27 febbraio 2023
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Biografia di Paolo Bonacelli
Paolo Bonacelli, nato a Civita Castellana (Viterbo) il 28 febbraio 1937 (86 anni). Attore. «Uno che debuttò con una commedia di Pirandello e con Gassman regista, e che è passato da Sartre a Gombrowicz, a Witkiewicz, a Gončarov e a Vitrac, e che è assurto a interprete-modello dei testi di Pinter» (Rodolfo Di Giammarco). «Io vengo da lontane letture di Strindberg e di Beckett, quando di Molloy si vendevano 276 libri, e uno era il mio, e vengo da viaggi […] a Londra pur di vedere Stuff Happens, Festen e Guantanamo. Non dimenticandomi due maestri, Tofano e Gassman. E sentendomi affine a uno come Cecchi» • «Genitori? “Mia madre ragioniera, mio padre e i miei fratelli tutti bancari. Però mio padre amava il teatro, e mi ci portava. A Santo Stefano, ricordo. Allora era un giorno di spettacolo. Oggi, di chiusura”. […] In quale quartiere di Roma è cresciuto? “A Prati”. Quartiere borghese. “Ma non lo era. Ci abitavano gli statali e i parastatali. […] I cortili allora erano pieni di ragazzini che giocavano e pisciavano sui muri. Gli ascensori grandi. Poi i figli dei parastatali si sono laureati. I figli hanno avuto altri figli, e c’è stato il ’68. Da piccolo-borghesi sono diventati borghesi. Il liceo Mamiani, che io ho frequentato, è stata la centrale di questo cambiamento”. […] Quale materia ha studiato?“Giurisprudenza. Per due anni. Noiosissima. Poi per caso mi sono trovato a fare l’esame di ammissione all’Accademia d’arte drammatica. Portai un testo di Landolfi e uno di D’Annunzio”. E come andò? “Malissimo. Una cosa orribile. Recitai con un’enfasi che neanche un attore dell’Ottocento…”. Però? “Il giorno dei risultati, io manco ci andai. Venne un amico e mi disse con occhi increduli: ce l’hai fatta. E cominciai la carriera”» (Giorgio Cappozzo). «Sergio Tofano è stato il tuo maestro all’Accademia d’arte drammatica. Il famosissimo Signor Bonaventura, ma parlami di lui. “Tofano era un grande maestro. Io entrai in Accademia per il rotto della cuffia. Arrivai 29esimo su 30. Dopo il primo anno stavo per essere mandato via, ma Tofano aveva visto una scenetta che interpretavo e mi fermò. Mi disse che mi sarei cimentato con Čechov e io replicai che non ero pronto, non ero ancora all’altezza. Lui mi rassicurò dicendo che l’avrei interpretato al meglio. Tofano curava molto la dizione. Ed era nemico dei birignao”» (Aldo Colonna). Una volta diplomatosi, «viene subito chiamato da Vittorio Gassman, che […] stava varando l’avventura del Teatro Popolare Italiano, autogestito e autofinanziato. Bonacelli fu l’aviatore in Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, e poco dopo fece coppia fissa artistica con Carmen Scarpitta» (Riccardo Visintin). «Vittorio era un’ottima persona umanamente e professionalmente, è stata un’esperienza importante» (a Cinzia Crobu). «Maestro severo? “Macché. Non gli interessava mica di insegnare. Io gli chiedevo ‘Posso far ridere?’, e lui: ‘Fai come ti pare’. Poi, se sbagliavi, sbagliavi con le tue mani. Lui era una persona molto colta e accademicamente preparatissima. Leggeva tanti libri”» (Cappozzo). «Era un rapporto non dico paritario ma molto amichevole. Si andava a cena tutte le sere ma non si appartava come il mostro sacro: era molto alla mano. Ricordo ancora il provino che mi fece. Io mi arrovellavo pensando a chissà cosa e invece fu una chiacchierata informale, del più e del meno, fino a che non mi domandò per chi votassi! Ci mettemmo tutti e due a ridere». «Ho “fatto” poi le cantine romane, l’avanguardia, ho fondato con Carlotta Barilli La Compagnia del Porcospino e ho recitato tutta la vita testi importanti guidato da registi altrettanto importanti». «Con Moravia e Maraini, ha fondato il Teatro del Porcospino, è stato amico di Pinter: che ricordo ha di quell’epoca? “È stato un momento molto bello. Con loro ho capito l’importanza degli scrittori e quanto conti farli vivere in teatro con gli attori. Nel ’66 rappresentavamo un grande come Gadda e ho messo in scena il primo testo di Dacia”» (Angela Matassa). «Con Missiroli, alla fine degli anni Sessanta aprimmo una stagione “diversa”, contribuendo a portare in Italia due grandi autori polacchi come Witold Gombrowicz (Il matrimonio, 1968) e Stanislaw Witkiewicz (Commedia ripugnante di una madre, 1969): fu l’inizio di una collaborazione destinata a lasciare tracce profonde nella mia carriera, come credo nella storia del “Nuovo teatro”. Missiroli è stato un regista rivoluzionario, unico per inventiva, e con una grande sapienza per quanto riguarda il lavoro con gli attori. Un uomo d’arte irripetibile» (ad Adriano Sgobba). «Qual è stato il testo che ti ha più cambiato? Il testo e l’autore, intendo. “È stato Harold Pinter. Lo invitai a Roma a vedermi […] in Terra di nessuno e, quattro anni dopo, in Ritorno a casa. Interpretazioni che gli piacquero molto. Ci siamo frequentati fino alla sua morte”» (Colonna). Nel frattempo aveva intrapreso anche una rilevante attività cinematografica, iniziata «nel 1964 con la gustosissima caratterizzazione del “gagà” in Cadavere per signora di Mario Mattoli: primigenio esempio di una spiccata abilità per ruoli magari delimitati ma originali. La sua figura massiccia e imponente, unita a una sorta di fragilità psicologica nei tratti del viso, a una non comune ambiguità di atteggiamenti, ne hanno fatto l’interprete ideale di ruoli sfumati e inquietanti: il monaco silente di Milarepa di Liliana Cavani, la vittima del caso Murri nei Fatti di gente perbene di Mauro Bolognini, lo stralunato collega di Giancarlo Giannini nel triste Buone notizie di Elio Petri, il perfido ministro Bocchini nel documentaristico Antonio Gramsci – I giorni del carcere di Lino Del Fra, l’arabo carognesco in Fuga di mezzanotte di Alan Parker, il romano volgarissimo nel discusso Caligola di Tinto Brass» (Visintin). «Con Pasolini come andò? Salò o le 120 giornate di Sodoma ha fama di essere un’opera maledetta. “Lo so, tutti hanno questa impressione, in parte giustificata dal fatto che Salò e Petrolio sono davvero le sue opere-testamento. Ma in realtà su quel set c’era un’atmosfera molto piacevole: Pasolini era una persona di estrema gentilezza. Per me girare Salò fu un’avventura divertente”» (Nanni Delbecchi). «“Lavorare con Pasolini era, ed è tutt’ora, un marchio indelebile, capace di provocare reazioni fortissime. E, per chi come me ha recitato in Salò, oggi riconosciuto dalla critica come il vero capolavoro di Pier Paolo, la sentenza fu subito chiara: porcone. […] Hai voglia a dire che un film è un film. No, per molti io avevo veramente abusato di quei ragazzi…”. […] Io me lo sono sempre chiesto: quella che il repubblichino per finzione Paolo Bonacelli, in Salò o le 120 giornate di Sodoma, calandosi le braghe rilasciava sul pavimento, tra le risatine dei gerarchi, la pietanza escrementizia di cui la vittima doveva cibarsi, era vera merda? No, cacao. […] “Era della golosissima cioccolata amara con canditi”. […] “Io e gli altri interpreti ci divertivamo come matti. Alla fine della scena ce la mangiavamo con appetito. Per noi era solo ottima e innocua cioccolata”. […] Pasolini conosceva così bene il piccolo borghese da sapere dove pizzicarlo. Come prenderlo in castagna. Nessuno come lui ha fatto incazzare l’italiano medio. Noi ne eravamo consapevoli. E il sapore della cioccolata ne guadagnava”» (Cappozzo). «Lavora fra gli altri con M. Antonioni, M. Bellocchio, L. Cavani e interpreta con successo anche ruoli brillanti in Johnny Stecchino (1991) di R. Benigni e Taxisti di notte(1992) di J. Jarmusch» (Gianni Canova). «Un binomio, quello con Benigni, nato nel 1984, quando un irriconoscibile Bonacelli apparve nei panni dell’inventore Leonardo in Non ci resta che piangere, accanto a Massimo Troisi. […] Difficile dimenticare, inoltre, la sua performance in Sole nudo (1984) di Tonino Cervi, fatua cartolina turistica dal Brasile, dove Bonacelli compare nei panni di un cameriere-Grillo Parlante che filosofeggia davanti alle vetrate di un albergo che si affaccia sul Pan di Zucchero. Oppure è stato un mafioso tutto da ridere nell’incompreso Complicato intrigo di donne, vicoli e delitti di Lina Wertmüller (1985), o un affiliato alla cosca mistico-religiosa di Ebe Giorgini, la “santona” delle cronache nere degli anni Ottanta, in Mamma Ebe (1985) di Carlo Lizzani» (Visintin). «Lei ha fatto numerose Interviste impossibili, programma radiofonico dei primi anni Settanta dedicato a personaggi della storia. “Un’esperienza straordinaria, che rende l’idea di cosa sia stato il servizio pubblico. Testi scritti da Arbasino, Sanguineti, Eco e Manganelli e letti da attori come Laura Betti e Carmelo Bene”. […] La televisione? “Non ne ho fatta tantissima. Ho cercato, come in tutte le cose, di farne poca e di qualità. Poi mi hanno messo al bando”. Cosa combinò? “Nel 1980 mi proposero una parte in Gelosia, da Alfredo Oriani. Uno sceneggiato. Dovevo interpretare un cornuto”. E che c’era di male? “C’era di male che non ce la facevo più, a interpretare parti di cornuti. Avevo già fatto Charles in Madame Bovary, e stesso ruolo ingrato pure nel film di Bolognini Fatti di gente perbene (1974)”. Quindi disse di no… “Il funzionario, un personaggio con la vocina stridula, provò pure a convincermi: ‘Ma Bonacelli, ci pensi su. Io posso chiedere al regista di mettere qualcosa di sociale…’. ‘Ma che me ne frega, del sociale’, gli dissi. ‘Io non voglio più fare il cornuto!’”. Effetti del gran diniego? “Dieci anni di silenzio. E, a chi faceva il mio nome, i dirigenti Rai non è che replicassero con giudizi o commenti chiari e netti. No: borbottavano. Questa è la prassi: borbottare”» (Cappozzo). «Arrivai a un punto in cui dovetti scegliere se fare cinema (e poi lavori per la televisione) o continuare con il teatro: scelsi il teatro. Il cinema, soprattutto in Italia, è un’attività un po’ troppo aleatoria: a differenza di altri Paesi, uno può anche andare molto bene ma, spesso, basta sbagliare un film ed è fatta; il teatro non si può lasciare perché ha bisogno di continuità. Decisi di fare teatro e rinunciai spesso a occasioni cinematografiche che mi giungevano». Negli ultimi anni, abbandonata quasi del tutto la televisione, si è dedicato in parte al cinema (La macchinazione di David Grieco, Notti magiche di Paolo Virzì, Al dio ignoto di Rodolfo Bisatti) e soprattutto al teatro (anche in veste di direttore del Teatro Stabile della Sardegna, dal 1992 al 2005): in palcoscenico è, tra l’altro, tornato a interpretare il ruolo del protagonista in un nuovo allestimento di Il malato immaginario di Molière, già portato in scena con successo a metà anni Ottanta per la regia di Mario Missiroli. «Si tratta dell’allestimento di un classico, che segue il testo classico. […] Molière non ha bisogno che di Molière per far ridere e riflettere» • Tra i vari riconoscimenti ricevuti, per il cinema un Nastro d’argento e un Ciak d’oro nel 1992 (per Johnny Stecchino), per il teatro una Maschera d’argento nel 1985 e il premio Renato Simoni per la fedeltà al teatro di prosa nel 2011 • Vive a Roma ma soggiorna periodicamente a Londra, dove possiede una casa. «Mi sono subito trovato a mio agio a Londra. Quello che mi colpì da subito fu il rispetto delle regole. Rispettare i semafori, la coda per prendere il bus, e potrei continuare all’infinito. Poi a Londra ci sono due concerti al giorno. Ci sono musical che da noi neanche arrivano». «Da dove le nasce questo amore per l’Inghilterra? “Me lo ha trasmesso Harold Pinter, col suo esempio. Non solo drammaturgo di chiara fama, ma uomo estremamente umile e generoso. Ogni volta che andavo su a Londra, lo chiamavo. Lasciavo un messaggio in segreteria: ‘Sarò a casa alle 10’. E lui alle 10 mi ritelefonava. E se c’era una sua prima si premurava di comprarmi i biglietti. Si rende conto? Pinter che ti invita a un suo spettacolo e ti compra i biglietti. E poi mia madre”. Che fece? “Mi mandò a Londra quando io avevo 19 anni. ‘A imparare la lingua’”. Lungimirante.“Allora la gente si chiedeva ancora se fosse più lontana Torino. Dire ‘Gran Bretagna’ era come indicare le Indie. Fu giusto andarci: lo capii anni dopo”. In quale circostanza? “Quando mi chiamarono per una parte in Fuga di mezzanottedi Alan Parker, per esempio. Era il 1978. Dovevo interpretare un turco dagli occhi azzurri. Funzionò”» (Cappozzo) • «Io mi sono sempre interessato della politica. Ho anche cambiato idea qualche volta, pur essendo empatico con la sinistra. Adesso non si sa più cosa fare. E infatti molta gente non va più a votare. Io no, vado sempre nell’urna, magari voto scheda bianca. Questo è un segno di protesta vero» • «Lei si considera immune alle superstizioni?“Fondamentalmente no. Diciamo che sono per la scaramanzia bianca”. Ovvero? “Non ho nessuna fisima o paura che qualcosa porti male. Però se vado a vedere nella mia cassetta dei trucchi ci sono parecchi ammennicoli. Un portachiavi con le corna, un altro con dei pupazzetti… piccoli portafortuna che mi sono stati regalati e da cui non mi sono mai voluto separare. Sono d’accordo con Eduardo: essere superstiziosi è sintomo di ignoranza, ma non esserlo porta male”» (Delbecchi) • Romanista • «Nel corso del tempo Bonacelli ha assunto il sembiante di un tribuno romano: alto, imponente, occhi cerulei, con una corona di capelli nivei che incornicia un volto vaticinante come quello di Tiresia ma da quello distante se facciamo capo al dipinto di Füssli, piuttosto prossimo alla facies di un crapulone tratto dai convivi della Roma imperiale» (Colonna). «Curioso di tutti i sapori della vita (e della tavola), passionale malgrado un inappuntabile aplomb, comico assai più che malinconico. […] Ha tutta l’aria di aver sempre sfidato il mondo, di esserselo goduto tenendosi fuori da ogni trantran sterile e umiliante» (Di Giammarco) • «Uno dei più singolari e rigorosi attori del nostro mondo dello spettacolo» (Di Giammarco). «Un camaleonte di inestimabile lusso» (Visintin) • «Lei ha dichiarato di essere un attore che non tende a immedesimarsi nel personaggio interpretato, anzi, di limitarsi a studiare il testo. È vero? “Sì, è vero. […] Mi sono sempre trovato bene seguendo questo metodo, perché penso che tutto ciò che è scritto dal drammaturgo abbia un suo significato: non ci sono frasi casuali. […] Per quanto mi riguarda cerco di tirar fuori una buona performance studiando a memoria il testo e aggiungendo la mia voce, i movimenti e i gesti del mio corpo. C’è la mia impronta personale, perché logicamente non siamo tutti uguali quando si interpreta un personaggio”» (Crobu). «Quando recito mi sembra di essere l’autore: cerco di andare il più a fondo possibile con il testo. La parte, posso dire di saperla davvero dopo almeno settanta repliche di rodaggio, a contatto col pubblico». «Io sono attore di parola. […] Sono uno che non si fa coinvolgere. Un attore inconscio. L’eccezione, l’ho conosciuta con Terra di nessuno di Pinter: lì c’era, a tratti, qualcosa di commovente, di poetico» • «L’attore […] ha una morale? Quale? “Essere onesto tramite fra il poeta e il pubblico”» (Fabio Battistini) • «Mattioli, Cavani, Bolognini, Scola, Loy, Montaldo, Rosi… “Ho lavorato con tutti, sì. Ma con Monicelli non quanto avrei voluto. Solo nel ’99, in Panni sporchi. L’ho conosciuto tardi, qui a Monti, dove abito e dove anche lui aveva casa. Mi diceva: ‘Saresti stato perfetto come mio attore’. Eh, lo so”. […] Le devo chiedere di Benigni. […] “Roberto è molto generoso. Ma da alcuni anni a questa parte ha cominciato a vergognarsi di far ridere. Per lui la comicità o è alta o non ha più valore”. Sbaglia? “Il comico deve essere cattivo. Mi piacerebbe ritrovare il Benigni che non si faceva scrupoli”. […] Che ricordo ha di Bene? “Si inventò la phonè perché era debole di voce. Intuizione straordinaria. Carmelo è stato un grandissimo uomo di teatro. È stato il Gassman degli anni Ottanta. Ma come attore non era superlativo. Rientrava nella media”» (Cappozzo) • «“Nei confronti del teatro c’è ancora molto pregiudizio. […] A teatro bisogna andarci. Perché leggerlo è di una noia mortale. […] Ma una volta che ci vai il rischio non si estingue. Ne subentra uno nuovo: i registi, la loro proliferazione”. Continui, non abbia pietà. “I registi, per sentirsi e considerarsi tali, devono per forza stravolgere il testo. Di solito aggiornandolo, con effetti grotteschi. Per esempio: l’Arlecchino di Goldoni deve vestire abiti moderni e parlare un gergo da ‘ggiovane’, limitandosi cioè a un esercizio di stile. O addirittura mettendo in scena un Arlecchino che non fa ridere”. Complici? “I critici”. Che scrivono? “‘Il regista ha destrutturizzato…’”» (Cappozzo) • «Preferisce il set o il palcoscenico? “Li amo entrambi se fatti ad alto livello. Sono mezzi diversi: il cinema è un lavoro d’intelligenza, il teatro è più fisico, ma consentono uno scambio di esperienze che rende un attore completo”» (Matassa). «Dovendo e potendo scegliere ho sempre optato per il teatro. […] Prediligo il contatto diretto con il pubblico e con gli altri attori, il poter seguire una storia dall’inizio alla fine. Il teatro è un mezzo che non tradisce mai, soprattutto quello che chiamiamo “di tradizione” e a cui sarebbe positivo si tornasse a dare più spazio» • «È facile passare dal drammatico al divertente o al grottesco? “A me piace molto cambiare, mi alleggerisce il mestiere e mi allontana dagli stereotipi”. […] Quindi variare appaga? “Sì, ma non in termini di popolarità: per ottenere quella sarebbe meglio essere un ispettore per qualche centinaio di puntate in tv”» (Maura Sesia) • «Un tempo facevo gli autografi, ora mi chiedono di scattare una foto. Era meglio quando a noi attori veniva chiesto di lasciare un segno, qualcosa di nostro» • «Una cosa che lei avrebbe dovuto fare e non ha realizzato? “Un teatro mio, dove sperimentare e dare continuità al mio lavoro. Dieci anni fa [cioè nei primi anni Duemila – ndr] avrei potuto farlo. Ma le cose andavano bene, e quando le cose vanno bene tendi a rimandare i progetti. C’è bisogno della crisi per intraprendere le scelte più importanti”» (Cappozzo).