La Lettura, 8 aprile 2023
Sulla poesia di Ada Negri
Celebre prima e negletta poi: è questo il succo della singolare vicenda di Ada Negri e della sua poesia. Ma non basta. Per quel poco che ormai da svariati decenni se ne parla, infatti, il suo nome non ricorre quasi mai in rapporto all’opera poetica, quanto invece per ricordare appunto la sua sparizione, questa sì paradossalmente eclatante, dall’orizzonte della poesia italiana. In sostanza, il suo è diventato il caso per antonomasia di un folgorante declino del prestigio poetico. Più che una poetessa, Ada Negri è quasi per tutti una poetessa decaduta.
Poco più di vent’anni fa, nel 2002, Silvio Raffo aveva curato per Mondadori una scelta delle liriche della «maestrina di Motta Visconti», il comune lombardo dove aveva insegnato per alcuni anni a partire dal 1888 (era nata a Lodi nel 1870 ed è mancata a Milano all’inizio del 1945; l’appellativo, derivato appunto dai suoi primi anni d’insegnamento, non se lo sarebbe mai tolto di dosso). Con lo stesso titolo di Poesie, l’antologia viene ora riproposta in forma ampliata e aggiornata da Interno Poesia. Ecco allora che la questione Negri potrebbe tornare nuovamente ad aprirsi. Ma vale la pena ascoltare subito le parole del curatore, che vanno dritte al cuore del problema. «Il caso Ada Negri – ha scritto Raffo – è uno dei più clamorosi esempi di damnatio memoriae della poesia novecentesca. Il suo nome, presente in qualsiasi sussidiario di scuola elementare o antologia della prima metà del Novecento, dagli anni Sessanta a oggi è stato impietosamente espunto non solo dai suddetti generi di testi, ma tout court da cronache critiche e letterarie».
Che cos’è accaduto, dunque? O meglio, che cosa non è andato, ed eventualmente ancora non va, nei suoi versi? Nelle raccolte degli interventi critici dei maggiori poeti del Novecento, ad esempio, il suo nome non appare praticamente mai. Neanche per parlarne male. Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti, Pier Paolo Pasolini, Franco Fortini, Andrea Zanzotto, Giovanni Raboni e un po’ tutti con loro. Eugenio Montale in un’occasione invece la nomina, nel secondo dopoguerra, ma per sottolineare come la vocazione sociale della sua poesia la rendesse di fatto superata; il che in fondo è singolare visto che proprio in quegli anni, dopo la clausura poetica più o meno forzata del ventennio della dittatura, il cosiddetto impegno letterario stava diventando addirittura una moda.
Lo stesso Raffo prova a raccogliere qualche testimonianza favorevole a Ada e, di fatto, qualcosa trova, ma non tanto in verità. Un parere lusinghiero di Mario Luzi, Giorgio Caproni che rivela di essere in debito verso una sua poesia, e poco altro. Un po’ di più arriva dal versante dei critici, ma, anche qui, si tratta per lo più di giudizi prudenti e con molte riserve (anche Benedetto Croce era più sul no che sul sì). Ad ogni modo, si dovrebbe dire che quelle stesse generazioni di poeti che nella prima metà del Novecento erano cresciute leggendo e magari imparando a memoria queste poesie, sono state anche le prime ad averle dimenticate.
Quello che vale per la sua attenzione, come si dice oggi, al sociale, lo si può estendere un po’ a tutti gli aspetti della sua attività poetica. Le prime raccolte uscite nell’ultimo decennio dell’Ottocento, ad esempio, mostrano, anche per il tramite di un Carducci e di un Pascoli ripresi nel loro lato più discutibile, un populismo davvero molto marcato. In realtà, anche al di là di una certa tradizione ottocentesca che spingeva in quella direzione, Ada era di una famiglia di estrazione piuttosto bassa, per di più aveva perso il padre quando aveva soltanto un anno, e di conseguenza certe tematiche per lei non erano affatto posticce (la miseria, le disparità sociali, le sofferenze familiari). Quello che spesso compromette la sua poesia, allora, non è tanto l’argomento in sé, quanto l’enfasi, il patetismo, soprattutto la retorica dei buoni sentimenti, che finiscono in ogni caso per sdilinquire una realtà che pure la poetessa sembrava aver individuato con ben altro peso e fermezza.
Questo accade, come detto, lungo tutta la sua storia di poesia, dunque anche nei libri migliori, quelli della maturità, nei quali la sua vena si fa comunque più intima e personale, e il grado di consapevolezza e di realizzazione espressiva più alto: Il libro di Mara (1919), quindi soprattutto Vespertina (1930) e Il dono (1936), le due raccolte in cui al centro della rappresentazione è l’amatissimo paesaggio lombardo. Anche in questo caso, infatti, quello che ha allontanato i lettori, probabilmente in modo perfino troppo univoco, non va cercato nella particolare ideologia dell’autrice. Quanto a questo, del resto, la si può pensare in modo molto diverso, e tirarla, com’è stato fatto, da una parte come dall’altra. Si può ricordare allora la sua amicizia con Benito Mussolini, maturata per altro molto presto, o la predilezione per temi senz’altro graditi al regime, come anzitutto la sacralità della famiglia (lei, per altro, era separata). Per contro, la sua formazione politica si era maturata a Milano in area socialista, da cui i suoi rapporti con Filippo Turati, Anna Kuliscioff o lo stesso Mussolini. E, per altro, certa sua insofferenza per il ruolo previsto dalla società, certo suo non voler stare al gioco, portano con sé almeno un sentore della spinta all’emancipazione femminile. Giuseppe Antonio Borgese ha parlato per lei, ad esempio, di «lirismo anarchico», ed Emilio Cecchi, con una formula folgorante, addirittura di «femminismo casalingo» (che potrebbe anche suonare come un ossimoro).
Non capita spesso – ed è questo forse il fatto che più importa – che una sua poesia tenga dall’inizio alla fine. Di scorci efficaci o di giri di frase riusciti ce ne sono parecchi, che si tratti della celebrazione di qualche particolare momento dell’esistenza (non è certo una scrittrice della negazione o della negatività: potrebbe venire anche di qui, paradossalmente, la difficoltà di condividerne la disposizione fondamentale verso la vita), sia che si tratti invece per lei di mettere in forma di parole, come nelle raccolte più tarde, la propria ispirazione religiosa. Accade infatti che la presa sulla realtà, e insieme sulla lingua poetica, le scappi, e che allora il sentimento trapassi in sentimentalismo, come se ci fosse un lieto fine anche quando il lieto fine non c’è. Non è sempre così, però, e proprio per questo una lettura antologica delle sue poesie può essere quella giusta. Questi, ad esempio, sono i versi iniziali di Pensiero d’autunno, che Croce giudicava niente di meno che una «poesia perfetta»: «Fammi uguale, Signore, a quelle foglie/ moribonde, che vedo oggi nel sole/ tremar dell’olmo sul più alto ramo./ Tremano, sì, ma non di pena: è tanto/ limpido il sole, e dolce il distaccarsi/ del ramo per congiungersi alla terra».