la Repubblica, 7 aprile 2023
Ritratto di Simone di Cirene
Quel giorno Simone di Cirene passava di lì per caso, di ritorno dai campi, e gli misero in spalla la croce. Di quest’uomo non ci viene riferito di più, se non che era padre di altrimenti ignoti Alessandro e Rufo. Ebbene, in ogni grande narrazione c’è sempre spazio per un intruso, il personaggio che non c’entra assolutamente niente, e che si trova travolto da un vortice come in un film di Hitchcock o dei fratelli Coen. Dalla qual cosa discende che nel tempo questo evangelico Carneade, sebbene sublimato a opinabile emblema di solidarietà (non fu costretto?), è divenuto piuttosto il paradigma della roulette russa che da un attimo all’altro può riservarti il proiettile risparmiato ad altri, e come la passante di Baudelaire regalava un’ebbrezza vitale al poeta, così l’intercettare un’esistenza è sempre sinonimo di incognita, nel bene e nel male.
Sì, c’è sempre un rischio nell’accostarsi agli altri, chiunque essi siano. Ed è indimenticabile quel frammento di Franz Kafka (in Contemplazioni, 1913) in cui egli si pone come regola la neutralità esistenziale: esattamente come una Svizzera incarnata, Franz impone a se stesso di non farsi mai attrarre dalla calamita di chi ti passa accanto, fosse anche un disperato debole e lacero che qualcuno in piena notte insegue gridando. Sfiorare chi ti passa accanto significa senza dubbio esporsi a un contagio, quel contagio che il Covid ha reso tangibile e clamoroso, obbligandoci a una distanza di sicurezza che è un diaframma di protezione non solo biologica, ma forse soprattutto emotiva, e vitale. Maledetto e vituperato, il virus ex-Wuhan ci aveva permesso in fondo di legittimare una barriera interpersonale che finalmente oggettivava l’individualismo radicale del nuovo millennio, e dunque sotto sotto ben venga la mascherina dietro cui celarsi, ben venga lo smart working dalla propria tana, ben vengano i 200 cm di separazione fra me e il diverso da me, che poi è la miniatura delle frontiere chiuse, del mar Ionio auspicabilmente in tempesta che dissuada i barconi e infine del mantra «perché non restano a casa loro?» (tradotto: perché vengono a contagiarci con la loro miseria?).
Questo nostro Simone di Cirene, viceversa, fu eccome contagiato. IlCalvario di un altro diventò il suo, lo infettò, lo invase, magari chissà se lo traumatizzò, eventualità questa che oggi si è tramutata in un terrore apocalittico, essendoci convinti di essere delle creature di cristallo in perenne allerta, con sirena lampeggiante, vulnerabilissime, assetati di oracoli da coach e psicologi online, appesi al filo diun equilibrio interiore sempre sul punto di spezzarsi per plurime fobie assortite, e quindi «figuriamoci se ho spazio anche per caricarmi la croce altrui».
E a questo punto già mi immagino la reazione spazientita di chi, leggendo questo ritratto, troverà inaudito convogliare sul derelitto Simone l’eredità psicologica delCovid o addirittura la nostra resistenza ad accogliere chi fugge dalla catastrofe siriana, afgana e via geolocalizzando dal planisfero dell’orrore. Eppure, piaccia o no, mi corre l’obbligo di rilevare un dettaglio che curiosamente non viene mai apprezzato, ovvero che il malcapitato del Golgota era per l’appunto di Cirene, vale a dire che si trattava a tutti gli effetti di un immigrato, un estraneo, uno che proveniva dalla Cirenaica, attuale provincia di al-Jabal al-Akhdar, 1200 km da Gerusalemme, in Libia. Dicono gli storici che egli con qualche probabilità era un nordafricano o un egiziano grecizzato, come farebbe pensare il nome di suo figlio, Alessandro (assolutamente insolito in Palestina). E qui, potremmo dire, il cerchio si chiude. Perché fra le parole più eversive nella predicazione di Cristo c’era stato quell’«ero straniero e non mi avete accolto» che suonava inammissibile in una Giudea che in teoria farebbe impallidire Viktor Orbán: non solo gli stranieri venivano sepolti fuori dalla città (il famoso Campo del Vasaio comprato coi soldi del tradimento di Giuda), ma era addirittura proibito dalla legge intrattenere rapporti con loro o varcarne la soglia (viene scritto peraltro anche negli Atti degli Apostoli, 10:28). Sul Calvario, però, guarda caso, la croce che il condannato (reduce da tortura e flagellazione) non riesce più a portare, viene caricata dai soldati sulle spalle non di uno qualsiasi, ma di un ennesimo «ero straniero e non mi avete accolto». Sì, direi che questa scena possiamo meglio immaginarcela come la girerebbe Quentin Tarantino: c’è una folla che reclama il sangue, ci sono dei secondini professionisti nel pestaggio, c’è un profeta trentenne con il viso tumefatto sotto una corona di cocci di bottiglia, piegato sotto una croce di tubi di ferro saldato. Quando questo inizia a barcollare, nelle risate generali, qualche genio afferra dalle retrovie l’ispanico o il black di passaggio e il gioco è fatto, per la gioia del Ku Klux Klan che filma volentieri in super8.