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 2023  aprile 08 Sabato calendario

L’epopea del Mississippi

C’è un luogo comune nella letteratura americana fatto di non luoghi comuni. A un tratto, non per forza per colpa di una crisi, una persona prende e si mette in viaggio. Che sia per fare fortuna o che sia per immergersi nel caos, che sia per ritrovare sé stesso o per perdersi nelle molteplici identità, poco importa. La cosa che conta è partire, come recitava uno dei personaggi di quella piccola bibbia della fuga come spola tra smarrimento e ritrovamento che è Sulla strada (titolo da sempre fallace, perché on the road vuol dire, appunto, «in viaggio») di Jack Kerouac. D’altronde c’era già tutto nei versi di Walt Whitman: «Straniero, se passando m’incontri e desideri parlarmi, / perché non dovresti parlarmi? / E perché io non dovrei parlare a te?». Tra i tanti viaggiatori, ci fu un caso lampante negli anni ottanta. Un vecchio professore di letteratura, in difficoltà dopo il divorzio, si ribattezzò con un nome indigeno, William Least Heat-Moon, e si mise a girare tutti gli Stati Uniti lungo le strade secondarie. Ne uscì un caso mondiale, ossia Strade Blu, ancora saldamente nel catalogo Einaudi. Parallelamente ci furono altri esperimenti, altre ricerche (o quest), meno fortunate dal punto di vista commerciale ma comunque valide, e tra queste si annovera Mississippi Solo, il romanzo in cui Eddy L. Harris, in crisi con la propria vocazione di scrittore, negli anni ottanta decise – più avventatamente che avventurosamente – di discendere l’intero corso del principale fiume americano in canoa, da solo, senza avere quasi mai pagaiato in vita sua.«Gli indiani ojibwe lo chiamano Mesipi, il grande fiume. Per altre tribù è il padre delle acque. Il Volga viene definito il Mississippi russo, il Murray-Darling, il Mississippi d’Australia. Ma il Mississippi non si può paragonare a nient’altro. Più che un fiume o un corso d’acqua, è un sistema fluviale che si estende dalle Montagne Rocciose alla catena degli Appalachi». Maestoso, certo, ma anche minaccioso, per tanti motivi. «Il Mississippi è infestato di fantasmi, passati e presenti. È il corso d’acqua a cui si deve l’espressione sell down the river, che nel frattempo ha acquisito il significato di “ingannare”, in riferimento agli schiavi che venivano scambiati a Louisville per essere spediti nelle piantagioni del Sud, di fatto una condanna a morte. Questo è il fiume della Cancer Alley, il “vicolo del cancro”, una striscia di territorio tra Baton Rouge e New Orleans, dove centinaia di industrie rilasciano nell’aria un cocktail micidiale di veleni, dove l’80 per cento degli afroamericani vive in quartieri inquinati e dove, in alcune comunità, il rischio di contrarre un tumore è cinquanta volte la media nazionale». È l’epica del journey, del pellegrinaggio, che proprio perché imprudente e accidentato potrebbe portare alla saggezza o insomma a una più profonda conoscenza dell’io. E così Eddy evoca Hemingway e ignora gli amici assennati. «Perché lo fai, domandavano. Che vuoi dimostrare? Perché non ti butti direttamente dalle cascate del Niagara, dentro una botte?». Contro il parere di tutti si mette a scivolare con poche provviste, una pistola, un salvagente. Non ha i soldi, non ha l’equipaggiamento. È spaventato, infreddolito. Si ritrova in punti di secca, tra le correnti precipitose, sotto la pioggia. Ci prende gusto, decide di rinunciare, ricomincia. E vede di tutto.«Il fiume non può fare a meno di collegare, come il vecchio che influisce sulla vita delle persone, seppure in modo impercettibile. O come una causa nazionale. Come una squadra di baseball amata. Come la povertà. Qualcosa di condiviso». Incontra un vecchio pescatore gentiluomo che ammannisce perle di saggezza, un paio di balordi disoccupati che mestamente non fanno che trincare birra tutto il giorno, una donna dalle braccia da boscaiolo che gli salva la canoa dalle acque tempestose, una quantità di persone disposte a conoscerlo, a salutarlo, a guardarlo con il fascino un po’ ebete con cui si contemplano gli uccelli esotici. Ma anche con qualcosa di più sinistro. Già, perché ho tralasciato un dettaglio non poco rilevante: Eddy è nero. Lui liquida la faccenda in modo singolare: «Per me il colore della mia pelle non ha mai costituito un problema, è più una caratteristica fisica, un po’ come il fatto di essere alto». Ma non è così semplice: attraversa terre in cui alla sua entrata il locale si zittisce, si becca insulti sottovoce, viene guardato storto. Sembra insomma portare in giro la sua identità in modo sbilenco, involontario, non tanto per provocare, quanto per svelare, aprirsi al mondo e lasciare che il sospetto, la diffidenza, perfino la cattiveria si stemperino contro la sua inermità. È una strategia con una sua bella ingenuità, tanto che nel 2016 ripercorrerà l’itinerario per farci un documentario, più consapevole e politico.