la Repubblica, 8 aprile 2023
Le autobiografie degli storici
È una nuova tendenza che dalla Francia, da sempre in anticipo sull’ ego-histoire,arriva in Italia neilaboratori di ricerca più avanzata.
Quello che un tempo da noi era considerato un tabù, un genere praticato solo da pochi stimatissimi eletti, oggi potrebbe diventare un esperimento di massa, aperto alle nuove generazioni di storici senza distinzioni di rango. «I futuri professori di storia non dovranno più vergognarsi di parlare di sé», racconta Andrea Giardina, il celebre antichista che sta curando per la casa editrice Viella una nuova collana sulle autobiografie degli storici (insieme a Roberto Pertici e a Edoardo Tortarolo, con la collaborazione di Francesco Torchiani).
L’iniziativa parte dalla Giunta Centrale di Studi Storici, di cui Giardina è presidente. Memorie, narrazioni, ricostruzioni, ricordi, interviste che attraversano tutta la storia nazionale, dall’Unità d’Italia a oggi. Tra i primi sette volumetti dalla copertina pastello figurano le memorie autobiografiche di Gaetano De Sanctis, Claudio Pavone, Giuseppe Galasso, Roberto Vivarelli, Ruggiero Romano, il meglio della nostra cultura storiografica.
Perché pubblicare oggi queste autobiografie?
«È interessante mettere a fuoco, anche da questo tipo di fonti molto particolari, per quali ragioni uno studioso si rivolge alla ricerca storica. Quali le motivazioni, il rapporto con la politica. E quale sia il nesso tra la ricerca storica e le vicende del paese. Il progetto non include storici viventi: la presenza dell’autobiografo ai seminari in preparazione avrebbe impedito il necessario distacco».
L’autobiografia è stata considerata a lungo un tabù. Perché?
«Gli storici in quanto scienziati non dovevano parlare di sé stessi per non inquinare la purezza della ricerca con l’invadenza e le manipolazioni inevitabilmente messe in atto dal proprio ego.
L’autobiografia dello storico doveva trovarsi unicamente nelle sue pubblicazioni scientifiche».
Chi vi incorreva rischiava la censura della comunità?
«Non necessariamente, ma era bene essere prudenti. Il grande storico Ronald Syme, autore de La rivoluzione romana (1939), sentì la necessità di scusarsi per aver fatto ricorso all’odioso prenome della prima persona: questo solo per aver ricordato quale fosse stata l’origine di una raccolta di suoi saggi. Perfino nella corrispondenza personale, si riferiva a sé stesso semplicemente con le parole “this person”. Il mio maestro Santo Mazzarino, uno dei più grandi storici italiani del Novecento, scrisse migliaia di pagine di storia antica, ma invano cercheremmo nella sua opera un solo spunto autobiografico degno di nota».
C’era una relazione tra la diffidenza verso il genere autobiografico e il parallelo rifiuto delle biografie?
«Senza dubbio. Le prime parole del libro di Arnaldo Momigliano sulla biografia greca ricordano un pregiudizio imperante ai tempi della sua gioventù. “Quando ero giovane, i dotti scrivevano di storia e i gentiluomini si dedicavano alla biografia”. Fu un fenomeno di lunga durata. Nei primi anni Settanta, nessuno di noi che studiavamo storia all’università pensava di scrivere biografie. Ai vecchi pregiudizi si aggiungeva l’atmosfera del Sessantotto. I giovani studiosi seri dovevano occuparsi delle masse, degli schiavi, dei partiti, dei conflitti sociali, del movimento operaio. A imporci la scelta degli argomenti interveniva anche Brecht con leDomande di un lettore operaio : “Ilgiovane Alessandro conquistò l’India/ da solo?/ Cesare sconfisse i Galli/ Non aveva con sé neppure un cuoco?”. La storia era fatta da uomini e donne, non solo da grandi uomini».
Con queste premesse, avete avuto difficoltà a trovare le autobiografie da pubblicare?
«Sapevamo delle difficoltà, ma la realtà è stata più avara del previsto. Tra i sette volumi già pubblicati solo due sono dedicati ad autori di vere autobiografie, De Sanctis e Vivarelli. Anche se Vivarelli si concentrò, come talvolta accade agli autobiografi, solo sugli anni particolarmente discussi della sua esistenza, ovvero la sua partecipazione adolescenziale alla guerra civile italiana nelle filerepubblichine».
Colpisce l’assenza di personaggi femminili. Eppure storiche come Anna Rossi Doria e Anna Bravo, solo per fare due esempi, hanno scritto della loro vita.
«Per la nostra collana sono in preparazione i volumi su Bravo e su Elena Fasano Guarini, ma il problema rimane. Per scrivere un’autobiografia era necessaria quella consapevolezza di sé che scaturiva dalla posizione acquisita nel mondo accademico o negli enti di ricerca. Purtroppo per tanto tempo le figure femminili ne sono rimaste escluse o ai margini: poche le storiche, pochissime le loro autobiografie. Oggi la situazione è completamente cambiata, ledottoresse di ricerca in campo storico hanno eguagliato e forse superato i colleghi maschi. Fra qualche anno leggeremo anche in Italia tanti bei libri scritti da storiche autobiografe».
Lei è ancora convinto che per scrivere un’autobiografia uno storico debba aver vissuto eventi eccezionali come guerre e dittature?
«Ho creduto a lungo che l’autobiografia di uno storico dovesse avere un tratto drammatico. Nessuna guerra, nessuna notizia, dicevano gli antichi. Da antichista pensavo in particolare agli splendidi Mémoiresdi Pierre Vidal-Naquet (che ebbe i genitori uccisi ad Auschwitz) o a Jean-Pierre Vernant, uno dei capi della Resistenza francese al nazismo. Ma devo dire che sono rimasto particolarmente colpito dall’autobiografia di George Mosse, che seppe parlare con una grazia poetica sia dello sterminio della propria famiglia sia delle discriminazioni subite in quanto omosessuale in America. Oggi però sulla drammaticità autobiografica la penso diversamente: ho letto ormai varie autobiografie di storici che non hanno questo requisito e alcune sono splendide. Fra poco sarà pubblicata l’autobiografia di uno dei massimi storici dei nostri tempi, Peter Brown: sembra un libro d’avventure e non a caso s’intitolaJourneys of the Mind(“Viaggi della mente”)».
Oggi la sensibilità è molto cambiata. L’autobiografia non è più appannaggio dell’élite storiografica.
«Alcune esperienze in atto all’estero sono particolarmente interessanti. In Francia i candidati alla cosiddetta “Habilitation à diriger des recherches” sono sollecitati a esprimere le loro motivazioni. Spesso i futuri professori di storia raccontano alla commissione le loro origini famigliari e le esperienze dell’infanzia e della prima giovinezza. Questa attitudine contribuisce alla formazione di una sorta di banca dati che potrà rivelarsi preziosa. Parallelamente il grande storico Patrick Boucheron ha ideato presso le edizioni della Sorbona una collana intitolata Itinerari, dove invita a farsi autobiografi storici e storiche che per i motivi più vari non avrebbero mai pensato a scrivere di sé. E in Italia è stato creato dalla Società delle storiche il laboratorio “Autobiografie sollecitate”, che permette l’emergere di un io plurale. Tutte esperienze che la Giunta intende integrare accanto alle testimonianze dell’élite intellettuale».
Qual è la regola aurea per uno storico autobiografo?
«Resta il metodo fissato molti anni fa da Pierre Nora quando pubblicò il volume collettivo Essais d’ego-histoires: scrivere di se stessi come se si scrivesse di altri. Ma dobbiamo essere indulgenti: come ha ricordato Joachim Fest, “il passato è sempre un museo immaginario. Nel complesso non si conserva tanto quel che è veramente stato, ma ciò che si è diventati, ciò che si è”».