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 2023  febbraio 20 Lunedì calendario

Biografia di Jonathan Safran Foer

Jonathan Safran Foer, nato a Washington (Stati Uniti) il 21 febbraio 1977 (46 anni). Scrittore. Saggista. «Per me la scrittura è un mezzo, non un fine» (a Elena Torre) • Secondo dei tre figli maschi di Albert Foer ed Esther Safran. «È nato a Washington in una famiglia dalle solide radici intellettuali: il padre Albert è stato il presidente dell’Antitrust americana, mentre la madre Esther, figlia di sopravvissuti all’Olocausto, è una colonna portante di una delle principali istituzioni culturali della capitale: la Sixth and I Historic Synagogue. […] Jonathan […] è stato educato a confrontarsi con personalità dalle idee lontane dalle proprie. Ha due fratelli che hanno conquistato autonomamente il successo nel mondo culturale» (Antonio Monda). «È una famiglia “culturalmente ebrea”, ovvero non particolarmente osservante ma pervasa fino al midollo da una Yiddishkeit fatta di curiosità intellettuale, pignoleria, ambizione, motti di spirito e fatalismo. […] I tre fratelli Foer frequentano le scuole pubbliche fino alle medie, poi un buon liceo privato e un’università d’élite» (Anna Momigliano). «Quando aveva diciott’anni, Jonathan Safran Foer si iscrisse all’Università di Princeton per studiare Filosofia, ma sin dai primi giorni si rese conto di avere una passione per la scrittura che, nel giro di poco tempo, si trasformò in una vera e propria necessità. Decise quindi di seguire i corsi di scrittura creativa di Joyce Carol Oates, la quale ne osservò con attenzione la maturazione, e un giorno gli disse: “Tu hai il talento più importante per diventare uno scrittore: l’energia”» (Monda). «Jonathan Safran Foer aveva 25 anni quando è stato acclamato genio e speranza della letteratura americana. Correva l’anno 2002 e il giovane scrittore […] dava alle stampe Ogni cosa è illuminata, in Italia pubblicato con Guanda» (Włodek Goldkorn). «I suoi nonni materni, emigrati negli Stati Uniti nel 1949, venivano entrambi da due villaggi dell’attuale Ucraina occidentale e furono gli unici sopravvissuti alla Shoah delle rispettive famiglie. Un’esperienza alla base del bestsellerdel 2002 Ogni cosa è illuminata (Guanda), nato dal viaggio che lo stesso scrittore affrontò in Ucraina alla ricerca di informazioni sulla vicenda del nonno ebreo e di chi lo salvò dallo sterminio nazista. […] “La storia che mi raccontava mia nonna sull’Ucraina parlava di collaborazionismo con i nazisti, e di quando, dopo la guerra, lei tornò lì e le consigliarono di andarsene perché era un posto ancora pericoloso per gli ebrei. Ma la realtà è complessa. Mio nonno, infatti, fu nascosto da una famiglia ucraina: persone che misero a rischio la loro stessa vita e alle quali, letteralmente, devo la mia. Quindi ho un debito enorme con gli ucraini”» (Alessia Rastelli). «Una storia classica, un “nostos” alla ricerca delle proprie origini, che già di per sé potrebbe essere garanzia di successo, ma qui, in particolare, non è tanto importante cosa viene raccontato, quanto come viene raccontato. Si è parlato di “realismo magico” per la scrittura di Safran Foer, che passa da un piano narrativo all’altro come in un flusso di coscienza e con la stessa semplicità cambia anche l’io narrante, alternando a quello dell’omonimo protagonista la voce di Alex, il giovane ucraino che lo accompagna nella ricerca della donna. […] Sembra che il giovane scrittore statunitense faccia in letteratura quello che Quentin Tarantino fa con il cinema: la mastica, la digerisce e la restituisce in una forma che va al di là dei generi e delle classificazioni. Lo stesso si può dire, infatti, del secondo libro, Molto forte, incredibilmente vicino, storia di Oskar, un ragazzino di nove anni che perde il padre nell’attentato dell’11 settembre. Storia e memoria sono le parole chiave di Foer, e la ricerca del padre da parte del piccolo Oskar, vittima indiretta della storia, è la medesima ricerca delle proprie origini già affrontata nel primo romanzo. Ma, di nuovo, Jonathan Safran Foer la conduce secondo il suo stile, alternando all’io narrante di Oskar quello dei suoi nonni» (Fabrizio Buratto). «Il clamoroso successo internazionale di Ogni cosa è illuminata è stato amplificato dall’adattamento cinematografico, il che si è ripetuto anche con Molto forte, incredibilmente vicino, libro che ha moltiplicato gli entusiasti e i denigratori. In quel periodo Jonathan ha tentato di diradare le apparizioni pubbliche e i commenti che gli venivano chiesti su qualunque argomento, ma ha riconquistato prepotentemente il centro del palcoscenico quando ha dato alle stampe Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?» (Monda). «Una storia molto controversa, a metà tra il racconto e l’inchiesta giornalistica, in cui passa in rassegna gli allevamenti intensivi americani e denuncia le torture che polli, tacchini, maiali e mucche devono subire per tutta la vita prima di essere uccisi e finire sulla nostra tavola. […] Lui ha smesso di mangiare carne mentre scriveva il libro. Che parla anche della nonna e del primo figlio. La nonna ha a che fare con il titolo: Se niente importa. Alla fine della Seconda guerra mondiale, nell’Europa orientale, era come tutti affamata. Ma, essendo ebrea, rifiutò la carne di maiale offertale da un contadino russo. Non perché fosse vegetariana, ma perché quel cibo non era kosher. Quando Jonathan da bambino le chiese perché avesse rifiutato un cibo che le avrebbe salvato la vita, lei rispose: “Perché, se niente importa, allora non c’è niente da salvare”. “Il cibo per mia nonna – scrive Foer – non è solo cibo. È terrore, dignità, gratitudine, vendetta, gioia, umiliazione, religione, storia e, ovviamente, amore”. Ed è ricordando le storie della nonna che lo scrittore comincia a interrogarsi su che cosa darà da mangiare al figlio che gli è appena nato. “Nutrire mio figlio non è come nutrire me stesso: è più importante. Assorbendo la tradizione ebraica dalla mia famiglia, a poco a poco ho imparato che il cibo serve a due scopi paralleli: nutre e aiuta a ricordare. Mangiare e raccontare sono due atti inseparabili”» (Lauretta Colonnelli). «Poi ha ritradotto in inglese la Haggadah di Pesach, il racconto che gli ebrei leggono alla vigilia della loro Pasqua, per ricordare la schiavitù egizia ed esprimere la speranza nell’arrivo del Messia. […] Ha dato alle stampe Tree of Codes, un libro fuori dal comune in cui sono state messe insieme, in forma nuova, parole ritagliate dai testi di Bruno Schulz, scrittore ebreo polacco ammazzato nel ghetto di Drohobyč nel 1942» (Goldkorn). Nel 2016, undici anni dopo Molto forte, incredibilmente vicino, fu la volta del terzo romanzo, Eccomi (Guanda), «il suo libro più alto, maturo e spiccatamente autobiografico, che prende il titolo dalla risposta che diede Abramo al Padreterno quando gli venne chiesto di sacrificare il figlio Isacco» (Monda). «Eccomi parla di un matrimonio a pezzi, di tre fratelli ebrei nati in una famiglia un po’ troppo cerebrale, nonché della distruzione d’Israele. […] Il carattere autobiografico dei primi elementi è fin troppo evidente; quanto all’ultimo, come ha notato il critico Adam Scott, è “un’astrazione lontana” di quel collasso familiare. “Nei suoi primi due romanzi Foer ha trasformato delle tragedie reali in opportunità letterarie, facendo luce sugli orrori della storia attraverso la sua sensibilità; in Eccomi fa esattamente l’opposto, utilizzando un disastro immaginario per fare luce sugli umori e sui fallimenti di personaggi simili a lui”» (Momigliano). «La condizione di crisi è quella che trovo più interessante da descrivere. Quando un uomo o una donna si trovano faccia a faccia con la necessità di prendere una decisione come quella di stare o meno in un matrimonio, di andare a combattere una guerra o non andarci, diventano interessanti dal punto di vista narrativo. È sulla spaccatura che si costruiscono le storie» (a Giulio D’Antona). «Questo problema è il nocciolo del libro: qual è la differenza tra parole e azioni, e quando la nostra ansia per le parole crea ancora più distruzione di un’azione? […] Il libro parla di persone che scoprono chi sono veramente quando giunge il momento delle decisioni importanti» (a Luca Mastrantonio). «Il romanzo assomiglia a quelle opere di narrativa che di solito vengono definite un capolavoro. Leggendo la prosa di Safran Foer vengono in mente scrittori del calibro di Amos Oz (per la delicatezza nella descrizione dei sentimenti), Abraham Yehoshua (per la precisione dei dettagli), Philip Roth (per la carica erotica spinta, ma mai volgare) o Paul Auster (per la dinamica piena di colpi di scena della trama)» (Goldkorn). «L’autore è troppo smanioso di piacere, […] fa troppi giochi d’artificio, mette troppo zucchero o troppo sale. […] Jonathan Safran Foer, al suo terzo romanzo, […] ha scritto un testo così accattivante da risultare stucchevole, così furbo da offrirsi, prima ancora che a essere letto, a essere hollywoodato (se permettete l’orrido neologismo). Ma […] lo scrittore americano ha talento, è brillante, sa che cosa è il sense of humour, e crede davvero nella letteratura. E questo lenisce il fastidio e muove a un certo rispetto» (Mario Fortunato). Da ultimo Safran Foer ha pubblicato il saggio ambientalista Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi (Guanda, 2019). «“Abbiamo tutte le informazioni disponibili, eppure ancora non ci entra in testa: i cambiamenti climatici rappresentano la più grave emergenza che l’umanità si trovi davanti. E per colpa propria”. […] Non il tomo di uno scienziato, ovvio: l’opera di uno scrittore affabulante, che alterna dati scientifici ad aneddoti su Elvis Presley e le sigarette di Obama. Passando da osservazioni autoironiche (“Mi importa del destino del pianeta, però – a giudicare dal tempo che investo – mi interessa più la mia squadra di baseball”) e arrivando a dolorosi ricordi di famiglia: sua nonna fu l’unica a salvarsi dall’Olocausto perché decise di fare qualcosa, di fuggire dalla Polonia. Gli altri avevano notizie identiche ma non credevano che la situazione precipitasse. Proprio quel meccanismo di rimozione che mettiamo in atto oggi riguardo ai rischi per l’ambiente, sottolinea Foer. […] Perché questo “negazionismo psicologico”? “Perché le rinunce non sono facili, per quanto si sia convinti che siano giuste. Riciclare o piantare alberi o installare i pannelli solari sono sentimenti, più che azioni. Le quattro iniziative individuali davvero importanti sono: tagliare il consumo di carne, rinunciare ai voli e all’auto, mettere al mondo meno figli. A nessuno piace evitare qualche cibo, non raggiungere in aereo bei posti, non usare la macchina. Io per primo mi sento in colpa, ipocrita”. Si descrive “edonista”. “Amo gioire di quel che la vita offre. Non sono il tipo che prende una decisione etica e non guarda più indietro. Non sono un vegetariano che trova non interessante la carne (anzi – confesso –, a volte mi sono concesso hamburger come comfort food). Però non sono una tigre: sono un essere umano, e, in quanto tale, ho il potere di scegliere. Il segreto è non mirare alla perfezione, ‘o tutto o niente’. […] Non dico che tutti dovremo diventare vegetariani, dico che tutti dovremmo mangiare meno carne (e latticini, e uova)”» (Maria Laura Giovagnini). Safran Foer insegna inoltre scrittura creativa alla New York University. «Una delle cose magnifiche dell’America è che nel tempo l’approccio alla letteratura è molto cambiato, diversificandosi. Guardo i miei studenti e li vedo esprimere pensieri nuovi, figli di un nuovo modo di vedere il mondo» (a Fabrizio Accatino) • «Al contrario di altri suoi colleghi coetanei, lei non scrive recensioni, non fa critica. Sembra voler scrivere e basta. “Una delle mie frasi preferite sullo scrivere è: ‘Un uccello non è un ornitologo’. Solo perché sei una cosa, non significa che tu scelga di essere una cosa o che possa spiegare come funziona. Ho alcuni amici scrittori che sono anche critici: io non ho mai scritto una recensione in vita mia. Chissà in futuro, ma per il momento non ne sento il bisogno. Perché non voglio fare confusione su chi sono e cosa faccio, voglio mantenere una purezza, una chiarezza, e non voglio entrare nel business: conosco questa persona, questa non la conosco, questo potrebbe essermi utile, non voglio danneggiare questo… Voglio evitarlo e tenere libero in ogni senso l’atto della scrittura, non voglio legami”» (Mastrantonio) • Tre figli, due dei quali avuti dal matrimonio (2004-2014) con la collega Nicole Krauss (New York, 1974), dopo aver divorziato dalla quale frequentò per un paio d’anni l’attrice Michelle Williams. «Vive con una compagna in una gigantesca villa degli anni ’20 a Brooklyn: ciò che colpisce non è tanto lo splendore, quanto la dimensione di una residenza che potrebbe ospitare almeno una dozzina di persone» (Monda). «Brooklyn è un bel posto dove stare: qui si concentra la maggior parte della creatività contemporanea» • «Sei religioso? “Dipende cosa intendiamo per ‘religione’. L’ebraismo è parte della mia formazione”» (D’Antona). «Credo a momenti, e questo per qualcuno fa di me un credente, per altri un agnostico. Voglio aggiungere che ho questo tipo di incertezze anche riguardo ad altre cose, come la bellezza, o in generale l’arte». «Io mi sento ebreo quando scrivo, molto più che nella mia vita quotidiana» • «Che cosa rappresenta per Jonathan Safran Foer Israele? “È un luogo speciale. […] Sono un ebreo americano che si sente parte di Israele, pur rimanendone fisicamente lontano”» (Ester Moscati) • Ottimo il rapporto con l’Italia. «Amo il Paese, la cultura, gli autori, da Primo Levi a Calvino. C’è un rapporto speciale con la gente – la lettura più memorabile, l’ho fatta al Foro Romano –, ma soprattutto con Guanda: il primo editore straniero che ha creduto in me, ai tempi della mia opera prima» (a Massimo Gaggi) • «Le sue prese di posizione pubbliche hanno contribuito a costruirne un’immagine da pensatore radicale, ma basta incontrarlo per rendersi conto di un approccio estremamente articolato, e di una riflessione che si arricchisce costantemente delle opinioni distanti dalle sue. La sua preoccupazione sullo stato di salute del pianeta Terra è autentica, ma non c’è nulla di fanatico, e lo stesso si può dire per le opinioni politiche: si riconosce nel campo dei liberal, ma ha preso ripetutamente posizioni di assoluta autonomia, a cominciare per esempio dal tema dell’aborto, là dove, pur condannando i fondamentalisti, attribuisce un approccio etico a chi si dichiara pro life» (Monda). «Il mondo liberal si è distinto troppo spesso per un atteggiamento settario ed elitista nei confronti di chi ha idee diverse senza capirne la radice» • «Il futuro mi riempie di speranza e timore. Come si può non provare entrambi gli estremi? Oltre alle “solite” fonti di paura – il cambiamento climatico, le malattie, l’ascesa del fascismo (in America e fuori), l’espansione delle diseguaglianze in tutte le sue molteplici forme –, […] l’antisemitismo è tornato a far parte della cultura americana mainstream e della mia vita. È spaventoso e triste. Non è allarmistico domandarsi se l’America sarà ancora una democrazia liberale nel prossimo decennio o se sarà una casa sicura per gli ebrei. Mi chiedo se sia un buon posto per crescere un figlio, visto che i valori americani sono così cambiati. Sto di nuovo pensando di trasferirmi con la famiglia in Italia. Ci avevo già pensato quando temevo un secondo mandato di Trump. […] Da generazioni nessuno dei miei familiari è morto nello stesso Paese in cui è nato. Pensavo che avrei interrotto questa tendenza, ma non sono più così sicuro. Nonostante tutto, mi sento fiducioso. Ostinatamente fiducioso» (a Raffaella De Santis) • «L’Ucraina è un Paese a cui devo la vita. L’attuale conflitto ha evidenziato la mia sensazione di profondo debito. La mia incapacità di fare qualcosa di concreto mi fa vergognare» • «Ogni cosa è illuminata […] è stato rifiutato da numerosi editori, al punto che è arrivato a un millimetro dal non essere mai pubblicato. In tal caso, che cosa avrebbe fatto della sua vita? “Quand’ero giovane avrei voluto diventare un dottore: avevo persino iniziato Medicina. Forse avrei fatto quello”» (Accatino) • «Safran Foer (forse non a caso ribattezzato Savoir Faire da Jonathan Franzen) possiede a tratti la grazia e l’inventività del vero scrittore, ne possiede l’intelligenza, la vulnerabilità, direi persino l’incertezza (che in fondo è la sua dote migliore)» (Fortunato) • «Quali sono i tuoi riferimenti letterari? “I miei maestri sono due italiani: Primo Levi e Italo Calvino, due poli della mia maturazione letteraria. Il primo è un ebreo che esaminava profondamente la memoria, la storia che viveva; il secondo è molto più immaginativo, più fantastico”» (Torre). «Dicono che stai raccogliendo l’eredità ebraica americana di Philip Roth. Che ne pensi? “Cerco di non pensarci”. (Ride)» (D’Antona) • «Il proliferare di immagini, di messaggi, di dati, a un certo punto causa una sorta di inflazione emotiva. In breve ci abituiamo all’orrore. […] Ed è qui che entra in scena la letteratura, il cinema. La compassione nasce soltanto se io ti racconto davvero qualcosa: la mia storia, i miei sogni, le mie idee. Ecco, se proprio dovessi immaginare una funzione sociale dello scrittore, allora sarebbe proprio quella di riuscire a ispirare compassione» (a Nicola Lagioia) • «Sono sempre sorpreso per quello che combinano i personaggi dei miei romanzi. Non ho mai scritto un libro secondo un piano preordinato, e non credo che mai lo farò» • «Scrivo per essere conosciuto: prima di tutto a me stesso. Scrivere è un cammino, a volte verso la condivisione della conoscenza, altre volte verso la scoperta di un ricordo, o di un sentimento. […] La parola può cambiare il mondo e senz’altro è in grado di cambiare la vita e l’esperienza del lettore, a patto che si usi un linguaggio onesto e che si abbia il coraggio di toccare le emozioni, le più recondite del lettore. Uno scrittore è chi sa farlo: altrimenti tutti scriverebbero romanzi».