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 2023  marzo 31 Venerdì calendario

Biografia di Ettore Mo

Ettore Mo, nato a Borgomanero (Novara) il 1º aprile 1932 (91 anni). Giornalista. Storico inviato speciale del Corriere della Sera. «Il decano degli inviati. Di tutti gli inviati. Di guerra, ma anche di pace. Perché si è sempre considerato solo un cronista» (Elisabetta Rosaspina). «Sono da sempre un accanito sostenitore della testimonianza diretta: bisognerebbe vedere con i propri occhi e ascoltare con le proprie orecchie» • «Giornalisti non si nasce, ma si diventa. Guardi me: io provengo da una famiglia povera di operai piemontesi. Nessuno dei miei antenati aveva mai fatto il giornalista, e i giornali erano un lusso che si consumava all’osteria» (ad Antonio Gregolin). «Ettorino, figlio di un falegname, prese una sbandata per i libri d’avventura e gli idrovolanti che si levavano dalla spiaggia “per raggiungere un’altra parte del mondo, sconosciuta a noi bambini”» (Gian Antonio Stella). «Volevo essere un giramondo fin da ragazzino». «“Da ragazzo ero molto interessato all’opera, avevo anche una discreta voce tenorile, sa? Andai da un maestro a Padova: ‘Te gai una bela voce’. Così mi misi a studiare e contemporaneamente m’iscrissi all’università: Lingue a Ca’ Foscari. Ma non avevo una lira: per mantenermi facevo l’accompagnatore in un istituto per ciechi. D’estate andavo a fare il barista in Inghilterra. Finché non mi sono reso conto che la mia voce non era eccezionale, come dev’essere per qualsiasi cantante. Ho cambiato piani e ho deciso che scrivere era il mio mestiere. Ho abbandonato l’università, ma intuivo che le lingue erano importanti, così mi sono messo a viaggiare. Sono stato al Nord: a Stoccolma e perfino al Circolo polare artico. In Svezia facevo il lavapiatti, come tutti gli italiani. Ma anche il cantante in un night club…”. […] Che canzoni erano? “Napoletane, tipo Funiculì funiculà. Dopo un po’ le autorità svedesi mi hanno rimandato a casa perché non avevo il permesso di lavoro. A Parigi invece sono stato quasi un anno e ho fatto il cameriere, a Place de la Sorbonne. Andavo quasi tutte le sere a Montparnasse in un café dove c’erano Juliette Gréco, Yves Montand e Sartre. Non potevo entrare, costava molto: li guardavo dalla vetrina”» (Silvia Truzzi). «Proseguì […] facendo, tra gli altri, il bibliotecario ad Amburgo, il maestro di francese per i bambini del collegio Nuestra Señora de las Maravillas a Madrid. […] Per tornare infine in Inghilterra, a fare l’inserviente al Royal Hospital di West Hill, Putney, un ospedale per incurabili: “Chi c’era aspettava solo di morire. Dovevo rifargli il letto, imboccarlo, mettergli il catetere. Ci restai quattro mesi, aspettando il momento di partire per girare il mondo. Volevo vedere, conoscere, scrivere. Insomma, volevo fare il Conrad”» (Stella). «Esordio giornalistico? “Letterario, più che altro: al Corriere dei Piccoli, diretto da Mosca. Mi pubblicò due racconti, che facevo vedere a tutti per dimostrare che ero uno scrittore. A quel punto ho pensato seriamente di fare il giornalista”» (Truzzi). «Finalmente riuscì a imbarcarsi come cameriere di prima classe (“scrivi steward”) sul transatlantico Orsova. “L’itinerario era fantastico: Gibilterra, il Canale di Suez, l’India, Ceylon; e poi l’Australia, la Nuova Zelanda, le Fiji, e, su su, nel Pacifico, fino a Hong Kong, il Giappone, le Hawaii; quindi, giù giù, la California, il Messico, l’istmo fatato di Panama, il Mar dei Caraibi e di nuovo l’Atlantico, fino a Londra”. Quando rientrava sul Tamigi portava dei racconti di viaggio a Piero Ottone, allora corrispondente del Corriere. Ripartiva e aspettava. Finché un giorno gli arrivò la risposta» (Stella). «“La so ancora ancora a memoria: ‘Caro Mo, ho letto le sue cose. Lei sa tenere la penna in mano. Vedo che nel suo viaggio di ritorno c’è Napoli. Quando passa di lì, vada a trovare il mio amico Giovanni Ansaldo, direttore del Mattino’. Scendo a Napoli, mi metto il vestito della festa e saluto i miei colleghi dicendo ‘Io vado a fare il giornalista’. Ma Ansaldo non c’è. Altro giro per il mondo, finché non torno a Londra, dove mi aspetta una lettera di Alfredo Pieroni, che nel frattempo era diventato corrispondente al posto di Ottone. Vado da lui in Fleet Street, alla sede del Corriere. Avevo 29 anni”. E qui finalmente i sogni si avverano? “Mah, veramente facevo il vice del vice del vice. Tanto che, per cinque anni, i miei pezzi erano quasi sempre firmati ‘V.’. Una volta Gianni Brera, leggendo un mio articolo, chiese in milanese: ‘Ma chi l’è chel fiol lì che scrive inscì ben…?’. Ma non me ne fregava niente, della firma. Trovavo le notizie e gli altri le scrivevano. La prima volta che firmai feci comprare il giornale a tutti. Mio padre, che andava in giro a dire che io facevo il giornalista e nessuno gli credeva, finalmente era felice”» (Truzzi). Il primo articolo firmato da Mo sul Corriere («Londra si prepara a celebrare i 900 anni dell’abbazia di Westminster») risale al 20 settembre 1965: altri ne furono pubblicati discontinuamente nei due anni successivi, fino al 18 settembre 1967. «“In quegli anni, visto che me ne intendevo, andavo a intervistare i grandi della musica: Plácido Domingo e Pavarotti, di cui poi sono diventato amico fraterno, la divina Callas, che però al Covent Garden mi rifiutò l’intervista. Dovevo fare l’esame, e allora mi mandarono a Roma. Anche qui son rimasto quasi cinque anni”. Non male, la redazione romana del Corriere… “Ma no! Mi avevano messo in esilio al Messaggero, con cui c’era una specie di accordo: la seconda umiliazione. Telefonavo le ultime notizie della notte, come accadde nel 1970 per il delitto Casati Stampa. A Milano non volevano capire che era una notizia importante, ma certo allora mica potevo telefonare al direttore… Nemmeno quella volta ho scritto”» (Truzzi). «Un giorno, timidissimo, chiese all’allora direttore Giovanni Spadolini se per favore, dato che aveva fatto per anni il “terzo” a Londra e conosceva varie lingue, potesse essere utile a “fare qualche didascalia agli esteri”. Fu gelato: “Mo, un po’ di umiltà”» (Stella). Per vedere di nuovo la propria firma sul Corriere della Sera dovette attendere cinque anni, fino al 19 ottobre 1972 («Bussano a “Rischiatutto” con Goldoni, San Luca, Don Chisciotte e Napoleone»): nel frattempo era stato trasferito a Milano, «presso la sede centrale del Corriere in via Solferino, dove mi diedero da occuparmi di cultura e spettacoli». «“Il direttore era Franco Di Bella. La mia firma saliva di prestigio con le interviste. Una volta arriva Richard Burton: vado al Grand Hotel et de Milan. Chiedo alla reception di chiamarlo, ma lui risponde, come aveva già fatto con tutti, ‘Niente interviste’. Me lo faccio passare: ‘So che lei è un grande amante di Dylan Thomas, come me’. E lui: ‘Please, come’. Salgo al terzo piano: alloggiava nella stanza dove era morto Verdi. Glielo dico. E lui: ‘Do you know the Quartet of Rigoletto?’. Ci mettiamo a cantare”» (Truzzi). «La svolta professionale però arrivò nel febbraio del ’79 con l’allora direttore Franco Di Bella, che mi disse: “Khomeini è tornato a Teheran. Tu parti per l’Iran e raccontaci cosa succede là!”. “Sei matto!”, gli risposi io sbigottito. “Ricordati”, ribatté lui bruscamente, “io butto in acqua solo chi sa nuotare”» (Gregolin). «Sono andato a Istanbul, poi in treno a Erzurum, Anatolia, e 400 chilometri di taxi fino al confine iraniano. Avevo una paura matta: era zona di banditismo, tenevo i soldi nelle calze. Impiegai due settimane per arrivare a Tabriz. Il primo pezzo lo feci raccontando la marcia di avvicinamento. Descrissi un ragazzino della polizia segreta portato via in mezzo alla strada, tra bastonate, sputi, urla. E i suoi occhi, gli occhi di chi sta per essere ammazzato. Il giorno dopo da Milano arrivò una menzione laudativa… […] Mi agganciai al carro di Newsweek. Seguii Tony Clifton, un reporter di origine australiana. Mi diede tutte le dritte» (a Enrico Arosio). «Al ritorno venne destinato al Festival di Sanremo, ma in corridoio trovò il direttore Di Bella, che lo investi sul campo cronista di guerra: “Prepara la valigia e parti per Kabul, assediata dai carri armati sovietici”. A Kabul, però, bisognava arrivarci, a dorso di mulo, in sella a una sgangherata motocicletta o a piedi attraverso montagne coperte di neve. Mo ci arriva per primo, attraversando la valle di Kunar, dove vede una piccola zattera che galleggia su vesciche di animale gonfie d’aria e uomini che armeggiano nella vorticosa corrente. Raggiunge il quartier generale dei ribelli, parla con i loro capi: Hekmatyar, che mette il Corano sulla canna della rivoltella, e Massoud, “il Leone del Panshir”, che diventerà suo amico fraterno. Racconta quel che vede, descrive con crudo realismo fatti, personaggi, drammi di uomini e donne che hanno negli occhi la stessa fuggevole speranza catturata in una celebre foto di McCurry. I reportage di Mo dall’Afghanistan hanno fatto storia» (Giangiacomo Schiavi). «Da allora in poi, per più di trent’anni, Ettore non si è mai fermato. L’Africa, il Medio Oriente, i Balcani, tutta l’Asia e l’America Latina sono stati i suoi terreni di caccia abituali. Ma è ancora e sempre Kabul il luogo della sua anima. Il nord su cui s’impunta l’ago della sua bussola sentimentale» (Rosaspina). «Ritornerà svariate volte a Kabul, entrandovi da clandestino e travestito da mujahid, percorrendo le sue montagne con ogni mezzo. Ha incontrato e intervistato più volte Ahmad Shah Massoud, il Leone del Panshir. […] “Per me era un amico. Lo uccisero due giorni prima dell’attacco alle Twin Towers. I suoi amici mi raccontarono che la sera prima di morire aveva parlato loro di Dante e Hugo. Era intelligente. Aveva insegnato loro la guerra, ma anche la poesia”. Dal 1995 suo compagno di viaggio e di lavoro è Luigi Baldelli, fotografo. Si incontrarono a Sarajevo, durante la guerra di Bosnia. Diventerà il suo “angelo custode”. I suoi reportage raccontano i grandi che ha conosciuto: “Un anno andai da Madre Teresa di Calcutta per intervistarla, senza dirle chi ero. Dovetti fare una lunga anticamera. Le sue collaboratrici dissero: ‘Ecco, ce n’è qui un altro, questa volta dall’Italia’. Intendevano giornalista. Così, su ordine della madre superiora, mi spedirono a lavare i pavimenti e le pentole per una settimana. Se resistevo Madre Teresa si sarebbe concessa per l’intervista. Molti rinunciarono dopo pochi giorni, io non mi arresi. Le portai una scatola di cioccolatini. Con quei suoi occhi penetranti mi guardò le mani, e accettò di rispondere alle mie domande”. Due giorni dopo uscirono due pagine sul Corriere e da Milano arrivarono i meritati complimenti» (Franco Filipetto). «La volta che ha avuto più paura? “Sempre in Afghanistan: […] andai a trovare Massoud, che in quel momento era ministro della Difesa, perché volevo intervistare Hekmatyar, il sanguinario capo dei mujahidin, suo acerrimo nemico. Massoud mi disse che non poteva darmi nessuna scorta. Vicino c’era un giovane giornalista afgano, mi chiese se poteva accompagnarmi. Quando arriviamo da Hekmatyar io e il ragazzo afgano facciamo due interviste separate, e sulla strada del ritorno il giovane mi racconta che Hekmatyar gli aveva chiesto ‘Chi ti paga per scrivere contro di me?’. Lì comincio a preoccuparmi. Siamo quasi a Kabul, quando la nostra auto viene bloccata da due grandi jeep. Scendono uomini mascherati, prendono il mio amico afgano. Lui mi guarda e dice: ‘Ettore, this is the end’. In albergo scopro che è stato ammazzato (gli occhi azzurri si riempiono di lacrime, ndr)”» (Truzzi). «“In Afghanistan, i russi avevano messo una taglia sulla tua testa, Ettore”, gli rammenta l’amico, e storico inviato del Messaggero, Valerio Pellizzari. “E in Iran era sulla lista nera dei rivoluzionari, nel 1979, per aver terminato così un pezzo in cui raccontava la distruzione di un’enoteca: ‘Non c’è più religione’”. Insieme, nel 1994, Mo e Pellizzari hanno attraversato tutta “quella triste Russia del Volga”, embedded in un convoglio di tir finlandesi, 5.500 chilometri. […] Insieme, sono tornati dal Tibet attraversando la frontiera con la Cina dopo aver nascosto nelle scarpe i documenti dei monaci comprovanti le torture subite. L’infido metal detector cercò di denunciarli, ma i cinesi non frugarono abbastanza a fondo negli scarponcini di Mo» (Rosaspina). «A Baghdad, nel 1991, ho capito. La Guerra del Golfo è stata la prova generale delle “Star Wars”. C’era un’unica fonte d’informazione. Non ho visto un solo morto americano. Chiamavo Milano, e loro: “L’ha già dato la Cnn. Trova qualcos’altro”. A Baghdad qualcosa è finito. […] A Groznyj ho avuto paura di morire, nel gennaio 1995. I russi avevano invaso due mesi prima. Per raggiungere il presidente Dudaev con i ribelli asserragliati nel palazzo ho percorso 300 metri in macchina sotto il fuoco incrociato». «Nel 2003, tornato a Kabul, tra la folla e i soliti invalidi il giornalista ha la sensazione di trovarsi “in mezzo a gente quasi felice: anche se a ogni piè sospinto t’imbatti in una umanità più d’ogni altra afflitta da miserie secolari e di continuo affondi i piedi nell’immondizia e nelle fogne”» (Donato Bevilacqua). Da qualche anno si è ritirato, dividendosi tra la casa di Arona e quella di Londra. «Quando viene naturale chiedergli se vorrebbe essere adesso a perlustrare con il suo taccuino le trincee ucraine, a infiltrarsi in prima linea, a cercare di raggiungere i comandanti o i mercenari, ad ascoltare le storie di chi fugge e di chi combatte, ci si aspetterebbe un impetuoso “sì”. Invece Mo sorride con dolcezza dalla poltrona della sua casa in collina, lancia una lunga occhiata oltre i vetri della finestra verso la linea grigia del lago Maggiore. E infine risponde, con la semplicità che gli appartiene: “No”. Non si sente in dovere di spiegare perché. A novant’anni, dei quali almeno sessanta trascorsi avventurosamente per il mondo, sembra aver esaurito ogni curiosità sulla più lugubre e feroce delle occupazioni umane. O, forse, ogni speranza» (Rosaspina) • Sposato con un’inglese, tre figli. «Christine, la compagna di una vita, la Penelope ideale di un Ulisse spericolato. Seppe soltanto dopo molti anni che Ettore si preparava a morire durante un combattimento, accovacciato dietro un terrapieno dalle parti di Jalalabad: “Mi confessò che quella volta si era messo a scrivermi un messaggio d’addio”. Che fortunatamente lei non ha mai letto: “Cosa mi avevi scritto?”, gli chiede. “E chi se lo ricorda?”, ride lui» (Rosaspina) • Con Oriana Fallaci «avevo un legame particolarmente stretto. Lei, che era burbera, scontrosa e non si faceva amare per il carattere, con me era disponibile e stranamente dolce. Diciamo che umanamente c’intendevamo!». «Era una donna indisponente, ma era la più brava: aveva due palle così. E che scrittura!» • Si definisce «uomo di sinistra» • «Un inviato che non ha mai usato un registratore: andava i giro con un quadernetto spiegazzato in tasca e una matita» (Gianni De Felice). «Grande segugio, ma nemico della tecnologia. Quando il Corriere organizzò i primi corsi per usare i computer, Mo rinunciò dopo cinque minuti e uscendo s’imbatté in Indro Montanelli, che equivocò: “Tu a quel corso? Ettore, da te non me lo sarei aspettato”» (Rosaspina). «I miei pezzi, li scrivo ancora a penna o con la mia vecchia macchina da scrivere Olivetti Lettera 32» • «È alto 1 metro e 57, ma quelli piccoli, in realtà, siamo noi» (Moreno Pisto). «Forse il più grande inviato di guerra (e non solo) degli ultimi decenni» (Stella). «Quando al coraggio e alla caparbietà di arrivare ovunque […] si sommano uno sguardo pieno di umana compassione e la capacità di descrivere ed emozionare il lettore senza cadere nella retorica e risparmiando gli aggettivi, il risultato è quasi sempre Ettore Mo» (Rosaspina). «Gli occhi di Ettore sono rimasti quelli di un bambino, con una luce trasparente, non appannati dalle miserie che ha visto per il mondo. Anche la sua voce, quando riemerge dopo un lungo periodo di silenzio, ha quel tono impunito e disarmante di un monello che si è attardato troppo a giocare. […] La curiosità disarmata è stata il suo lasciapassare. Per questo ha saputo guadagnare la confidenza di uomini e donne in ogni Paese, e trovare nei suoi scritti quelle due parole che gli altri rincorrono ma non trovano mai. Come in Tibet, dove le donne festose di un mercato per lui profumavano di neve e di stalla. Nonostante sia un pessimo viaggiatore – ansioso, con il passaporto scaduto, con il portafogli dimenticato e il bagaglio perduto – è sempre arrivato a destinazione. Miracolosamente. Protetto da una entità impalpabile che i bambini chiamano angelo custode» (Valerio Pellizzari) • «Io privilegio la cronaca all’opinionismo che dilaga oggi. Narrare con gli occhi è nel mio Dna» • «Ma tu sei un inviato di guerra o un cronista? “Vedi, la guerra, può sembrare cinico dirlo, per un cronista è il massimo. Non c’è niente di più di una guerra per raccontare il dolore e la crudeltà del genere umano. Nella guerra succede davvero di tutto, tutta la natura umana si rivela. Buona o cattiva che sia: generosità, codardia, in una guerra li trovi. Il materiale su cui lavorare è incandescente, e quindi anche il pezzo diventa incandescente. E bisogna fare molta attenzione a scriverlo”» (Luigi Baldelli) • «L’Afghanistan è parte integrante della mia vita. […] Un Paese malato, triste, ma molto generoso. Mi sono sempre trovato bene, nonostante gli enormi disagi che il suo territorio comporta» (a Ernesto Kieffer) • «Un’intervista mancata? “Pol Pot”» (Rosaspina) • «Ha sfiorato molte volte la morte, documentandola e raccontandola. Le capita di pensare alla sua, di morte? “Ogni tanto ci penso e spero sia tranquilla. Ma non è un pensiero che mi angoscia. Non ho problemi religiosi e vivo alla giornata. Quando vedo un amico che se ne va, allora, data l’età, la prendo seriamente in considerazione”. Le viene data la possibilità di portarsi nell’aldilà una sola storia che ha raccontato. Quale porterebbe? “Forse il racconto del mio primo incontro con Massoud, nella Valle del Panshir”» (Gregolin).