Corriere della Sera, 7 aprile 2023
Intervista a Luca Marinelli
Col suo grande naso da aquila rapace che svetta su un’espressione attonita e emaciata, Luca Marinelli ama i personaggi da scalare, tutti energia e inquietudine, come accade in Otto montagne, un viaggio verso l’assoluto. È il film per il quale è candidato ai David di Donatello (con l’altro protagonista, Alessandro Borghi). Poco dopo, l’8 luglio al Festival di Spoleto, il 38enne attore romano, diventato un punto di riferimento del cinema d’autore, debutta come regista teatrale per Una relazione per un’Accademia, dal racconto di Kafka.
Marinelli è un romano atipico che per amore si è trasferito anni fa a Berlino, città che «stimola la dimensione creativa». Schivo, restìo a parlare di sé, guardingo e ironico, solitario e scanzonato, calibra le parole col ritmo di un monaco amanuense del ‘400. Non fu ammesso al Centro Sperimentale di cinematografia dove alla commissione disse che il film della sua vita è Batman. Si è rifatto sul campo in progetti in cui pochi credevano, nella parte del criminale in Lo chiamavano Jeeg Robot e del tossico in Non essere cattivo. A Venezia vinse la Coppa Volpi per Martin Eden. Vorrebbe parlare solo di Kafka.
Cosa la colpisce di questo testo, che è quasi un labirinto esistenziale?
«L’ho visto a Parigi tanti anni fa e ne rimasi folgorato. Penso alla verità, disperazione e lucidità nel parlare metaforicamente della condizione dell’esistenza nella società. La scimmia è stata prelevata dal suo contesto e portata a forza altrove e da questa sua “nuova vita”, ci parla. Nel testo la scimmia è un narratore che a una conferenza scientifica parla di una via d’uscita, della necessità di trovare una soluzione al problema della reclusione ma senza perdersi dietro il concetto di libertà, troppo spesso usato in modo elusivo, creando non pochi problemi agli esseri umani».
Kafka si muove sul confine tra animalità e umanità.
«Apprende il comportamento umano solo per uscire dalla gabbia. È un fatto di sopravvivenza, più che di libertà. Ho pensato più volte di recitarlo io, ma ho visto recitare Fabian Jung con la sua anima vibrante al suo saggio di diploma alla scuola Ernst Busch e gli ho chiesto se potevo essere suo regista».
Cosa si vedrà in scena?
«Un essere ben vestito che davanti al pubblico accademico racconta il suo percorso, dalla sua vita precedente di scimmia a oggi, con le sue sembianze e il suo comportamento abbastanza umano, tale da poter avere un certo successo».
Una metafora della condizione umana?
«È una metafora di molte cose, tra le quali l’esistenza, come ci comportiamo, quello in cui crediamo. E molto altro ancora. Se la scimmia è Kafka, nel sentirsi diverso che lo ha accompagnato per tutta la vita? Non mi permetto di interpretarlo. A me piace il suo stile e ciò che comunica, lo sguardo sulla società».
Il protagonista a Spoleto è un attore tedesco.
«Ecco, l’aspetto che trovo interessante è che Fabian Jung reciti in italiano non sapendo una sola parola della nostra lingua. Ha studiato da zero questo monologo. È una situazione analoga a quella della scimmia. Il fatto di avvicinarci al testo come ad un suono o a un ritmo è stato fondamentale. Abbiamo fatto una prova a Berlino per alcuni amici e familiari».
Dopo la regia teatrale ne farà una al cinema?
«Intanto vediamo come verrà accolto questo spettacolo. Non nascondo di essere molto preoccupato, ma è una sensazione che mi piace. Non stare comodi è una qualità che apprezzo. La regia di un film sarebbe un’altra esperienza bella e scomoda».
Cambiamo argomento. Cosa rappresenta la candidatura ai David?
«Sarà un’emozione pura, una bella serata piena di colleghe e colleghi a cui voglio bene e con cui ho condiviso una parte di questo mestiere. Alessandro Borghi, per me, è un fratello».
La presenza di Ficarra e Picone significa che stanno cadendo pregiudizi e steccati sui comici?
«Chi ha pregiudizi e alza steccati sui comici, non ha capito nulla dell’arte recitativa».
A parte Batman, un altro suo idolo era Indiana Jones.
«Perché da ragazzo volevo fare l’archeologo. Oggi il mio archetipo sono gli scrittori che vogliono arricchirsi viaggiando».
Lei è già stato cinque volte alla Mostra di Venezia: cosa cambierebbe ai festival?
«Toglierei le transenne per stringere le mani del pubblico».