinti, ma insistetti. Anzi feci di più: mi giocai lo stipendio».
A Jordan spettava anche il 25 per cento su ogni scarpa venduta.
«Sì, il primo modello di Air costava 65 dollari, l’idea era di arrivare a guadagnare 3 milioni di dollari in 3 anni, invece in soli 12 mesi la cifra incassata salì a 126 milioni. Io avevo avuto l’intuito, ma Deloris, la madre, la certezza: non sarà solounascarpa, ma lascarpa, quando mio figlio la indosserà. Le avevo promesso: sarà un contratto all-in, Michael avrà un marchio tutto suo, sarà il nostro volto del futuro.
Credo di averla convinta con la mia scommessa».
Non disse anche a Jordan: sarai diretto da Spike Lee?
«Onestamente no, lui voleva subito una macchina, Spike Lee arrivò dopo. Ma gli prospettai il ruolo da protagonista negli spot pubblicitari. Con le Air Jordan abbiamo cambiato il mondo, sono ormai icone presenti nei musei, alle aste dei collezionisti, ai piedi di quindicenni che non hanno mai visto Jordan giocare dal vivo.
Michael è stato un change maker,ha aperto le porte a un commercio che non esisteva, ha permesso a tanti giocatori neri di firmare i loro prodotti, di poter essere anche partner e soci. È stato un innovatore. Il primo e l’ultimo della sua specie. Steph Curry e LeBronJames seguono le sue orme, ma non ci sarà più nulla di simile, come se stessimo parlando della prima Ferrari. Il suo contribuito all’umanità è più grande di quello di Bill Gates».
Non esagera?
«In campo è stato meraviglioso, ma la cosa più importante l’ha fatta fuori, creando un mercato dove in tanti fanno soldi, anche se l’idea originale non era questa. Nessuno pensava che il marketing sarebbe diventato la parte più importante e brillante della sua abilità. Il brand Jordan ormai è famosocome Nike, anche se tanti non lo ammettono. E se nel mondo dici Air nessuno pensa al cielo o all’aria, ma al marchio. Gli auguro lunga vita, ma quando lui e noi non ci saremo più, la sua scarpa gli sopravviverà.
Sarà sempre viva».
Ha fatto firmare anche
Kobe Bryant, ma ha persoJames.
«Non per colpa mia. Nel ’91 dopo che Jordan vinse il suo primo campionato Nba ruppi con Nike. E passai ad Adidas, avevo conosciuto LeBron in Ohio, straordinario già da ragazzo, avevo negoziato un contratto da cento milioni di dollari per dieci anni. Ma l’azienda senza dirmi niente gli propose la metà, tradendo la mia fiducia e parola. Me ne sono andato, io mi considero un indipendente,faccio parte della compagnia per cui lavoro, ma mantengo il mio modo di pensare».
James ha avviato una dinastia sul parquet.
«Lo riconosco. Per la prima volta in Nba ci sarà una dynasty a confronto. Sarà spettacolare vedere LeBron, se avrà la salute, essere citato come il padre di Bronny che ora ha 18 anni ed è conosciuto come il figlio, e se poi arriva anche Bryce, saranno in tre.
So che in Italia avete avuto Dino e Andrea Meneghin, ma erano altri tempi e non era l’Nba. Pensate solo a quello che ha realizzato LeBron, ormai un businessman miliardario non a carriera finita, ma mentre ancora gioca. Ha aperto scuole per ragazzi disagiati, ha una sua compagnia di produzione a Hollywood, una media company, compartecipazioni in varie società e altre proprietà».
Un consiglio per la Nba?
«Il basket ha smesso di essere un gioco americano, ora è del mondo.
Il tiro da tre ha rivoluzionato gli schemi. Ovunque trovi canestri e soprattutto atleti formidabili. In Spagna, Grecia, Italia, ma anche in Africa, come in Asia e Australia. Ho scoperto il francese Tony Parker perché venne a un mio torneo estivo. Il basket globale deve allargare il suo format».
Vuole una Nba mondiale?
«AdamSilverèunottimo commissionerelocapiràpresto.Va fattoun campionatoprofessionistico mondialedoveiclub siconfrontino.
Ilbasketèungiocodisquadra,ma tuttiifanconosconoinomidei singoligiocatori».
Perché l’Italia dovrebbe andare a vedere un film su una scarpa?
«Chi in Airvede solo una scarpa, sbaglia. Anche ilNew York Timesdice che non è una storia sul capitalismo, ma sull’anima di una nazione. Jordan è stato l’Elvis Presley del basket, ha creato una mitologia, con dentro la parola futuro».