il Giornale, 8 aprile 2023
L’atomica da minaccia a icona pop
Come erano spensierati gli anni Ottanta. Ma siamo sicuri che non sia un cliché? In mezzo alle discussioni sulle Timberland, tra una puntata del Drive In e l’altra, capitava di accendere la radio e ascoltare Sting che, in vista di una apocalisse atomica, cantava Russians: «Spero che anche i russi amino i loro figli». Al cinema, c’era Rocky che prendeva a cazzotti il pugile del Cremlino, Ivan Drago. Ma anche The Day After dove, il giorno dopo l’apocalisse atomica, i cittadini morivano come mosche senza ali. In televisione capitava di imbattersi nella replica di un film del 1964 sempre attuale e protagonista di ogni cineforum che si rispettasse: Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick. Ultima scena: un soldato-cowboy precipita a cavallo di una bomba simile a Little Boy, soprannome della atomica che rase al suolo Hiroshima il 6 agosto 1945, poco prima della fine della Seconda guerra mondiale. A proposito, nel 1980 un singolo degli Orchestral Manoeuvres in the Dark fu un successo clamoroso. Titolo: Enola Gay, il nome del bombardiere B-29 Superfortress che sganciò Little Boy sulla città giapponese. Ma andava forte anche Two Tribes dei Frankie Goes to Hollywood, in cui l’apocalisse atomica era data ormai per imminente. Sui giornali non era infrequente imbattersi in servizi sui metodi sicuri per difendersi da una esplosione atomica nelle vicinanze. In sostanza, si consigliava di nascondersi sotto un tavolo e aspettare. Mah. I più fortunati, quelli che abitavano nelle vicinanze di una centrale atomica, in funzione fino al 1987-88, avevano un surplus di informazioni sul rischio delle radiazioni. In caso di incidente, bastava non mangiare, non bere, non uscire di casa, tenere le finestre chiuse e aspettare. Inutile invece nascondersi sotto il tavolo. Senza contare le poco rassicuranti esercitazioni durante le quali cittadine agresti che erano da poco passate dal calesse all’automobile diventavano all’improvviso più trafficate del centro di Bogotà. Per la serie: nessuno uscirà vivo da questo ingorgo. Nel 1986 comunque passò sulla nostra testa la nube atomica proveniente dalla centrale di Chernobyl. Anche in quell’occasione furono diramate istruzioni particolareggiate, tipo: state in casa, chiudete le finestre e non mangiate l’insalata per qualche giorno. Poi arrivarono Gorbaciov, il disgelo, la crisi irreversibile dell’Unione Sovietica, il crollo del comunismo. Il mondo tirò un sospiro di sollievo, c’era sempre la possibilità che la scalcagnata Armata Rossa facesse cadere per terra qualche testata nucleare per errore, ma il pericolo peggiore, una guerra totale, sembrava scongiurato. Certo, non tutto era esattamente a posto. Per dire, un giornalista riuscì a entrare di notte nella centrale dismessa di Caorso, chiamata amichevolmente «Arturo» dagli abitanti, e a farsi fotografare accanto al nocciolo. I giornali, specie dopo l’11 settembre 2001, insistevano sul pericolo di una bomba sporca, cioè di una bombetta atomica fatta con scorie di uranio o altro materiale radioattivo, pare che ce ne fossero a bizzeffe in giro per il mondo. Tutto sommato, però, la bomba atomica sembrava destinata a diventare soprattutto un’icona culturale e artistica. Questa convinzione non è durata molto. La guerra in Ucraina ha rimesso sul tavolo la minaccia atomica, con la distinzione, che vorrebbe essere tranquillizzante, fra atomica tattica, dall’impatto limitato (ancora una volta: mah), e atomica Fine del mondo. Poi ci sono le previsioni imprevedibili su quale uso dell’atomica potrebbe fare una Intelligenza artificiale, in un futuro non troppo remoto. Abbiamo attinto dai ricordi ma tutto questo e moltissimo di più si trova nel libro La trappola atomica. Come la bomba ha contaminato la cultura pop (Ultra edizioni, pagg. 408, euro 19,50) di Camilla Sernagiotto, già autrice di un bel saggio sulla maledizione del Dakota Building di New York, il palazzo davanti al quale fu ucciso John Lennon. Il titolo è ispirato a una frase di Albert Einstein: «L’uomo ha inventato la bomba atomica, ma nessun topo al mondo costruirebbe una trappola per topi». Sernagiotto parte dalla creazione della bomba a Los Alamos e arriva alla più recente serie di Twin Peaks di David Lynch. Secondo l’autrice, il regista avrebbe proprio realizzato una metafora del Progetto Manhattan, il programma militare statunitense per l’ideazione e la produzione dei primi ordigni nucleari. In mezzo, c’è una incredibile mole di materiale che dimostra come la bomba abbia segnato il famoso immaginario collettivo, contaminando, è il caso di dirlo, tutta la produzione culturale, dalla letteratura al teatro, dai fumetti alla musica. E ancora: videogiochi, cinema, radio, televisione, giornali, riviste, serie tv, cartoni animati. Se non sapessimo fin troppo bene quali sono gli effetti della bomba, e non conoscessimo l’ecatombe toccata al Giappone, diremmo che perdersi in questo saggio enciclopedico è addirittura divertente. Ci sono intere correnti artistiche e cinematografiche consacrate al fungo atomico, che diventa una icona pop grazie alle serigrafie del re della pop art: Andy Warhol. L’atomica è una presenza fissa nella musica pop. Abbiamo già fatto qualche esempio ma dobbiamo ricordare Bob Dylan, tra i primi a mettere in musica il pericolo atomico, e l’intero genere Heavy Metal dove il fungo è una presenza costante (d’altronde uno dei gruppi estremi di maggior successo si chiama Nuclear Assault). I videogiochi hanno esplorato le peggiori situazioni. L’elenco sarebbe sterminato, si va da Fallout a Wolfenstein, per limitarci a due serie amate dagli smanettoni. Nella seconda, i nazisti fanno saltare in aria Manhattan. Tra i film, oltre ai citati, ricordiamo la serie del Pianeta delle scimmie, dove l’uomo, a causa di una guerra nucleare regredisce a vantaggio appunto delle scimmie. Nei capitoli successivi al primo, si scopriva anche una setta di adoratori dell’atomica. Speriamo siano solo vecchie storie.