Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  aprile 08 Sabato calendario

Colonie, le prime vacanze di massa per bambini

«Era come andare soldato: un addio alla casa e alle care abitudini, e avanti in fila per due», ricorderà nel libro L’albero dai fiori bianchi Enzo Biagi, ospite della colonia della X Legio, a Rimini, nei primi anni Trenta. «I vagoni del treno avevano i sedili di legno, le madri sui marciapiedi sventolavano i fazzoletti e piangevano. Eravamo tutti in divisa e nella valigetta la mamma aveva messo la biancheria con le mie iniziali ricamate con il filo rosso: “Non la perdere, è tutto quello che hai”. Le vigilatrici comandavano con modi energici e dispettosi: bagno, dormire, passeggiata, gabinetto, merenda. Come in caserma».
Nato sull’Appennino bolognese, fu la prima volta che vide il mare: «Se ci ripenso, sento un acuto odore di marmellata gelatinosa, in mastelli. La merenda tra quei capanni. Con tutta quella sabbia…». Malinconia. Una domenica, scriverà in una rubrica su «L’Espresso», arrivò a trovarlo col treno popolare il padre Dario, operaio in uno zuccherificio: «Portava camicia, cravatta e giacca. Non si slacciò neppure il colletto. Ci sedemmo in un angolo, noi due soli. Aveva, infilata in tasca, una bottiglia di birra. “Hai sete?”, mi domandò. Io mi vergognavo un poco, i miei compagni ci stavano osservando; era goffo, impacciato, così poco balneare, e dissi di no. “Sei contento?”, mi chiedeva. “Vi divertite?”. A me sarebbe piaciuto tornare a casa, andare a Bologna con lui, ma aveva pagato 120 lire, il medico aveva detto che era una buona cura per la gola, disse che l’acqua salata e lo iodio facevano bene, e gli raccontai che avevo vinto la gara di corsa. In valigia, gliela mostrai, c’era la medaglia, con il Duce con l’elmetto…»
Per centinaia di migliaia di bambini italiani, racconta lo storico Stefano Pivato nel libro Andare per colonie estive, uscito per il Mulino, quelle prime vacanze senza il papà, la mamma, i nonni, la famiglia, tutti soli affidati a «educatori ed educatrici» investiti da Benito Mussolini della missione di collaborare alla formazione dell’«italiano nuovo», era un rito di passaggio obbligato. «L’appassionata opera del regime per la salute dei bimbi del popolo non conosce soste», tuona un filmato Luce del 1935. «Sistematicamente infatti ragazzi di ambo i sessi vengono a scaglioni inviati alle colonne marine e montane a ritemprare la salute del fisico e quello dello spirito. Ecco gruppi di bimbi che lieti e festosi partono dalla stazione di Roma». Sbuffi di vapore, fischi della locomotiva, bandierine, mamme col fazzoletto, cori di voci infantili: «Duce! Duce! Duce!»
Il primo a teorizzare i soggiorni curativi per fanciulli, scrive Pivato, era stato il medico fiorentino Giuseppe Barellai, che nel 1856 aveva aperto a Viareggio, in locali di fortuna, il suo primo «ospizio» sostenendo che l’allora devastante scrofolosi, una «infezione tubercolare che colpiva prevalentemente bimbi malnutriti e in cattive condizioni igieniche» poteva «essere curata grazie alle cure marine». Tesi che aveva subito convinto, tra gli altri, il presbitero e letterato Giacomo Zanella, autore nel 1869 della poesia Sugli ospizi marini pe’ fanciulli scrofolosi dove compativa i piccoli malati che «Al flutto, che blando/ Asperge le rive/ Commetton tremando/ Le membra mal vive;/ All’onde dal gracile/ Lor piede battute/ Domandan salute…»
L’opzione terapeutica si era via via diffusa in vari Paesi europei, ma ciò che colpisce nel Ventennio, spiega lo storico, è che mentre le strutture vengono altrove «erette con criteri di spartana essenzialità, come tendopoli o baracche in legno, in Italia si assiste a una vera e propria monumentalizzazione del welfare per l’infanzia». Grandi spazi, grandi edifici, grandi architetti. «Costretti a una vita confinata in spazi domestici angusti, abituati a una quotidianità nella quale sono assenti agi e comodità, i bambini toccano con mano la magnificenza e la generosità del regime. Le emozioni vissute in colonia sono spesso destinate a produrre, sul piano psicologico, visioni indimenticabili. Non a caso le riviste di architettura degli anni Trenta sottolineano che lo scopo che si propongono i progettisti è quello di dare ai piccoli ospiti un ricordo delle strutture “che rimanesse indelebile nella loro memoria”». La colonia Le Navi di Cattolica, progettata da Clemente Busiri Vici, capolavoro di architettura razionalista costruito in 9 mesi, resterà «stampata nella mente» di Mariangela: «Era tutto un vetro splendente: com’era bella e grande. Era proprio una nave circondata dalle barchette».
I numeri dicono tutto: «I bambini assistiti dalle organizzazioni del regime fascista aumentano dai circa 80.000 nel 1927 ai 772.000 nel 1938. (...) Nel 1942, infine, il regime dichiara l’apertura di 5.805 insediamenti coloniali per 940.615 bambini». Quasi il quintuplo della vicina Francia. Eppure, dopo la guerra e la caduta del fascismo, la rete di colonie (molte distrutte, danneggiate, trasformate in luoghi di prigionia dei tedeschi sconfitti, in ospedali militari o campi profughi come una colonia sulle Prealpi bergamasche affidata alla comunità ebraica per ospitare sopravvissuti della Shoah) vive una stagione non meno vitale. I censimenti diranno che «su 247 complessi ancora esistenti negli anni Ottanta del Novecento, l’1,2%» era stato costruito «prima del 1915, il 14,6% tra il 1915 e il 1945, l’84,2% nel dopoguerra».
«Ereditata» in buona parte dalla Pontificia opera di assistenza istituita per volere di Pio XII, la rete riesce già dal 1946 «a organizzare 995 colonie per 256.000 bambini» che a metà degli anni Cinquanta saliranno a 1.800.000. Niente più adunate per l’alzabandiera, né enormi spazi per esercizi ginnici collettivi, né spropositati refettori. Più girotondi, più spettacoli per burattini, più messe e preghiere e riflessioni in comunità. E al posto di Faccetta nera o dell’Inno coloniale («Sventola il Tricolore/ il Fascio ci riguarda/ convien che in ogni cuore/ un fuoco sempre arda») canzoncine tipo «Non appena spunta il dì/ iu cai dì, iu cai dà/ ci risveglia il suo chiaror,/ iu cai dì, iu cai dà»... Con qualche puntura di spillo come a Rimini alle confinanti colonie a gestione laica: «Guardate i bambini comunisti... Dite una preghiera per loro».
È negli anni Sessanta che il rito collettivo della vacanza in colonia comincia a perdere colpi. «Il posto fisso e le ferie pagate», scrive Pivato, «riuniscono la famiglia e i figli si recano al mare e in montagna assieme ai genitori relegando progressivamente in soffitta il soggiorno estivo in colonia». Ed è così che «le colonie, generalmente costruite a ridosso della spiaggia e circondate da vasti spazi verdi, diventano preda ambita di una speculazione edilizia senza precedenti». Un assalto dai danni irreparabili.
Sarebbe un peccato però, in questa storia, dimenticare almeno due punti. Lo sfacciato squilibrio di investimenti sulle coste tirreniche e adriatiche settentrionali rispetto quelle meridionali (solo sette colonie in Sicilia, due in Sardegna) e il contributo di grandi imprenditori privati. Immortale resta in modo in cui il vecchio Gaetano Marzotto spiegò a Indro Montanelli nel 1949 perché stava costruendo una colonia marina a Jesolo puntando sul rendimento di impiegati e operai una volta fatti ben riposare in spiaggia: «Mi go diecimila dipendenti circa. Supponiamo che li paghi in media millecinquecento lire al giorno ciascuno. No xe mal, come paga. Ma se di queste millecinquecento lire essi ne devono spendere millequattro per mangiare, xe la miseria. E se ghe xe la miseria ghe xe el comunismo. E se ghe xe el comunismo, ghe xe i scioperi e la cattiva produsion». Morale: non poteva risolvere la questione salariale senza contenere i costi del mangiare. Per questo produceva carne, burro, latte, patate e così via «industrializzando l’agricoltura». Badando bene che facessero tutto le macchine: «Il concime, l’uomo non lo deve toccare, perché l’uomo che tocca il concime puzza, e l’uomo che puzza diventa comunista e viceversa». Oddio, magari non era proprio così. Però…