Corriere della Sera, 7 aprile 2023
A venticinque anni dagli accordi del venerdì santo
La Terra di Mezzo trattiene il respiro: perché 25 anni dopo gli accordi del Venerdì Santo – siglati il 10 aprile del 1998 – l’Irlanda del Nord è ancora come sospesa in un limbo, a metà fra Gran Bretagna ed Europa, fra conflitto e pace, fra passato e futuro.
Oggi una catena umana per celebrare l’anniversario dell’intesa che mise fine a trent’anni di guerra civile si stenderà tra la cattolica Falls Road e la protestante Shankill Road, le due roccaforti dell’odio, i bastioni delle comunità in lotta: a separarle fisicamente c’è ancora un muro – che qui chiamano il Muro della Pace – l’ultimo rimasto in Europa, che ricorda anche fisicamente quello che divideva Berlino, con la barriera di cemento ricoperta di graffiti, il metallo e il filo spinato a sormontarlo.
«Grazie agli accordi ci pace mi sono potuto togliere il passamontagna», racconta Robert, un ex guerrigliero dell’Ira che si è fatto 12 anni di carcere per aver piazzato bombe nel centro di Belfast. «La nostra tattica è cambiata, ma l’obiettivo strategico resta lo stesso: la fine dell’occupazione britannica in Irlanda del Nord». Lui era uno dei compagni di prigionia di Bobby Sands, il martire icona dei nazionalisti repubblicani cattolici, morto per uno sciopero della fame nel 1981 nel carcere di massima sicurezza del Maze, il Labirinto: Robert racconta di essere entrato nell’ala giovanile dell’Ira a 14 anni ed essere passato nei ranghi militari dell’organizzazione a soli 17 anni. A 18 anni l’arresto, seguito da ben quattro anni di confino solitario: dopo il rilascio, a seguito degli accordi del Venerdì Santo, è diventato un attivista del Sinn Féin, il partito braccio politico ed erede dell’Ira.
La parabola di Robert è quella della guerriglia repubblicana, passata dalla lotta armata alla competizione elettorale: tanto che il Sinn Féin ha vinto le ultime elezioni politiche in Irlanda del Nord, l’anno scorso. Loro sanno che il vento della Storia soffia nelle loro vele: «Non sono mai stato così fiducioso che entro la fine di questo decennio avremo il referendum sulla riunificazione dell’Irlanda», assicura Robert, mentre ci accompagna lungo Falls Road, costellata dai celebri murales che inneggiano a Bobby Sands e decorata con bandiere irlandesi alle finestre e sugli usci delle case. L’ex guerrigliero è oggi impegnato a nutrire il dialogo e la cooperazione con la comunità protestante e può permettersi di apparire magnanimo: «Le milizie lealiste uccisero mio nonno», racconta, «ma adesso io stringo la mano al figlio dell’assassino».
Per passare dall’altra parte si attraversa un cancello di ferro che chiamano Checkpoint Charlie, come nella Berlino della Guerra Fredda: qui l’estate scorsa si sono riaccesi gli scontri fra i giovani delle due comunità, a colpi di molotov e pietrate. Perché l’atmosfera che si respira nella protestante Shankill Road è di tutt’altro tono: «Io non sono irlandese, sono un uomo dell’Ulster che difende la sua britannicità», proclama Noel, un veterano delle milizie paramilitari lealiste che si è fatto 16 anni di galera dopo essere stato condannato a quattro ergastoli per una serie di omicidi. «Oggi so che era sbagliato», aggiunge, «ma ho ucciso i cattolici perché l’Ira non poteva fare quello che ha fatto senza il sostegno di tutta la loro comunità».
Noel si dice ormai rassegnato alla prospettiva di una Irlanda unita, «ma non credo», sospira, «che il Paese potrà mai essere veramente unito, dopo tutta quella violenza e il sangue versato». E soprattutto, sostiene, «noi protestanti dell’Ulster siamo stati traditi dai britannici e da Boris Johnson: lui non potrà mai dirmi cosa sono, io sono più britannico di lui!». Ed è questo senso di sconfitta, di essere finiti dalla parte sbagliata della storia, che si avverte lungo Shankill Road, che è tutta una Spoon River, un martirologio delle vittime dell’Ira: un sentimento di rassegnazione, ma anche di frustrazione pronto a sfociare in rabbia.
L’Irlanda del Nord venne creata 101 anni fa, dopo l’indipendenza della Repubblica d’Irlanda, per garantire una maggioranza permanente alla comunità protestante dell’isola: era in un certo senso l’ultima colonia dell’Impero britannico, un luogo in cui i cattolici avrebbero dovuto restare per sempre cittadini di seconda classe. Ma la spinta demografica portò alla crescita del sentimento cattolico-nazionalista, che guardava alla Repubblica d’Irlanda a sud, e lo scontro fra le due comunità divenne inevitabile: è quello che in Gran Bretagna chiamano con eufemismo i Troubles, i «disordini», nella realtà una guerra civile, scandita dagli attentati dei terroristi repubblicani dell’Ira e dalle ritorsioni dei paramilitari lealisti, che fece 3.500 morti, in maggioranza civili.
Fu il governo di Tony Blair, nel 1998, che riuscì a trovare una soluzione: l’Irlanda del Nord diventava una sorta di provincia condivisa fra Londra e Dublino, dove si poteva essere cittadini britannici o irlandesi o tutt’e due le cose, mentre le comunità protestante e cattolica accettavano di spartire il potere su un piano di parità. Un espediente, uno stratagemma che rinviava a un futuro remoto una scelta definitiva, ma che aveva senso nel momento in cui sia la Gran Bretagna sia l’Irlanda appartenevano all’Unione Europea e dunque ci si poteva sciogliere in un’identità sovranazionale.
L’uscita di Londra dall’Ue ha fatto crollare il castello di carte. S’imponeva una decisione, di qua o di là: proprio quanto gli accordi del Venerdì Santo volevano evitare. Il confine fra le due Irlande, di fatto sparito, diventava l’unica frontiera fisica tra Regno Unito e Unione Europea: e per evitare di riaprire la ferita, la cui ricomposizione era alla base degli accordi di pace, si è lasciata l’Irlanda del Nord nel mercato unico e creato di fatto un confine con la Gran Bretagna. Ma questo ha scatenato l’ira della comunità protestante, che si è vista staccata da Londra e abbandonata al destino di una riunificazione con la Repubblica cattolica di Dublino.
Il governo britannico di Rishi Sunak ha appena raggiunto un accordo con l’Unione Europea che mira proprio a venire incontro al disagio dei protestanti, ma loro non ne sono convinti e il loro partito unionista continua a boicottare per protesta le istituzioni di Belfast: «L’Irlanda del Nord è stata tradita da Johnson», dice Ian Paisley jr, il figlio di quel reverendo Paisley che fu il leader carismatico dei protestanti. «Boris aveva assicurato che non ci sarebbe stato un confine con la Gran Bretagna, invece ci hanno lasciato in una terra di nessuno, siamo diventati una zona di quarantena per l’Unione europea. L’eredità dei Troubles va ancora avanti, non è mai stata risolta dagli accordi del Venerdì Santo».
«No, la pace è solida, non era un accordo perfetto ma ha creato una atmosfera di positività», sostiene invece Michael Culbert, il direttore del Coiste, il comitato di sostegno degli ex prigionieri dell’Ira e anche lui ex membro della guerriglia. «Vogliamo convincere la gente con il referendum, dare assicurazioni ai lealisti che temono per la loro identità, non dovranno essere trattati come lo eravamo noi nazionalisti».
È in questo contesto che la prossima settimana arriva a Belfast il presidente americano Biden, per marcare il venticinquennale degli accordi di pace: «Ogni presidente Usa è sempre benvenuto», conclude sarcastico Paisley. «Ma Biden dovrà trovarsi qualcosa d’altro da celebrare».