Corriere della Sera, 7 aprile 2023
Intervista a Tommaso Paradiso
Tommaso Paradiso ha vinto undici dischi d’oro e trentasei di platino. Però è un tipo che sta molto per conto suo. Ora, dopo una lunga pausa, torna con un singolo dal titolo «Viaggio intorno al sole». Con un tour che inizierà a novembre.
«Sono contento. Io sono posseduto dal mio lavoro. È una passione fare tutto: scrivere testi, comporre musica, eseguirla in un disco o dal vivo. È una febbre che mi mangia dentro, quando non c’è. Sinceramente ho difficoltà a relazionarmi con altro che non sia la musica. La vita mi ha consentito di far diventare la mia passione addirittura il mio lavoro. E io le sono grato».
Mi spiega il senso di due frasi che compaiono nel testo del suo ultimo brano? La prima è: «Cosa dobbiamo fare se il cielo è minaccioso».
«Quando l’ho scritto era una giornata uggiosa, il cielo era grigio. Ma quello era anche il colore che mi sembrava, e mi sembra, dominare il tempo che viviamo. Eravamo usciti finalmente dalla pandemia, con il suo strascico di ansia e di cupezza, e ci siamo trovati immersi in una guerra, con l’attacco russo all’Ucraina. Quella frase è la confessione di un senso di impotenza. La pandemia, la guerra, potrei aggiungere la crisi climatica: la sensazione è che siano eventi di tale dimensione da essere ingestibili. Anche in una fase della storia in cui gli esseri umani, con il diffondersi della democrazia, sembrano essere più arbitri che mai del loro destino. Siamo liberi, almeno più di prima, ma non sembriamo essere nella possibilità di orientare il corso di eventi che ci sovrastano e condizionano la nostra vita, la morte di molti, l’ansia di tutti».
La seconda frase che ho trovato nel testo e mi ha interessato è: «I progetti che facciamo vengono spazzati».
«È una frase che riecheggia quella scritta da John Lennon in Beautiful Boy: “La vita è quello che ti accade mentre sei impegnato a fare altri piani”. La nostra vita è fare piani, non necessariamente riguardanti il destino del mondo. Anche trovare una casa, un lavoro, cenare con amici. Poi arriva il destino e scombussola tutto, è un cataclisma che spazza progetti e costringe a rifarli continuamente. E poi questa stagione della nostra esistenza mi sembra dominata dal quotidiano, da ciò che ci viene mostrato, imposto freneticamente come tema di discussione. Persino le nostre parole quotidiane sono condizionate dalla messe di dati e di informazioni che in modo incessante ci vengono dispensate. Siamo ossessionati dai numeri, dall’immediato, dal successo di un istante che alimenta la nostra autostima e placa le nostre ansie. Tutto il sistema dei media, specie quello digitale, impone a cadenza regolare un monoargomento che deve impegnare le parole di tutti, ovunque. L’algoritmo è un imbuto nel quale, dalla parte larga, vengono immessi milioni di dati e da quella più stretta esce una sola goccia che deve imporsi e valere per tutti. Il nuovo pane quotidiano ce lo fornisce l’algoritmo, dio e padrone».
Lei ha studiato e amato la filosofia…
«È stato il professor Chiaradonna, durante gli studi universitari, a introdurmi alla passione per il pensiero, quello che aspira a comprendere il mondo e gli umani. Lui mi ha fatto amare Platone. Ma, più in generale, io penso che solo il sapere, fondato sul dubbio, emancipi dai rischi di barbarie. Dove c’è ignoranza, la civiltà è destinata a soccombere. È la conoscenza che ti consente di essere davvero arbitro del tuo destino, ti conferisce il primo potere: quello della comprensione delle cose. Io oggi ho grande fiducia nei ragazzi. Noi negli anni Ottanta forse non sentivamo di avere tante battaglie da fare. I ragazzi di oggi sì. Hanno messo all’ordine del giorno temi davvero epocali come l’ambiente e i diritti individuali».
Come ha vissuto la pandemia?
«Siamo tutti sfiniti, abbiamo creduto che il virus, mettendo a repentaglio le nostre vite, ci avrebbe uniti. Invece ci ha sgretolato, destrutturato, reso fragili ed esasperato la nostra emotività».
La musica
Fatico a relazionarmi con altro che non sia la musica: la mia passione è anche il mio lavoro
Lei ha sofferto di un disagio che ora è molto diffuso, gli attacchi di panico.
«L’ho affrontato, questo problema, con l’analisi. Ed è stato molto utile. Le cose ora vanno meglio. Il primo episodio fu quando avevo diciotto anni, alla fine della scuola. È un momento difficile, per i ragazzi. Ci si separa da molte certezze e da quel momento di attesa e di scoperta che è l’adolescenza e ci si sente proiettati in una dimensione sconosciuta, chiamati a fare sul serio. In classe, lo ricordo ancora, fui impressionato da un quadro del Seicento in cui veniva rappresentato un uomo con il corpo da angelo e la testa da diavolo. Mi mancò il respiro, corsi fuori a cercare aria e acqua da gettarmi sul viso. Da allora ne ho avuti molti di episodi così e una volta sono anche finito in ospedale. Ora sono quasi spariti e comunque l’analisi mi ha dato gli strumenti per razionalizzarli e dominarli».
Com’era la sua stanza da ragazzo?
«Molta musica, sulle pareti e nell’aria. Ho cominciato a suonare che avevo 17 anni con un gruppo che si chiamava i Kosmoradio. La mia stanza era tappezzata da disegni di John Lennon, da un poster degli Oasis che avevo preso a una discoteca che si chiama “L’Allegretto” e poi una televisione, uno stereo e dei libri. Di scuola, che non potevo rivendere perché li sottolineavo freneticamente, ma anche romanzi classici come Bel Ami o I Promessi sposi, che mi piacevano molto. Tra i contemporanei ho molto amato Underworld di De Lillo».
So che è appassionato della commedia all’italiana.
«Sì, vado matto per tutta quella parte di storia del cinema italiano. Io cerco, nei prodotti dell’immaginario, un riparo, una riconciliazione, vorrei sentirmi protetto. Quei film hanno l’effetto di farmi stare bene. E mi piacciono i colori e i paesaggi di quelle stagioni, mi piace enormemente l’Italia prima che fosse saccheggiata e imbruttita architettonicamente».
Lei è cresciuto senza padre, che è andato via quando aveva sei mesi, e quindi avendo come riferimento esclusivamente una figura femminile.
«All’inizio non mi accorsi neanche di avere un padre. Per questo sorrido quanto ascolto certi discorsi sulla necessità delle due figure tradizionali come garanzia di una famiglia perfetta. Per me, bambino, era quella formata da mia madre e da me, la famiglia giusta. Mamma, per sopperire all’assenza di una figura maschile, è stata molto severa. Talvolta mi incuteva persino terrore, lo faceva per proteggermi, perché poi mi ha sempre ricoperto d’amore e di cura e mi ha sempre lasciato libero di fare la mia strada. Ancora oggi siamo molto legati. Recentemente sono stato a pranzo con lei e a un certo punto, eravamo su una terrazza da cui Roma sembrava ancora più bella, si è messa a piangere. Era semplicemente contenta che fossimo insieme, tutto qui».
Ha mai incontrato suo padre?
«No, non l’ho mai conosciuto. Si è fatto vivo solo una volta, su Instagram. Io avevo messo una frase tratta da un mio brano, “Dr. House”. In foto ero con Carlo Verdone, al quale voglio un gran bene. La frase che avevo postato era: “Ma forse cerco solo un padre”. Lui ha scritto sotto “Guarda che un padre tu ce l’hai”. Non ho mai risposto, non voglio farmi del male, non voglio cercare tormento. Non so cosa lui abbia fatto nella vita e il suo volto l’ho visto solo quella volta, quando sono risalito al suo profilo. Non ho provato emozioni. Lo schermo del cellulare raffredda, mette distanza. E poi ora non ho più paura del vuoto».