3 marzo 2023
Tags : Paolo Virzì
Biografia di Paolo Virzì
Paolo Virzì, nato a Livorno il 4 marzo 1964 (59 anni) . Regista. Tra i suoi film: La bella vita (1994, David di Donatello e Nastro d’argento miglior regista esordiente), Ferie d’agosto (1995), Ovosodo (1997), Caterina va in città (2003), Tutta la vita davanti (2008, Nastro d’argento e quattro Ciak d’oro), La prima cosa bella (2010, tre David di Donatello, quattro Nastri d’argento, due Ciak d’oro e un Globo d’oro), Il capitale umano (2014, sette David di Donatello, sei Nastri d’argento, un Globo d’oro e quattro Ciak d’oro), La pazza gioia (2017, cinque David di Donatello). Da ultimo Siccità (2022). «Credo di essere l’unico regista italiano che ha lavorato in fabbrica. Bè, quando facevo il liceo classico, d’estate, per mantenermi».
Vita Figlio di Francesco, carabiniere siciliano, e di Franca Antongiovanni, ex cantante di musica leggera che si esibiva in coppia con Teddy Reno negli anni Cinquanta: «Mio padre era un conservatore, mamma invece di famiglia socialista, comunista, un po’ stalinista, la nonna materna era un’ebrea di Praga. Sono cresciuto contestando mio padre, con cui ci prendevamo a seggiolate mentre mi urlava “sono un servitore dello Stato, un apolitico!”, e ascoltando i discorsi dei vecchi al bar della Federazione Anarchici, dove noi ginnasiali capelloni venivamo conquistati dalle canzoni di Fabrizio De Andrè e dalle storie di zio Aldo Rosner, operaio in cantiere» • «Nel 1969, quando avevo cinque anni, mia madre Franca, una donna che ho molto amato dal ciclo umorale già notevolmente accentuato, ebbe una disavventura gravissima. Partorì un bambino senza vita, dopodiché impazzì. La mia confidenza con la psichiatria viene da allora. Dall’essermi seduto vicino a lei durante le interminabili ore trascorse nelle sale d’attesa, dall’averla accompagnata da tanti medici, dall’averla vista passare dai brevi, fugaci stati di catatonia in cui non si voleva nemmen alzar dal letto, alla perdurante euforia in cui anche il passante per strada era qualcuno a cui voler bene. Mi incontravano e indifferenti al mio imbarazzo mi dicevano: ‘Ho conosciuto la tu’ mamma’. Lo dicevano ridendo perché lei era spudorata, mitomane, eccessiva e non di rado attaccava bottone con gli sconosciuti. In una storia in cui c’è ovviamente anche molto dolore, della meravigliosa follia di mia madre, mi ricordo soprattutto la parte giocosa» (a Malcom Pagani) • «Mia mamma, come tutte le mamme, voleva che io facessi il dottore. Io volevo fare mille cose come tutti i ragazzi. Volevo fare la rivoluzione. Volevo andare sulle Ande. Volevo fare il veterinario. Il maestro elementare. Sicuramente non volevo fare il cinema» (a Daria Bignardi) • «Le prime esperienze di regia? “Se escludo l’assistenza che davo a mio cugino, fotografo di matrimoni, direi i primi piccoli spot per Telegranducato. Cose ingenuissime, sgangherate, da registino. Benedetti Elettronica Livorno, oppure ‘Ottica Mugnai, una questione di stile, solo in Piazza Attias’. Quando feci il mio primo film, La bella vita, per dare vita al presentatore televisivo Gerry Fumo mi ispirai a quell’epoca. Ai salottini dove incontravo crooner di retroguardia, intrattenitori sfigati e soubrettine locali”. Si spostò a Roma all’età di vent’anni. “In una pensioncina in via Marsala, divisa con le prostitute nigeriane. Loro fumavano erba. Io suonavo la chitarra, cantavo Bob Marley e non avevo una lira in tasca. Un giorno a rompere l’idillio arrivò un energumeno. Si presentò come fratello. Mi intimò di non rompere più i coglioni alle sue sorelle”. Dove si trasferì? “Prima di una stanza al Nuovo Salario, in appartamento con Francesca Neri, fendendo la città con la mia 127 giallo vomito, ci fu il tempo della pensione Sole. Io e altri tre allievi del Centro Sperimentale a dividere una camera tra puzze di piedi e polli arrosto divisi, anzi strappati democraticamente con le mani. Quella è un’epopea comica che mi piacerebbe raccontare. Io ero un ragazzo che veniva dallo sprofondo e mi portavo dietro un irrimediabile senso di goffaggine. Francesca Marciano mi trascinava da Bertolucci. Era un universo che non capivo. Gli ospiti sorseggiavano il thè. Il thè per me era qualcosa che si beveva solo quando si era malati” (a Malcom Pagani) • A 21 anni è a Roma dove vince il concorso per il Centro sperimentale di cinematografia: «I suoi maestri sono Gianni Amelio per la regia, Furio Scarpelli e Suso Cecchi d’Amico per la sceneggiatura. I film più amati, I compagni di Mario Monicelli e La classe operaia va in paradiso di Elio Petri. A metà degli anni Ottanta, il cinema italiano entra nella sua prima, grande crisi: sono gli anni del riflusso, l’impegno è fuori moda, i kolossal americani conquistano anche gli spettatori che un tempo andavano nelle cantine e al cineforum. Il militante Virzì vota Pci, Pds, chiacchiera volentieri con Achille e Aureliana Occhetto, vota sì alla svolta della Bolognina, ascolta a cena da amici Massimo D’Alema, “che nel privato è divertentissimo, molto simpatico” ma con la macchina da presa vuole restare neutrale, anzi. Costruisce i suoi grandi successi sulle contraddizioni e i vizi dei suoi simili, dei suoi compagni, prima con La bella vita e Ferie d’agosto, fino a Caterina va in città, piccolo capolavoro sulla confusione sociale e su certe diffuse ipocrisie delle sinistre romane» (Barbara Palombelli) • Nel 2006 qualche polemica all’uscita di N - Io e Napoleone per due sberleffi a Berlusconi e i riferimenti che ne fece durante la presentazione: «Gigioneggia su Napoleone che promette un nuovo “miracolo elbano” e fa dire a un personaggio “Maestà mi consenta”. Una strizzatina d’occhio che fa ripiombare il cinema italiano nelle angustie della provincia piccola piccola» (Pierluigi Battista). Ernesto Ferrero, l’autore del romanzo da cui è tratto il film, parlò di piccola imprudenza in una lettera al Riformista dal titolo “Caro Virzì, non c’era bisogno di scomodare Berlusconi” • Nel 2014 all’uscita di Il capitale umano è di nuovo polemica. La rappresentazione cinematografica della Brianza fa infuriare alcuni assessori comaschi e gli esponenti leghisti di Monza, che accusano il regista di aver dato un’immagine stereotipata della zona. «Cercavo un posto che restituisse una bellezza inquietante, l’ho trovato, ho girato. Como non è davvero Como, la Brianza ovviamente non è la Brianza e il campanile in questa pseudo tavola rotonda non c’entra niente. Ho preso ispirazione dal luogo, nulla di più, come del resto mi è capitato di fare spesso proprio nel posto in cui sono cresciuto, Livorno» (a Malcom Pagani) • Il suo sogno è una sala traboccante di persone di tutte le età che seguono il film commentando anche un po’ rumorosamente: «Perché le storie narrate al cinema, oltre ad essere un piacevole passatempo a buon mercato, aiutano a capire se stessi, gli altri e magari a vivere un po’ meglio» (a Irene Maria Scalise) • Ama disegnare. «“Vedo che lei è uno difficile”. Osservando lo stupore sincero del giovane artista, lo sconosciuto prese il libretto degli assegni e vi scrisse sopra “un milione di lire”. Paolo Virzì aveva diciannove anni, e quella tavola di compensato dipinta coi pastelli a olio sul lungomare della sua Livorno, mare in tempesta dietro a un signore che legge il giornale, fu l’unico dipinto mai venduto in tutta la sua vita. “Era un gallerista importante di Roma, ma io non lo sapevo. Forse pensava volessi tirare sul prezzo, o forse voleva solo fare il gradasso. Fatto sta che mi si affacciò alle spalle, guardò il quadretto e fece l’offerta. Io, con quell’assegno in mano, mi sentii come il signor Bonaventura”. Il disegno è compagno quotidiano di vita e di set per il regista toscano. Ma sulle pareti dell’ufficio minuscolo e colorato della sua Motorino Amaranto, nel quartiere romano dell’Ostiense, ci sono solo i suoi ritratti più cari. La madre Franca, un “selfie” di famiglia, un Pinocchio dal volto umanissimo. Nessuna traccia dei bozzetti fatti sui tanti set. La pazza gioia, Il capitale umano, Tutti i santi giorni sono solo fogli sparsi. “Non li custodisco. Quelli che vede sono gli scarti, i migliori se li portano via durante la lavorazione. Non esistono storyboard ordinati, solo schizzi estemporanei ad uso assolutamente pratico. […] Credo di essere stato preso al Centro Sperimentale di cinematografia proprio perché sapevo scarabocchiare caricature. Durante una delle prove scritte di ammissione – eravamo in duemila nell’aula magna – mentre stò lì a rimuginare sul testo, faccio il ritrattino di un membro della commissione che intravedo laggiù. Alto, una figura da antico romano. Non lo so ancora, ma è lo sceneggiatore Leo Benvenuti. Dietro le mie spalle arriva un signore con gli occhialetti e la giacca di tweed. Mi prende la penna, corregge il naso – “è più piccolo” mi fa. Poi mi strappa il disegno, lo porta al docente e li vedo da lontano che se la ridacchiano insieme. Passo all’orale e solo allora capisco che il signore in tweed è Furio Scarpelli. Beh, ancora oggi sono convinto che se mi hanno preso è per quel disegnetto, il testo era una vera stronzata”» (ad Arianna Finos)
Politica Sostenitore del Pd, il suo nome circolò come possibile candidato nelle liste del partito di Veltroni: «Non mi candido, fossi matto!», è stata la sua risposta • Nell’aprile del 2018 si è presentato a un’assemblea del circolo Pd di Ostiense: «Sono venuto qui per fare l’esploratore e vi chiedo, ma che cazzo avete combinato a Roma?». «Assediato da compagni ex pci ed ex ds Virzì picchia forte, rimprovera a Matteo Renzi la “torbida” defenestrazione del sindaco Ignazio Marino, sferza la “debole” opposizione dei dem a Virginia Raggi e li sprona a confrontarsi con i 5 Stelle sul loro stesso terreno: “Attenti a irridere, da sinistra, la democrazia diretta o il reddito di cittadinanza». E ce n’è anche per il presidente del Pd, che Virzì bacchetta per le ironie contro Carlo Calenda: “Scusa Orfini, non ci serve un buttafuori, non ci piace. Ci serve un buttadentro”» (Monica Guerzoni) • «Mai avuta la tessera del Pd. Solo quella del Pci. Mi iscrissi nel 1989 dopo la Bolognina perché m’interessava assistere al dibattito che era in corso in quel momento. […] I grillini sono un mistero, un grande enigma e sarei molto curioso di capire quale sono davvero le loro proposte oltre la propaganda, i programmi che scrivono e poi cambiano in corsa dopo il voto. E sarei curioso anche di assistere alle loro riunioni, andare nelle loro sezioni a ficcare il naso» (a Marco Gasperetti) • «Abbiamo avuto la scena politica occupata per vent’anni dal miliardario grottesco e la sinistra popolare, inibita, si è costruita un recinto di bellezze che escludeva l’uomo comune. Era il tema di Ferie d’agosto, tema già superato. Oggi le cose sono cambiate. C’è Trump, che grida: “Non dobbiamo vergognarci di essere egoisti, ma pensare soltanto ai cazzi nostri”. È un discorso che mentre un pezzo di pianeta preme alla porta e l’altro mezzo trema, insieme al mai tramontato richiamo all’ordine, rischia di fare presa» (a Malcom Pagani).
Amori Sposato con l’attrice Micaela Ramazzotti, dalla quale ha avuto i figli Jacopo (2010) e Anna (2013). I due si sono lasciati nel 2018, con tanto di comunicato. Poi rimessi insieme. «Virzì aveva conosciuto Ramazzotti nel 2007 durante i provini di Tutta la vita davanti: un colpo di fulmine che aveva gonfiato le vele della coppia, sull’altare nel 2009 e sul set insieme con La prima cosa bella e La pazza gioia. Un sodalizio artistico che aveva portato Ramazzotti al David di Donatello nel 2010 come attrice protagonista per La prima cosa bella e dato nuova linfa al cinema di Virzi, che presentando a Venezia Ella & John – The Leisure Seekers aveva dichiarato nel 2017: “Immagino Ella & John come me e Micaela fra molti anni. Forse mi sono immedesimato, ci ho visti finire la nostra vita così, in maniera gloriosa, con una storia romantica senza romanticismo. Una storia umana”» (Ilaria Ravarino) • È separato dall’attrice Paola Tiziana Cruciani, conosciuta durante gli studi al Centro sperimentale, da cui ha avuto la prima figlia Ottavia.
Calcio Tifa per il Livorno. Ha chiamato la sua società “Motorino Amaranto”: «Era il soprannome di Magnozzi, un mito del calcio livornese. Amaranto, il colore della mia città disgraziata» • «Noi livornesi siamo come i sioux. Un attaccamento alle radici folle, commovente. La verità è che non c’è nessun motivo di essere così entusiasti di essere livornesi. Ho cominciato ad amare quel posto di merda solo al momento in cui sono andato via sbattendo la porta».