3 febbraio 2023
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Biografia di Francesco Pelle
Francesco Pelle, nato a Locri (Reggio Calabria) il 4 febbraio 1977 (46 anni). Criminale. Membro della ’ndrangheta, soprannominato «Ciccio Pakistan» (per il colore olivastro della pelle). Attualmente recluso in carcere, in forza di una condanna all’ergastolo (dal 23 settembre 2021). «La sedia a rotelle sulla quale è costretto a vivere non gli ha impedito di diventare un boss, di organizzare la rappresaglia contro la cosca Nirta-Strangio e, soprattutto, di darsi alla latitanza per due volte» (Lucio Musolino) • Figlio di Domenico Pelle, detto «Micu ’u Mata» e considerato appartenente al ramo cadetto dell’omonima famiglia di ’ndrangheta fondata da Antonio Pelle (1932-2009), detto «’Ntoni Gambazza», negli anni si è distinto come una figura di primo piano nell’ambito della faida di San Luca – piccolo paese del reggino sito alle falde dell’Aspromonte e sede del santuario della Madonna di Polsi (detto anche «santuario della Madonna della Montagna»), dove tradizionalmente si riuniscono i più importanti capi della ’ndrangheta – «tra le cosche Vottari-Pelle-Romeo e Strangio-Nirta. Una guerra iniziata il 10 febbraio 1991 in seguito a uno scherzo di Carnevale, quando un gruppo di giovani legati al clan Strangio-Nirta lanciò delle uova verso un circolo ricreativo gestito da uno dei Pelle, detti “Gambazza”, sporcando anche l’auto di un Vottari. Un’onta, secondo le regole delle ’ndrine, da lavare con il sangue. E, di sangue, da quel giorno, ne è stato versato» (Alessandro De Virgilio). «Dal lancio di uova alle armi il passo fu breve. E la tragedia era dietro l’angolo: a San Valentino, il 14 febbraio del ’91, furono uccisi Francesco Strangio e Domenico Nirta, rispettivamente di 20 e 19 anni. Due ragazzi, due morti. Troppo, anche per San Luca. Dovettero intervenire le potenti famiglie del capoluogo, di Reggio Calabria, per sancire la tregua» (Giuseppe Legato). «I gruppi trovarono un primo accordo nei mesi successivi alla mattanza. […] Si disse che Antonio Vottari aveva sparato perché provocato. E si stabilì che avrebbe avuto salva la vita a patto che lasciasse San Luca. Vottari fece orecchie da mercante, e per questo fu ucciso il 25 luglio del ’92. Crivellato. Ogni famiglia avversaria gli sparò un colpo in faccia: l’autopsia stabilì che i proiettili che gli devastarono il volto furono almeno dodici» (Giuseppe Baldessarro). «Francesco Pelle è ancora un ragazzino quando entra in diretto contatto con le guerre di ’ndrangheta. È il primo maggio del 1993 – il crimine organizzato calabrese lega da sempre le proprie azioni omicide con le giornate di festa –, e San Luca è diventato un posto pericoloso già da due anni, con i primi morti della guerra sulla montagna. Durante la mattina del giorno dei lavoratori, in una stalla arroccata in una frazione montana, cadono sotto i colpi dei killer Giuseppe Vottari e Vincenzo Puglisi, organici della potente cosca dei “Frunzu”, giustiziati da un commando degli storici rivali dei Nirta-Strangio. Un agguato a cui sarebbe dovuto seguire una nuova azione degli alleati dei killer, con il “pattugliamento” del paese per frenare sul nascere ogni tentativo di reazione. Ma nei primi anni ’90 le comunicazioni possono essere un problema serio anche per gente organizzata e disposta a tutto, e la seconda parte del piano salta, favorendo l’immediata reazione delle famiglie dei Pelle-Vottari. È una fonte confidenziale raccolta dai carabinieri di San Luca a indicare proprio l’allora giovanissimo Ciccio Pakistan come uno dei membri del commando che al doppio omicidio della mattina risponderà, nel primo pomeriggio, con gli omicidi di Giuseppe Pilia e Antonio Strangio: ammazzato nella propria auto il primo, freddato davanti alla sua macelleria in paese il secondo. Secondo quell’anonimo informatore, Ciccio Pakistan avrebbe guidato l’assalto guidando una Vespa truccata. Mai formalmente accusato di quel doppio omicidio, Ciccio Pakistan, che a quei tempi è ancora un pesce piccolo ma dalle parentele (i Gambazza e i Vanchelli) pesantissime, sparisce dai radar, rifugiandosi in Germania. Un esilio volontario, alla maniera dei boss, che gli servirà per acquisire nuovi contatti» (Vincenzo Imperitura). «Fu allora che i capi storici della famiglia Nirta, appartenenti alla cosiddetta “Maggiore”, il livello più alto della ’ndrangheta, si resero conto che si stavano aprendo pericolose crepe nell’organizzazione di San Luca. Nel 1993 il vecchio boss Antonio Nirta chiese ai De Stefano di Reggio Calabria una intercessione esterna, capace di placare gli animi. La pace sembrò tenere, ma l’odio continuava a crescere a San Luca, di pari passo con gli affari. La droga innanzitutto, ma anche i soldi per gli appalti della trasversale dell’Aspromonte, la strada da Bovalino a Bagnara, e per la statale 106. E poi le estorsioni. Milioni di euro» (Baldessarro). «Le faide di ’ndrangheta non sono guerre “normali”; a volte vanno in sonno, per poi riesplodere violentissime alla prima occasione. Nel caso della faida di San Luca, l’elemento che riapre le ostilità è segnato dalla cattura di uno degli storici boss del crimine organizzato calabrese, Giuseppe Morabito “il Tiradritto”, scovato dalle forze dell’ordine dopo una latitanza da guinness dei primati» (Imperitura). Era il 18 febbraio 2004. «Gli equilibri si rompono nuovamente nell’ottobre del 2005. Viene ucciso Antonio Giorgi, dei Nirta-Strangio. L’omicidio implica la rimessa in discussione degli equilibri per la “spartizione”. In paese è rientrato Francesco Pelle. Secondo i magistrati è un uomo chiave, di vertice. Vuole nuovi assetti» (Baldessarro). «Francesco Pelle non aveva la caratura di capo, era un soldato irrequieto con tanta voglia di emergere. Un sanguinario poco riflessivo. Ad Africo, nella Locride, dopo la cattura del boss Peppe “Tiradritto”, Giuseppe Morabito, pensava di far carriera. Ne parlano gli amici al telefono: “Lui – dice Giovanni Cuzzilla – è un intoccabile, ha le spalle coperte”. “No, non è così – gli contesta uno dei Morabito, che tempo addietro volevano eliminarlo –, ma un suo cugino ha garantito per lui”. E ambedue riflettevano: “Ha troppi debiti…”. Ma lui si sentiva forte» (Guido Ruotolo). «“Pakistan” voleva diventare il capo di Africo. […] Aveva tutto: la gioventù e il prestigio, perché lui era il rampollo di famiglie importanti, i Pelle (“Gambazza”) e i Vottari (“Frunzu”), padroni di San Luca. E poi si era rafforzato col matrimonio, come impongono le antiche regole della ’ndrangheta, sposando una Morabito, la figlia di Leo “Scassaporte”. “Pakistan” si sentiva un intoccabile, ma era diventato un problema per le altre cosche della zona. E per quel problema la ’ndrangheta trova una soluzione spezzando il sogno di dominio del giovane Pelle» (Enrico Fierro e Nello Trocchia). «Anche un tribunale dell’onorata società può decidere l’indulto o l’amnistia per l’imputato. Ma una volta sola. E lui l’ha sprecata, e la giustizia della ’ndrangheta è arrivata puntuale il 31 luglio del 2006. Nel loro rapporto, i carabinieri di Reggio Calabria scrivono: “L’agguato, premeditato e preparato nei minimi particolari, voleva colpire il Pelle in uno dei momenti più belli per una famiglia, ossia nel giorno in cui aveva portato a casa dall’ospedale il primogenito, nato pochi giorni prima”. È in veranda, fa caldo ad Africo Nuovo. Sono le 23.30. Una lupara, quattro colpi di fucile da caccia caricati a pallettoni. Il Pakistano è in condizioni disperate. Ospedale di Locri, poi Reggio Calabria. Le donne di casa si disperano e intanto lavano i pavimenti, prima dell’arrivo dei carabinieri. E in ospedale una ventina di “amici e parenti” occupano fisicamente la corsia, temendo che qualcuno arrivi per terminare il lavoro, per eseguire la sentenza di morte. Ciccio Pakistan lascia l’ospedale e ripara in una clinica del Nord. E lì, con il passare dei giorni e delle analisi dei medici, prende atto che non camminerà più. Giornate amare. La famiglia lo ha abbandonato. Lui inizia a covare la vendetta, che organizza con alcuni cugini e amici» (Ruotolo). «Il clima a San Luca è pesante come non mai in quei giorni: persino il ramo dei Pelle “Gambazza” tenta di mediare con il boss ferito per evitare nuovo sangue, ma senza risultato. Nel pomeriggio del giorno di Natale del 2006, infatti, un gruppo armato fino ai denti si presenta davanti al n. 150 di via Corrado Alvaro, a San Luca, la casa del boss Giuseppe Nirta, capocosca dei “Versu”. Sono decine i colpi esplosi, che uccidono Maria Strangio, moglie di Giovanni Luca Nirta, vero obiettivo del commando di fuoco che intendeva vendicare il ferimento di Pakistan, e feriscono in modo grave altre tre persone, tra un cui un bambino di 4 anni. Sarà proprio la strage di Natale a costare la condanna a fine pena mai al boss di San Luca, che di quell’azione è stato considerato il mandante» (Imperitura). «Pochi giorni dopo, è il 4 gennaio, i Nirta rispondono uccidendo Bruno Pizzata, un pastore pregiudicato, ma il culmine si raggiunge ad agosto in Germania» (Legato). «Passeranno mesi, con i maschi rintanati come lupi sulle montagne o nei bunker scavati sotto le case di San Luca. Latitanti volontari, uomini che fuggono dalla vendetta» (Fierro e Trocchia). «Negli stessi mesi si sarebbe tentata la mediazione a cui, secondo fonti degli investigatori, i Vottari avrebbero risposto “Cu campa campa e cu mori mori”. […] Quando i Vottari risposero agli emissari di pace dei Nirta-Strangio con la frase “Chi vivrà vivrà e chi morirà morirà”, sapevano che si stavano infilando in una guerra di mafia che sarebbe finita solo con lo sterminio di una delle due parti. Lo sapevano e non hanno esitato lo stesso. Troppi morti c’erano già stati, e troppo era il rancore che si portavano dentro» (Baldessarro). «Poi una sera qualcuno entra in una porcilaia e scanna tutti i maiali maschi: solo la scrofa viene lasciata vivere. È un segnale: le donne non si toccano. È il segnale che […] il 15 agosto 2007 porta un killer poco più che ventenne ad appostarsi nella notte davanti a un ristorante di Duisburg» (Fierro e Trocchia). «Nella notte tra il 14 e il 15 agosto del 2007, nella cittadina della Germania occidentale morirono Tommaso Venturi, 18 anni, Francesco e Marco Pergola, 22 e 20 anni, Francesco Giorgi, 17 anni, Marco Marmo, 25 anni, e Sebastiano Strangio, 39 anni. Furono uccisi a colpi di mitraglietta davanti al ristorante-pizzeria “Da Bruno”, di proprietà degli Strangio, originari di San Luca» (De Virgilio). «Erano tutti calabresi “ritenuti affiliati o comunque vicini” – per dirla con la sentenza della Cassazione del 2016 – al clan Pelle-Vottari di San Luca. […] L’Europa ha compreso in quel Ferragosto che la ’ndrangheta non è solo un problema degli italiani, ma dell’Europa intera. “Con la strage di Ferragosto a Duisburg – si legge in una relazione della commissione parlamentare Antimafia della XV legislatura – la Germania e l’Europa scoprono attoniti la micidiale potenza di fuoco e l’enorme potenzialità criminale di una mafia proveniente dalle profondità remote e inaccessibili di un mondo rurale e arcaico. Molte cose colpiscono gli stupefatti investigatori tedeschi e l’immaginario collettivo: la determinazione e la professionalità degli assassini, il numero e l’età dei morti, il fatto che la strage sia stata compiuta nel cuore dell’Europa civilizzata a migliaia di chilometri di distanza da San Luca e un santino bruciato – indicatore inequivoco di una recente affiliazione rituale – trovato in tasca a uno dei giovani assassinati. Parte sotterraneo da San Luca ed erompe a Duisburg un connubio esplosivo fra vendette ancestrali e affari milionari, un misto di faide tribali e di spietata modernità mafiosa, producendo uno shock improvviso e micidiale per l’opinione pubblica e per le autorità tedesche”» (Ennio Stamile). «A guidare il commando, Giovanni Strangio, giovane fratello della donna morta ammazzata pochi mesi prima. Sarà l’atto finale della faida della Montagna» (Imperitura). «Dopo la mattanza di Duisburg […] l’élite della ’ndrangheta si riunì a Polsi all’ombra del santuario della Madonna della Montagna e impose quello che da vent’anni non c’era più a San Luca: la pace. […] Da allora i fucili sono tornati negli armadietti. Chiusi, silenti. Ma c’è chi giura che prima o poi la faida scriverà un altro capitolo» (Legato). Nel frattempo Francesco Pelle era diventato «un clandestino, un latitante, ma anche un orfano. […] Latitante perché ricercato dalle forze di polizia da almeno un anno, orfano della sua stessa “famiglia” Pelle-Vottari, che gli aveva detto in tutti i modi di stare tranquillo, di non esagerare, di non invadere campi altrui, di aspettare e di accettare la pace, prima che si scatenasse di nuovo la carneficina. […] Non voleva farsi trovare neppure dai vecchi amici-nemici della faida di San Luca, di cui lui è stato vittima e carnefice» (Ruotolo). Quella latitanza finì il 17 settembre 2008. «Quando li ha visti entrare, ha avuto paura che fossero arrivati gli angeli della morte. Temeva che quei carabinieri del Ros travestiti da medici e infermieri fossero dei killer. Poi, naturalmente, ha negato di essere “Ciccio Pakistan” (al secolo Francesco Pelle), […] e ha interrotto la navigazione su internet. Era tardi, le nove e passa di sera, e invece di guardarsi un film in tv nella sua singola del reparto Neuroriabilitazione della clinica Fondazione Maugeri, alle porte di Pavia, “Ciccio Pakistan” smanettava su internet, interessato ai “segreti” per individuare cimici e intercettazioni. Ma aveva anche Skype, per dialogare con i suoi interlocutori via cyberspazio. Altro che Binnu Provenzano o Totò Riina con i loro pizzini. No, lui, Francesco Pelle, 31 anni, usava internet. Con i pazienti che con lui condividevano la degenza, spesso si vantava di avere soldi a palate, case e terreni. Una volta, sembra, chiese pure se c’era la possibilità di comprarsi una pistola. “Pasqualino”, così si faceva chiamare, […] da luglio era ricoverato nella clinica pavese, presentato da una lettera di raccomandazione di un professorone milanese, con una identità rubata a un altro povero disgraziato (calabrese) costretto, come lui, su una sedia a rotelle, per un incidente stradale. […] I medici, pur dubbiosi, non si sono mai chiesti perché avesse quei frammenti di pallottola nella regione subclavicolare, che […] dovevano asportare» (Ruotolo). «Ma, in carcere, il boss di San Luca non ci è rimasto molto. Quelle lesioni alla schiena che mai gli hanno impedito di fuggire gli hanno consentito di ottenere prima i domiciliari sanitari, poi misure di sorveglianza ancora più lievi. Nel settembre 2017 invece Pelle è tornato libero per scadenza dei termini di fase del processo alle cosche di San Luca. In attesa della sentenza definitiva della Cassazione, che in precedenza aveva annullato con rinvio la sua condanna, per due anni il boss è stato sottoposto all’obbligo di dimora a Milano. Ed è lì che i carabinieri sono andati a cercarlo quando la Suprema corte ha confermato la sua condanna all’ergastolo, ma di Ciccio Pakistan non c’era più traccia. Nel suo appartamento vicino all’ospedale Niguarda hanno trovato solo la moglie Annunziatina Morabito, con le valigie già pronte per tornare in Calabria. Ed è ricominciata la caccia. Per due anni, Ciccio Pakistan è stato cercato ovunque. Inquirenti e investigatori sospettavano che si fosse rifugiato in Europa, per mesi hanno monitorato i movimenti degli uomini a lui più vicini e dei familiari senza riuscire a scovarlo. Poi la svolta, quell’alert da Lisbona e un’identificazione al di là di ogni ragionevole dubbio, e Pelle è finito nuovamente in manette» (Alessia Candito). Irreperibile dal 19 luglio 2019 e frattanto annoverato tra i latitanti di massima pericolosità, Pelle è stato infatti ritrovato il 29 marzo 2021, quando, grazie a un’operazione coordinata a livello internazionale, «i carabinieri lo hanno scovato in una clinica di Lisbona, dove era ricoverato perché positivo al Covid. Il coronavirus ha gabbato, quindi, uno dei più pericolosi latitanti della Locride» (Musolino). Tornato in Italia mediante procedura di estradizione il 23 settembre successivo, Pelle è da allora recluso in carcere, dove sta scontando la condanna all’ergastolo quale mandante della «strage di Natale» • «La storia di Francesco Pelle, alias Ciccio Pakistan, […] si lega a doppio filo con quella della faida di San Luca e chiude il cerchio […] con una delle pagine più violente della storia criminale italiana» (Imperitura).