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 2023  marzo 28 Martedì calendario

Biografia di Mimmo Jodice

Mimmo Jodice, nato a Napoli 24 marzo 1934. Fotografo.
Titoli di testa «Quando si fotografa bisogna sapere fermare il tempo, senza che lui se ne accorga. Altrimenti si vendica. E distrugge quello che fai»
Vita Secondo di quattro figli. «Sono nato in uno dei rioni più difficili di Napoli, la Sanità, e non l’ho mai dimenticato. Nel 1939 muore mio padre, avevo cinque anni, lascia mia madre vedova con quattro figli; nel 1940 scoppia la guerra, i bombardamenti. Ho cominciato a lavorare che non avevo neanche dieci anni, ero uno scugnizzo, non avevamo da mangiare. Facevo il garzone nei negozi. Un poco alla volta ne siamo venuti fuori, ma mi porto dietro questa eredità di sofferenza. Poi, per puro caso, mi è capitata una fotografia in mano. Negli anni Cinquanta c’erano o i professionisti che facevano i matrimoni, o i fotoclub, i fotoamatori, che facevano a gara per il bel ritratto, il bel paesaggio. A me non andavano bene né l’uno né l’altro. Però grazie a questo primo contatto con la fotografia cominciai a vedere. Il più delle volte vedevo senza fotografare, non è che uscivo con la macchina fotografica, ero un povero disgraziato che lavorava. Ho imparato a inquadrare senza macchina fotografica, con gli occhi» [ad Antonio Politano, Rep] • Prima di fare fotografia ha fatto molto disegno e pittura • «La fotografia è entrata nella mia vita per caso, quasi fosse stato un destino segnato: allora disegnavo, mi infilavo clandestinamente nelle stanze dell’Accademia per rubare qualche segreto sulla pittura, non pensavo alla fotografia. Poi un mio caro amico morì e il padre mi regalò il suo ingranditore. Tutto cominciò così, con una scatola di cartone con dentro un Durst 609. Non avevo la macchina fotografica, così le immagini me le inventavo in camera oscura, mettendo nei portanegativi pezzi di stoffa, cartoncini, foglie, di tutto. Era una fotografia sperimentale. Eravamo a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta: c’erano straordinarie onde di rinnovamento, avevamo alle spalle il Neorealismo, vedevamo il primo Rauschenberg, il Living Theatre, leggevamo Ginsberg. Tutta la creatività, tutti gli atteggiamenti stavano cambiando. Mi sono trovato con questo ingranditore per le mani in un momento storico straordinario. E allora ho cominciato a fare quello che fino ad allora in camera oscura era proibito. Semplicemente scardinavo le regole per approdare a una mia identità ma sempre con la convinzione che la fotografia non si poteva tenere fuori dall’arte» [Gianluigi Colin] • Negli anni Sessanta frequenta l’ambiente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, iniziando una serie di sperimentazioni sugli aspetti linguistico-tecnici della fotografia, intesa non come mezzo descrittivo ma come strumento espressivo • Nel 1967 decide di dedicarsi completamente alla fotografia: espone per la prima volta il suo lavoro alla Libreria La Mandragola di Napoli e pubblica la sua prima fotografia sull’edizione italiana della rivista Popular Photography. Del 1968 la sua prima mostra a Urbino e l’ingresso di Jodice nel mondo dell’arte: inizia la lunga e proficua collaborazione con Lucio Amelio (e con altri galleristi napoletani come Lia Rumma), attraverso il quale conosce alcuni tra i più importanti esponenti delle avanguardie: Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Joseph Beuys, Gino De Dominicis, Giulio Paolini, Josef Kosuth, Vito Acconci, Mario Merz, Jannis Kounellis, Sol LeWitt ed Hermann Nitsch. In questi anni di rinnovamento e contestazione [Giornale dell’Arte] • Il pensiero corre al suo De Chirico. «La sua pittura è stata fondamentale per lasciare fuori ogni velleità sociale e antropologica. Quella pista metafisica mi ha poi portato a scoprire gli artisti che nei primi anni Settanta passavano dalla galleria di Lucio Amelio. Il mio studio non era distante. Era il periodo della Land Art e della Body Art. Da Amelio passavano Pino Pascali, Vettor Pisani, Kounellis, Giulio Paolini e Vito Acconci, un artista della Body Art. Venne da me un giorno per un ritratto». Cosa accadde? «Preparai la macchina fotografica e lui si tolse la giacca, poi la camicia, si sfilò i pantaloni e infine le mutande. Restò nudo. Imbarazzato non sapevo che fare. Prese un pennarello e cominciò a scrivere delle frasi sulla fronte, poi sul petto, tra le cosce. A quel punto scattai. Dopo di che si rivestì, salutò e se ne andò. Rimasi lì come un cretino. Questa era l’arte: qualcosa di incredibilmente spiazzante. Acconci era nato a New York. Molto prima di Marina Abramovic scoprì l’uso del corpo: la fisicità, il gesto, la provocazione» [Gnoli, cit.] • «Poi sono finito come docente di fotografia all’Accademia di Belle Arti di Napoli, il primo in Italia, negli anni Settanta. Il direttore dell’Accademia amava il mio lavoro e diceva: oggi i giovani vogliono fare la fotografia, sono interessati. Ma poiché non c’era la possibilità di darmi un incarico, il primo contratto fu come aiuto elettricista per tre mesi; un altro, come aiuto scenografo; il terzo, come addetto alle luci. Intanto si era sparsa la voce, alle mie lezioni venivano anche ragazzi di architettura, ingegneria, archeologia. Il direttore mise un grosso registro all’entrata, raccogliendo in poco tempo 3-4000 firme, le portò al ministro della cultura che istituì la prima cattedra di fotografia. In quegli anni la fotografia era considerata di serie B, non le si riconosceva la dignità di altre forme espressive» [Politano, cit.] • «Fu Lucio Amelio che nel 1980 fece conoscere Joseph Beuys e Andy Warhol. Li fotografai a Piazza dei Martiri. Accanto al leone di pietra. Warhol aveva messo una mano nelle fauci e Beuys con un pennarello aveva stilizzato un cappello in mezzo alla criniera». Ha avuto modo di frequentarli? «Sì, del resto ero piuttosto famoso a New York, le mie mostre avevano raccolto consenso tra pubblico e critica. Entrambi vennero nel mio studio. Con Warhol una mattina ci recammo in un mercato. Eravamo nella parte vecchia della città. Andy sembrava una donnetta che si aggirava nei vicoli. La gente lo guardava incuriosita. Alla fine ci fermammo davanti a un banco e lui comprò dei fichi secchi. Per un attimo pensai che quel frutto un po’ gommoso somigliasse alla sua faccia. Ci siamo rivisti altre volte a New York. Parlava pochissimo il che era un sollievo per uno come me» [Gnoli, cit.] • La frequentazione con il musicologo e studioso di tradizioni popolali Roberto De Simone, conosciuto nel 1969, consolida in lui l’interesse per le feste e i rituali religiosi di Napoli e del Sud e la passione per l’indagine antropologica: insieme, nel 1974, pubblicano il volume Chi è devoto. Del 1970 è la mostra alla Galleria Il Diaframma di Milano, Nudi dentro cartelle ermetiche, presentata da Cesare Zavattini. Nel 1971 conosce lo storico dell’arte e dell’architettura Cesare de Seta, con il quale condivide uno studio a Napoli fino al 1988. L’epidemia di colera scoppiata nella città nel 1971 lo spinge a lavorare sulla situazione sociale, sviluppando un’indagine sullo stato di miseria e di degrado che sta alla base di tale tragedia: ne deriva la mostra Il ventre del colera, presentata al Sicof di Milano nel 1973. Nel 1974 compie un viaggio in Giappone. Nel 1975 viene pubblicato il volume Mezzogiorno. Questione aperta. La fotografia sociale di Jodice si discosta dal reportage tradizionale ed è orientata alla ricerca di tipi sociali, di figure simboliche, di scenari anche organizzati sui valori plastici dei luoghi e dello spazio urbano. Prosegue intanto le sue ricerche di taglio più prettamente linguistico sulla fotografia [Giornale dell’Arte] «Ho anche fatto foto politiche e sociali. Era sul finire degli anni Sessanta. Mi piaceva la turbolenza che allora si percepiva. Poi a Napoli arrivò una giunta di sinistra e io pensai: finalmente faremo grandi cose. Ma non accadde nulla. E compresi che anche la speranza era venuta meno. In quel momento cambiò tutto» [Gnoli, cit.] Il 1980 è un anno cardine per la carriera di Jodice: la pubblicazione di Vedute di Napoli segna la fine del periodo sociale e l’approdo totale ai paesaggi, teatri di spiritualità e reminiscenze oniriche [ElleDecor] • «Volevo testimoniare la mia grande delusione e il solo modo era raccontare una città vuota e morta. Feci un lavoro fotografico alludendo a una città fantasma, senza volto. Ricordo che cominciai a fotografare le sculture di spalle. E poi le piazze vuote; le vie deserte. Scuotevo la testa. Felice e rabbioso per tanta ostilità. Il tempo divenne una categoria insignificante» [Gnoli, cit.] •«Un vero fotografo è anche un artigiano» • «Ho lavorato per più di dieci anni per la rivista Il cuore batte a sinistra, indagando su temi come ospedali, carceri, lavoro minorile, disoccupazione. Sapevo dove trovare quella sofferenza umana, quelle miserie, non dovevo fare un lavoro, stavo lì, i soggetti non sapevano nemmeno cosa fosse una macchina fotografica. Stampavamo la notte e poi attaccavamo le fotografie su pali e le andavamo a mettere lungo le strade nei quartieri dei ricchi perché volevamo che l’altra parte di Napoli conoscesse questa Napoli» [Politano, Rep] • «La mia fotografia non ha niente a che vedere con il fissare l’attimo fuggente. Nel mio lavoro ci sono tre fasi: la progettazione che comporta una lunga riflessione, la realizzazione che mi spinge a cercare diversi itinerari e infine la stampa in cui vengono accentuati tutti quei simboli che ho trovato» [a Lea Mattarella] • Quanto tempo impiega per fare una foto? «Spesso delle ore. A volte perfino giorni. Quando hai l’impressione che l’immagine stia per sparire, quello è il momento» [Gnoli, cit.] • «Fu Lucio Amelio che nel 1980 fece conoscere Joseph Beuys e Andy Warhol. Li fotografai a Piazza dei Martiri. Accanto al leone di pietra. Warhol aveva messo una mano nelle fauci e Beuys con un pennarello aveva stilizzato un cappello in mezzo alla criniera». Ha avuto modo di frequentarli? «Sì, del resto ero piuttosto famoso a New York, le mie mostre avevano raccolto consenso tra pubblico e critica. Entrambi vennero nel mio studio. Con Warhol una mattina ci recammo in un mercato. Eravamo nella parte vecchia della città. Andy sembrava una donnetta che si aggirava nei vicoli. La gente lo guardava incuriosita. Alla fine ci fermammo davanti a un banco e lui comprò dei fichi secchi. Per un attimo pensai che quel frutto un po’ gommoso somigliasse alla sua faccia. Ci siamo rivisti altre volte a New York. Parlava pochissimo il che era un sollievo per uno come me» [Gnoli, cit.] • Lo studio dell’architettura e dell’arte antica è anche rafforzato dal suo lavoro come fotografo d’arte a fianco di importanti archeologi e storici dell’arte come Eugenio Battisti, Giulio Carlo Argan, Giuliano Briganti e Fausto Zevi. Dalla collaborazione con loro nascono importanti pubblicazioni, come Michelangelo scultore (1989), Antonio Canova(1992), Paestum (1990), Pompei (1991-92) e Neapolis (1994), in cui lo sguardo di Jodice fissa in immagini partecipate la solennità e al tempo stesso la quotidianità delle opere d’arte custodite nei musei [Giornale dell’Arte] • Negli anni Novanta Mimmo Jodice è come se, in una sorta di chiusura esistenziale, avesse maturato uno sguardo rivolto alla storia remota fotografando le sculture classiche greco-romane. «Quello è stato il mio viaggio nel passato. Sono andato alla ricerca delle mie radici, dell’origine della nostra cultura che mi desse la possibilità di ritrovarmi. E con la statuaria classica anche la riscoperta del Mediterraneo e delle sue atmosfere pacificanti. Mi sono detto: ecco, noi siamo questo» [ad Alessandra Pacelli, Il Mattino] • Lei ha fotografato già tutta l’opera di Michelangelo e di Canova, cosa l’affascina di una statua? «È che amo la scultura. Se tornassi indietro e potessi ricominciare da capo la mia storia farei lo scultore. La scultura è una cosa che mi prende intensamente». Forse perché la scultura è ferma, come è ferma la fotografia anche quando rappresenta un movimento… «Non saprei, ma il fatto di plasmare la forma è un atto straordinario. Mi affascina Michelangelo quando diceva che la scultura è già tutta nel blocco di marmo, basta togliere il superfluo. È straordinario fare uscire da questa massa, poco alla volta, un’immagine». Si fotografa una statua o un altro oggetto per documentarlo o testimoniarlo. Nel suo caso, la fotografia di un’opera è in se stessa un’opera autonoma. Com’è possibile mutuare questi due linguaggi così diversi? «Tutto il mio lavoro non è mai stato di documentazione, qualsiasi siano stati i generi. Non vado in giro per vedere cose da documentare. Lavoro su dei progetti, cioè su dei temi, su argomenti che possono essere il mare o il mondo antico. Ma non documento il mare. Cerco di ricavare dalla linea dell’orizzonte, l’acqua e il cielo, una suggestione forte. Allora non è più paesaggio». E con la scultura? «Non cerco di far vedere al meglio la perfezione della scultura. Chi osserva una mia fotografia di quella scultura non vede un pezzo di marmo o di bronzo, ma un momento vero di vita, un’espressione forte che coincide con i sentimenti, nel bene e nel male. Nella violenza o nella suggestione struggente delle qualità migliori possibili. La mia non è solo la bella fotografia che rappresenta al meglio la forma» [Ruggeri, Avvenire] • Tra le sue pubblicazioni Viaggio in Italia (1984), Mediterraneo (1995) o ancora Fotografia e trasformazione della città contemporanea (1998) • Nel 2001 pubblica Anni Settanta è infatti ancora centrato sulle persone e sulla denuncia delle ferite della città: la speculazione edilizia, il colera, gli ospizi, i vicoli, il lavoro minorile – c’è una foto sconvolgente in cui due ragazzini trasportano su un carretto una bara - e i migranti di allora, quando a partire in cerca di lavoro eravamo noi, i meridionali, gli italiani del Sud. E lui racconta e dice «guarda, guarda questa foto», e scorrono le facce antiche di donne giovani già segnate dalla fatica, un bambino dentro uno scatolone di cartone come un cacciuttiello [Alessandra Pacelli, Il Mattino ] • «Gli anni duemila sono invece quelli dello sguardo che si allarga al mondo. “Sì, ho fotografato le grandi capitali internazionali - San Paolo, Boston, New York, Montreal, Mosca, Tokyo, Lisbona - una visione metafisica del mondo”. Ed ecco l’immagine di una Venezia immota, senza turisti, come affondata nelle nebbie della sua laguna. “Sono fantasmi di città”. E c’è una foto di Torre del Greco che sembra un quadro di Sironi, con le ciminiere e le costruzioni di mattoni. “E poi c’è la grande mostra del 2011 al Louvre, l’unica mostra di fotografia mai fatta in quello strepitoso museo: cento mie immagini incentrate sullo sguardo, occhi di quadri e di persone vere messi sullo stesso piano e che si confondono tra loro”. Mimmo Jodice racconta con l’entusiasmo di un ragazzo, con la gioia consapevole di chi ha lavorato bene. E alle sue spalle sono appese al muro le lauree honoris causa, il cavalierato conferitogli dalla Repubblica francese, il premio dell’Accademia dei Lincei che per la prima volta riconosce valore a un fotografo. “Ho avuto tante soddisfazioni, tante mostre nei più importanti musei del mondo” dice, sapendo di essere anche un bell’uomo dal fascino immutato. “Il mio segreto è non aver mai fatto una bella fotografia ma aver sempre lavorato avendo in mente temi che fossero espressione creativa della mente”» [Pacelli, cit.] • Il 2014 è un anno importante: il 29 marzo Jodice compie ottant’anni; il Museo di Arte Contemporanea Madre di Napoli gli rende omaggio con il conferimento del Matronato alla carriera. Nello stesso anno una mostra dal titolo Mimmo Jodice. Arcipelago del mondo antico, a cura di Filippo Maggia e voluta dalla Fondazione Fotografia, viene presentata al Foro Boario di Modena nell’ambito del Festival della Filosofia 2014. Nel 2015 partecipa a Milano a due collettive: InsideOut a Palazzo della Ragione e Arts and Foods alla Triennale [Giornale dell’Arte] • Gli artisti sono complicati? «È raro che non lo siano. Troppe pressioni si scatenano dall’interno. Che possono rendere un artista, un grande artista, un uomo intrattabile». Ne ha conosciuti? «Sì, sono capaci di rendere la vita dura a sé e agli altri. Le racconto un episodio. Luca De Filippo venne da me a fare un po’ di pratica. Amava la fotografia. Era un carattere dolce e riservato. Un giorno mi disse: perché non viene a fare qualche foto a papà?». Papà era Eduardo. «Lui. Fu un episodio surreale quello che si realizzò. Mi ricordo che Luca mi fece accompagnare fin sotto il proscenio dove Eduardo recitava. Scattai alcune foto con una Leica silenziosa. Nonostante ciò, l’attore si sentì disturbato. Mi lanciò uno sguardo che avrebbe sciolto un blocco di ghiaccio. Finito lo spettacolo uscimmo. Luca si avvicinò e mi disse: il direttore la vuole vedere. Il direttore chi? Chiesi. De Filippo, precisò. Andammo nel camerino con Luca e la maschera che mi aveva accompagnato sotto il palco. Eduardo voleva licenziarli entrambi. Con la voce sorda, arrugginita, profonda bofonchiò qualcosa che non compresi. Ma il senso era chiaro: non vi azzardate più. A me e a mia moglie riservò solo un’occhiata di compatimento. Questo non dico che fosse Eduardo. Ma gli somigliava tantissimo. La vecchiaia non l’aveva addolcito» • E la sua vecchiaia? «La mia si fonda sulla memoria di ciò che è accaduto. Il passato è fondamentale ma va affrontato senza enfasi né retorica. Il passato è sempre un eccesso di cose e di sensazioni. Non puoi dedurlo dalla mente. Bussa alla tua porta. E quando apri non sai mai chi in quel momento avrai di fronte» [Gnoli, cit.] • «Oggi non c’è più la dimensione della fotografia come l’ho fatta io: mettere la pellicola in macchina, scattare, sviluppare il negativo, fare gli ingrandimenti. Passavo una vita intera nella camera oscura. La sera sviluppavo e poi stampavo tutto a mano anche di notte. Ora non più, da diversi anni. Oggi ci si mette al computer, è cambiato tutto. Ho circa 90 anni, non posso più fare quello che facevo prima, dieci anni fa. Sì, ogni tanto vedo. Da dove inquadrerei, da qui a qui. Una cosa l’ho assimilata, questo vedere. Non fotografo, ma è come se fotografassi» [Politano, cit.].
Amori Nel 1962 sposa Angela Salomone, compagna inseparabile, preziosa collaboratrice e madre dei suoi tre figli: Barbara (1963), Francesco (1967) e Sebastiano (1971).
Titoli di coda Perché sempre il bianco e nero? «Il colore è troppo descrittivo. E comunque in un’epoca dove c’è di tutto e di più io cerco di fare di niente e di meno. Dobbiamo recuperare una certa civiltà dello sguardo. Il mio compito è levare, semplificare. In fondo aspiro al vuoto» [a Marco Di Capua].