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 2023  marzo 06 Lunedì calendario

Biografia di Michael Eisner (Michael Dammann Eisner)

Michael Eisner (Michael Dammann Eisner), nato a Mount Kisco (New York, Stati Uniti) il 7 marzo 1942 (81 anni). Dirigente d’azienda. Imprenditore. Dirigente sportivo. Fondatore e presidente della società di investimenti Tornante Company (2005) e della casa di produzione multi-piattaforma Vuguru (2006). Ex presidente (1984-2004) e amministratore delegato (1984-2005) della Walt Disney Company e direttore generale e direttore operativo degli studi cinematografici della Paramount Pictures (1976-1984). Presidente del Portsmouth Football Club (dal 2017). «Non abbiamo alcun obbligo di fare la storia. Non abbiamo alcun obbligo di fare arte. Non abbiamo alcun obbligo di fare dichiarazioni. Fare soldi è il nostro solo obiettivo» • «Gli avi di Michael Eisner erano ebrei immigrati da Germania e Boemia che fecero fortuna negli Stati Uniti. Sigmund Eisner, il bisnonno di Michael, giunse dal villaggio boemo di Horažďovice negli Stati Uniti nel 1881. Iniziando come venditore ambulante, mise a profitto due macchine da cucire in un’impresa che confezionava uniformi per i boy scout e per l’Esercito degli Stati Uniti, inclusi i Rudi Incursori di Teddy Roosevelt. Sposò Bertha Weiss, appartenente a una famiglia di immigrati tedeschi che erano fondatori della città di Red Bank, nel New Jersey settentrionale. […] Tuttavia, la famiglia della madre di Michael Eisner era ancora più prospera della famiglia di suo padre. La famiglia di Margaret Dammann fondò la American Safety Razor Company. Michael Eisner stesso crebbe a Park Avenue, nell’Upper East Side di Manhattan, e trascorreva le vacanze nella tenuta dei nonni materni nella contea di Westchester. […] “Sono cresciuto in una famiglia benestante, ma da bambino non ci ho mai riflettuto molto”, ha scritto. “Davo semplicemente per scontato che tutti vivessero come noi”» (Mark I. Pinsky). Fu il padre, l’avvocato e amministratore regionale del dipartimento federale delle Politiche abitative e dello Sviluppo urbano Lester Eisner, a plasmare «l’identità religiosa e morale di Eisner. […] “Mio padre era fiero di essere ebreo, ma la morte di sua madre aveva minato ogni sua fede in una religione organizzata. C’era un po’ più d’interesse nel ramo materno della mia famiglia, ma eravamo ebrei più per cultura che per religione”. Il rapporto di Eisner con suo padre fu spesso problematico. “La più grande sfida nella mia vita è stata provare a incontrare le aspettative di mio padre, sia moralmente sia intellettualmente”, ha scritto Michael nella sua autobiografia. Da lui “ho imparato la via retta e stretta: nessuna scorciatoia e nessun raggiro”. Suo padre aveva “feroci parametri etici. Manteneva un severo codice di condotta persino quando farlo significava andare contro i suoi stessi interessi”. Lester installò uno dei primi televisori per la sua famiglia e, in un primo momento, il solo spettacolo che la famiglia guardasse era Texaco Star Theater, col comico ebreo Milton Berle. I genitori di Michael avevano una regola – che il bambino spesso violava –, per cui doveva passare due ore a leggere per ogni ora che aveva passato a guardare la televisione. […] Anche Maggie Eisner aveva una forte coscienza sociale. Era presidente dell’Irvington Institute, un ospedale che trattava bambini con febbre reumatica. È qui che il giovane Michael ebbe la sua prima esperienza di “noblesse oblige”. Lavorare nell’ospedale, ha detto nella sua autobiografia, “mi aprì gli occhi su quelli meno fortunati di me”» (Pinsky). Uscito dalla Denison University con un baccalaureato in Inglese, «ha fatto la gavetta […] in tv: Nbc, Cbs, infine l’Abc, dove incontrò Barry Diller» (Maurizio Ricci). «È alla Abc che Diller prende l’abitudine […] di convocare estenuanti riunioni a porte chiuse, durante le quali pone i suoi collaboratori l’uno contro l’altro finché non viene fuori un’idea brillante. Fra gli altri, in questo periodo, si ritrova nella sua squadra anche Michael Eisner. […] Diller è uno di quelli che hanno fatto la fortuna della Abc e, in particolare, è quello che per primo individua la free-spending audience, cioè quel gruppo di telespettatori in continua crescita, composto da yuppies, il cui credo è “guadagnare e spendere”. È a loro che, agli inizi degli anni Settanta, Diller si rivolge dalle frequenze della Abc con Happy Days. […] Nel 1974 Diller ed Eisner si spostano alla Paramount e triplicano, in sei anni, i profitti della vecchia major, grazie a film quali La febbre del sabato sera, Grease e I predatori dell’arca perduta e grazie a tv show come Mork & Mindy» (Glauco Benigni). All’epoca invece la Disney era un «gruppo allo sbando: […] rimasta nel 1966 improvvisamente orfana del vecchio patrono Walt senza che ci fosse stato il tempo per strutturare un nuovo staff dirigente, la società aveva conosciuto un progressivo inarrestabile declino» (Eugenio Occorsio). «Sopravviveva grazie ai vecchissimi film e ai parchi divertimento della California e della Florida. Disneyland e Disneyworld. Le pellicole nuove erano o di serie B o fallimentari, con qualche rarissima eccezione. Tra gli azionisti di maggioranza, la vedova di Walt e gli altri congiunti, la discordia era totale. Periodicamente, qualcuno tentava di prelevare la casa, come il magnate della carta stampata Murdoch (l’impresa gli è poi riuscita con la 20th Century Fox). Il rinnovamento è incominciato col cambio di proprietà. Nell’84, al termine di poderosi intrighi, i fratelli Bass e la fetta principale della famiglia Disney hanno trovato un’intesa, e si sono assicurati il controllo degli studi. Al seguito dei Bass sono arrivati Eisner, l’amministratore delegato Richard Frank [in realtà, direttore generale dei Disney Studios – ndr] e il responsabile del settore cine e tv Jeffrey Katzenberg [cioè presidente dei Disney Studios – ndr], di soli 33 anni. La troika proviene dalla Paramount, che a Hollywood è considerata il simbolo della buona gestione. Ha fiuto, esperienza, coraggio e soprattutto lavora 12 ore al giorno» (Ennio Caretto). Eisner «fino a quel momento non ha mai visto un film Disney, neanche Biancaneve e i sette nani, né è mai andato a Disneyland. Per mettersi nei panni del direttore della società, come vuole la tradizione aziendale, accetta dunque di trascorrere una giornata intera vestito da Topolino nel parco d’attrazione Disneyland. Nel frattempo Michael Eisner ha già firmato il contratto, accompagnato dai suoi avvocati. L’accordo prevede uno stipendio annuale di settecentocinquantamila dollari, più un bonus dello stesso valore alla firma del contratto, e naturalmente una gran quantità di stock option – punto centrale del contratto e fattore che lo renderà miliardario. Si aggiungono poi un bonus annuale del 2 per cento su tutti i profitti della Disney, clausole rescissorie esorbitanti e, ciliegina sulla torta, un prestito di 1,5 milioni di dollari senza restituzione. Come in Cenerentola, dove i sogni diventano realtà, Michael Eisner diventa l’uomo meglio remunerato di tutta la storia di Hollywood. […] Ma Eisner non pensa in grande solo per se stesso: le sue ambizioni riguardano anche Disney. Vuole che diventi immensa. I risultati che ottiene sono proporzionali al suo stipendio» (Frédéric Martel). A capo della Disney, Eisner «seppe rivitalizzarla e riavviò la crescita, puntando sul cinema come macchina da soldi ma rendendo più capillare la diversificazione: dai parchi a tema all’editoria, dal merchandising dei Disney Store e degli accordi commerciali (da McDonald’s a Coca-Cola) ai viaggi-avventura e divertimento (il gruppo possiede due navi crociera da 85 mila tonnellate e 17 alberghi con 22 mila stanze). La stagione dei successi riprese con The Little Mermaid (La sirenetta) nel 1989 fino alla consacrazione del Re leone, per preparare il quale un team della casa rimase otto mesi in Kenya a studiare animali, paesaggi, usanze, stregoni. Intanto Disney acquisiva nella televisione l’Abc, uno dei tre canali storici americani, e l’Espn (numero uno delle cable tv), nonché una serie di stazioni a pagamento per rafforzare i vari Disney Channel» (Occorsio). «Eisner è il manager del sogno, capace di fondere insieme il talento creativo di Walt con il senso degli affari del fratello Roy Disney» (Oscar Cosulich). «Per lungo tempo riesce a dirigere Disney come accadrebbe all’interno di un racconto fantastico in cui le zucche si trasformano in stock option. A un certo punto, però, le cose si complicano, a cominciare da Pixar, […] giovane azienda specializzata in tecnologie grafiche innovative. […] Katzenberg ha capito quanto Pixar fosse all’avanguardia nei film d’animazione e, da buon mediatore, ha stretto relazione con John Lasseter, che è diventato la figura artistica principale dell’innovativa start-up di San Francisco. […] Realizzato da John Lasseter, prodotto da Pixar, finanziato e distribuito da Disney, Toy Story batte tutti i record al botteghino nella settimana della sua uscita nel 1995, incassa 191 milioni di dollari negli Stati Uniti e 356 in tutto il mondo. Lasseter vince un Oscar. […] Michael Eisner […] chiede allora a Schumacher, il responsabile dello studio d’animazione, di negoziare un contratto di collaborazione con Pixar su più anni: sette film, incassi divisi, a Disney l’intero controllo dei prodotti derivati e del franchise. In poco tempo grazie a questo contratto la quota di Pixar negli introiti dello studio d’animazione Disney raggiunge la soglia del 97 per cento. Tuttavia, progressivamente, la relazione tra la major e lo studio “indipendente” diventa poco produttiva. Aumentano le tensione sulla libertà di creazione, soprattutto per via dei veti imposti da Eisner a diversi progetti di Pixar. […] La crisi si aggrava, e le due case rompono il sodalizio. Disney rimane così priva dello studio d’animazione» (Martel). Analoga parabola ebbe la collaborazione con la Miramax, «etichetta indipendente, nota per il tocco “indie” e provocatore. […] Disney ha acquisito Miramax nel 1993 per solo un centinaio di milioni di dollari. Importanti successi confermano la lungimiranza di Eisner e il genio dei fratelli Weinstein, che sanno promuovere i loro film indipendenti come se fossero film di cassetta: Pulp Fiction, nel 1994, incassa da solo 108 milioni di dollari, solo al botteghino americano, cioè di più di quanto non sia costata l’acquisizione di Miramax. Seguono poi successi come Shakespeare in Love, Gangs of New York e The Hours. Tuttavia, la situazione cambia in breve tempo: Eisner è verticista e riesce difficilmente a tenere a freno la personalità dei fratelli Harvey e Bob Weinstein, ai quali comincia a stare un po’ stretta l’alleanza con Disney. In regime di “indipendenza controllata”, imposto da Disney, la rottura si consuma quando Eisner rifiuta loro di fare l’adattamento cinematografico del Signore degli anelli (realizzato poi con il noto successo con il concorrente Time Warner), riscrive al ribasso il budget di Ritorno a Cold Mountain e, soprattutto, quando censura l’uscita di Fahrenheit 9/11 di Michael Moore (il film costato 6 milioni di dollari e distribuito con circuito indipendente nel 2004 con incassi di 220 milioni in tutto il mondo). I fratelli Weinstein lasciano Disney (che resta proprietaria del marchio) e fondano una nuova etichetta, la Weinstein Company. Una disavventura simile tocca anche a Jeffrey Katzenberg. […] Quando il numero due della Disney, il presidente Frank Wells, muore in un incidente in elicottero, l’ambizioso Katzenberg, che dirige gli studios Disney ed è artefice dei successi cinematografici del gruppo degli ultimi anni, è convinto che quel posto spetti a lui di diritto. […] Eisner […] gli nega questa promozione e lo invita a dimettersi. Ne segue una lunga cronaca giudiziaria attorno all’indennizzo richiesto da Katzenberg, che è sostenuto da personaggi di spicco di Hollywood, in particolare da Steven Spielberg e dal produttore musicale David Geffen. Katzenberg vince in appello, intasca 208 milioni di dollari, che reinveste creando una casa cinematografica concorrente a Disney, DreamWorks Skg (quest’ultima sigla indica le iniziali dei tre fondatori: Spielberg, Katzenberg, Geffen). Arrivano anche grandiosi successi, come American Beauty, Kung Fu Panda, Shrek, Minority Report e Madagascar» (Martel). «Gli avversari di Eisner aumentano con il moltiplicarsi dei suoi flop, anche cinematografici, con Atlantis e, soprattutto, Il pianeta del tesoro in testa: le due grandi produzioni che avrebbero dovuto arricchire i botteghini e che invece li hanno lasciati a secco. A combattere la sua leadership anche Roy E. Disney, nipote di Walt e figlio di suo fratello Roy O., che era l’amministratore della società, colui che tremava a ogni impresa e a ogni innovazione del creatore di Mickey Mouse. Su una cosa Roy ha sicuramente ragione. Walt non era un affarista: lui voleva conquistare il suo pubblico, anche a costo di rimetterci. La Disney di Eisner, che sembra pensare solo ai conti, non è più capace di farli tanto bene» (Luca Raffaelli). «Il successo ha portato a un’involuzione dello stile manageriale: la gestione è diventata sempre più autoritaria, centralizzata. L’assunzione e il rapido licenziamento di Mike Ovitz fu il primo campanello d’allarme. E, mentre i conti economici peggioravano, un gruppo di azionisti guidato da Roy Disney […] cercò di mettere in riga l’onnipotente Eisner. Nell’assemblea del 2004 il 43 per cento degli azionisti votò contro la rielezione di Eisner» (Arturo Zampaglione). Poco dopo Eisner si dimise da presidente della Disney, e l’anno successivo anche da amministratore delegato. «La caduta di Michael Eisner, l’uomo che ha permesso a Disney di diventare un conglomerato mediatico di caratura internazionale, è davvero indicativa poiché rivela che l’intrattenimento non è un settore industriale come gli altri. L’incapacità di gestire le personalità dei creatori, il loro bisogno di libertà, ha portato Eisner a essere spodestato da una coalizione creatasi in nome dello zio Walt e capeggiata da Roy Disney. […] In ogni caso, il successo commerciale di Micahel Eisner non è in discussione. Gli utili netti di Disney ammontavano a circa 100 milioni di dollari l’anno in cui è arrivato alla presidenza della multinazionale e sono schizzati a 4,5 miliardi quando si è dimesso. Nel 1984 un’azione della Disney valeva 1,33 dollari, vent’anni dopo ne vale 25» (Martel). «Uno dei punti di scontro della gestione Eisner era l’opportunità di acquistare la Pixar. […] Appena uscito Eisner, che si opponeva strenuamente, […] la Disney ha concluso l’acquisizione. È costata 7,6 miliardi di dollari in azioni e ha consegnato grazie al concambio a Jobs [all’epoca presidente della Pixar – ndr] la posizione di primo azionista della stessa Disney con il 3%» (Occorsio). Nel 2005, dopo aver lasciato la Disney, Eisner «ha formato una sua compagnia, Tornante, puntando su internet e i nuovi media. E anche in questo nuovo settore ha conosciuto il successo, soprattutto con Prom Queen, una serie per il web che ha avuto milioni di spettatori in ogni parte del mondo. Molte altre produzioni, nate per la rete e poi approdate in tv, hanno portato Eisner tra i protagonisti della “nuova Hollywood”, quella in bilico tra vecchi e nuovi media. Il termine “nuovi media” non le piace molto… “Perché non vuol dire molto. È tutta la vita che io ho a che fare con i nuovi media: quando ho iniziato c’erano tre network nazionali, e quando arrivò il quarto era un new medium. Poi c’è stato il cavo, ed era un new medium, poi ancora il satellite, la pay tv e l’intera rivoluzione dell’home video, con i videoregistratori e le videocassette. Ci sono sempre nuove tecnologie, e se vuoi guidare un’azienda e vuoi andare sempre avanti, come ho fatto io negli anni Sessanta e Settanta con la Abc, la Paramount e la Disney, devi saper prendere al volo le occasioni offerte dalle nuove tecnologie, e cercare di capire come usarle per far arrivare il tuo contenuto al mercato”. […] Perché ha scelto una parola italiana, Tornante, per la sua azienda? “Ero in viaggio in Italia in bicicletta ed ero in montagna. A ogni curva che facevo c’era questa parola, ‘tornante’. Appena sceso dalla montagna ricevetti una chiamata dal mio avvocato, che mi disse che avevano bisogno di un nome per la compagnia. Così decisi per Tornante. Aveva senso: significava svolta, con una certa quota di rischio, una curva pericolosa ma allo stesso tempo in grado di dare grande soddisfazione. ‘Superare un tornante’, come mi hanno detto degli amici italiani. E poi mi piaceva il suono”» (Ernesto Assante). Nel 2017, attraverso la Tornante, Eisner ha acquistato il Portsmouth Football Club, squadra di calcio inglese militante nella terza divisione, di cui è tuttora proprietario e presidente • Sposato, tre figli • Cardiopatico, a metà anni Novanta fu salvato dall’impianto di quattro bypass • «Un cattivo carattere particolarmente pronunciato» (Ricci) • «Una superstar del business americano» (Martel) • «Tra i grandi nomi dell’industria dell’intrattenimento degli ultimi cinquanta anni, quello di Michael Eisner è uno dei più importanti. […] Lei è un uomo dei “vecchi media” che ha scelto di essere nel nuovo campo. “Se i vecchi media includono la mitologia greca, Shakespeare, Eugene O’Neill e Happy Days, io sono fiero di essere parte dei vecchi media, perché vuol dire che tu capisci le motivazioni e i personaggi, sai come far ridere o piangere la gente. New media, invece, vuol dire avanzamenti tecnologici e nuove forme di distribuzione. Per ora l’intrattenimento e la cultura sono quelli degli old media, e le forme di distribuzione sono dei nuovi. Insomma, io non penso al contenuto per il web come a qualcosa di diverso. È distribuito diversamente, ma le belle storie lo sono a priori. Se quello che il pubblico vede è interessante o divertente, non fa differenza se lo vede sullo schermo di un computer o sul televisore di casa. La tecnologia mi interessa, insomma, solo nella misura in cui consente di accedere più facilmente ai contenuti”» (Assante).