Corriere della Sera, 7 aprile 2023
Intervista a Francesca Lavazza
L’imprenditrice del caffè: «Sogno di berlo sulla Stazione Spaziale Internazionale, come Cristoforetti». Il calendario: «Ero affascinata da Helmut Newton, sul set teneva centinaia di paia di scarpe femminili»
A che età ha preso il primo caffè?
«L’espresso in tazzina, da adolescente. Ma la prima goccia, quando ero molto piccola: mio padre la faceva cadere nello zucchero e si solidificava. È stata la prima sferificazione del caffè!».
Quanti ne beve al giorno?
«Cinque o sei, ora amari».
Moka o macchinetta?
«A casa ho tutto. Però il rito della moka è riservato alla sera, dopo cena, o alla domenica, quando c’è più tempo».
La qualità che preferisce?
«Amo molto il caffè ¡Tierra!. Sia per il gusto – il mio preferito è una miscela di tre arabiche sudamericane, di Honduras, Perù e Colombia – sia perché ne ho seguito la genesi, con il progetto del fotografo Steve McCurry, che ha raccontato le rotte del caffè».
Francesca Lavazza, 53 anni, è la quarta generazione dell’omonima azienda torinese fondata nel 1895 e presente in 140 mercati, 2,3 miliardi di fatturato e oltre 30 miliardi di tazzine di caffè prodotte ogni anno. Figlia di Emilio, è membro del consiglio di amministrazione della Luigi Lavazza Spa, assieme al fratello Giuseppe (vicepresidente), e ai cugini Antonella, Manuela e Marco (vicepresidente), figli di Alberto, attuale presidente.
Il suo nome è legato a doppio filo al Calendario Lavazza, che quest’anno ha compiuto 30 anni. Lei lo segue da venti.
«Il mio lancio fu con David LaChapelle. Negli anni abbiamo cercato di posizionarlo in modo diverso, dal mondo onirico nella moda a quello della sostenibilità, dove la voglia di bellezza si è legata a una sensibilità sulle persone e le donne reali».
Dove conserva le edizioni?
«Dietro di lei». Sono appese a delle stecche sulla parete che costeggia il tavolo da riunioni nell’ufficio all’ultimo piano con vista Superga nella Nuvola Lavazza, l’avveniristica sede nel quartiere Aurora di Torino inaugurata nel 2018.
Ricorda il primo?
«Helmut Newton al Café de Flore di Parigi. L’anno dopo scattò a Montecarlo. Ne ero molto affascinata. Sul set teneva centinaia di paia di scarpe femminili».
Annie Leibovitz?
«Per la sua donna vitruviana, al centro di una tazzina, volle aggiungere altre tazzine sulle mani: non erano mai abbastanza. Perfezionista assoluta, studiava gli scatti con una controfigura. Poi tracciava una linea e diceva: non potete oltrepassarla. Alzava la musica, andava e veniva».
Il Flagship Store preferito?
«Quello di Milano, perché è il stato primo, lo considero il mio secondo ufficio».
In quale momento si è sentita più orgogliosa di bere un caffè Lavazza?
«All’inaugurazione di Nuvola. Ci sono voluti dieci anni e non ci ha fatto dormire la notte. Ma finalmente, grazie all’architetto Cino Zucchi, siamo riusciti a riunire nello stesso luogo tutti gli uffici, ad aprire il museo, a realizzare il ristorante e il bistrot. Io e i miei cugini abbiamo voluto moltissimo la nuova sede: per noi rappresenta il futuro».
Dove le piacerebbe berlo?
«Sulla Stazione spaziale internazionale, come Samantha Cristoforetti e Paolo Nespoli. La prima fu Samantha, il 3 maggio del 2015, verso le 13: il primo tentativo era fallito perché mancava la prolunga. Ero andata a Cape Canaveral per vedere partire la macchina con il vettore Space X».
Dov’è stata più sorpresa di trovare il vostro caffè?
«In India, in un posto vicino al Kerala: avevano pure il calendario. A quel punto non resistetti e mi presentai. Il titolare volle farmi conoscere tutta la famiglia e i vicini».
Il posto più assurdo?
«Ho una cartella che si chiama “Sentirsi a casa” con le foto dei luoghi più strani dove è stato trovato. In un atollo in Papua Nuova Guinea c’era un ombrellone Lavazza. Nel secondo campo base del Karakoram, il pacchetto Qualità Oro. Il caffè è un grandissimo connettore. Ognuno ha il suo preferito, legato a un luogo, a un rito, a un ricordo».
I suoi figli parlano già di lavorare in azienda?
«No. Tommaso ha 20 anni, Lorenzo quasi 18. Stanno studiando, è presto. L’approccio è lasciarli liberi. Poi, se vorranno, potranno fare esperienza in azienda».
A loro quando ha fatto bere il primo caffè?
«A Tommaso molto presto, lo prende a colazione. Lorenzo ama il cappuccino. La loro generazione lo beve molto più di noi alla stessa età, hanno dimestichezza con le bevande che contengono caffeina».
Le vostre campagne pubblicitarie fanno parte della storia del costume italiano. A quale è più affezionata?
«A quella del Paulista, con Carmencita e Caballero: si andava a letto dopo il Carosello, era quasi un premio. A scuola mi chiamavano Carmencita, perché portavo le trecce».
La serie sul Paradiso l’ha seguita lei.
«Bisognava stare attenti, avevamo un consulente vicino al Vaticano. Una volta mi convocò il cardinal Ravasi e appena chiese “Ma San Pietro...” pensai: arriva la scomunica».
E invece?
«Voleva sapere di Riccardo Garrone, che lo interpretava: sua sorella era appassionata».
Registi e attori erano di primissimo piano.
«Da Lucchetti a Salvatores a D’Alatri. O Solenghi, Julia Roberts, Paolo Bonolis, Luca Laurenti, Enrico Brignano».
Il suo viaggio iniziatico?
«Nel 2001 in Brasile, con mio cugino Marco. Andammo a visitare la Fazenda Paraiso, il capostipite era amicissimo di mio nonno. Ci fecero scavare una buca, mettere una piantina di caffè, innaffiarla. Il Vietnam, dopo, è stato una scoperta: c’erano piantagioni molto estese. E poi l’Etiopia, con la piantagione che nasce spontanea, sito Unesco. Abbiamo un accordo con il governo per raccogliere il caffè, a mano: si chiama Kafa».
Siete al Grande Slam.
«Decidere di portare il caffè nella patria del tè, a Wimbledon, creò una scossa. Al fotografo Martin Parr abbiamo affidato il compito di documentare la diversità del pubblico in Inghilterra, Francia, Australia e Stati Uniti».
È presidente dell’Adisco Piemonte, l’Associazione donatrici italiane sangue del cordone ombelicale. Perché?
«Perché mia mamma era presidente prima di me. Così come da mio padre ho raccolto il testimone in azienda, da lei ho preso quello per l’impegno sociale».
È anche presidente del Castello di Rivoli, museo di arte contemporanea. Come riesce a fare tutto?
«Bevendo molti caffè!».