il Giornale, 6 aprile 2023
Biografia di Ivan Turgenev
Durante un’intervista del 2011 (a una rivista statunitense di caccia e pesca!), Vladimir Putin lodò la raccolta di racconti di Ivan Turgenev Memorie di un cacciatore. Quelle storie, disse, «riflettono la filosofia della caccia in Russia, dove l’importante non è il risultato, ma il processo stesso, il fatto che tu sia vicino alla natura e che possa comunicare con le persone che sono lì con te». In quell’occasione, il piccolo «zar» di Leningrado affermava di considerare Turgenev «fra i migliori classici russi». Forse Putin non sapeva (e non sa) che le Memorie di un cacciatore furono scritte molto lontano dalla Madre Russia, in Francia, dove Turgenev si era recato inseguendo, anzi tallonando come un segugio, l’unico amore della sua vita, la cantante Pauline Viardot, e che nacquero dal sottile rimpianto dello scrittore nei confronti del suo Paese rurale (e reale). Lì troviamo la Russia di basso censo, ruspante, terragna. Ma non ancora la Terra vergine (titolo dell’ultimo romanzo di Turgenev) che i populisti della seconda metà dell’Ottocento vollero arare in una sorta di ritorno alle origini, fino all’«andata al popolo», peraltro repressa nel 1874 dallo zar Alessandro II, nel frattempo già fregiatosi del titolo di «Liberatore dei servi» grazie alla riforma del 1861... Ma soprattutto Putin non sapeva (o non ricordava) che Turgenev fu il più «occidentalista» degli scrittori russi. Lo sottolineò più volte lui stesso, compresa la prefazione alle Memorie letterarie e di vita del 1868: «Non credo che il mio occidentalismo mi abbia privato di ogni interesse per la vita russa, di ogni comprensione delle sue caratteristiche e necessità. (...) È difficile discutere di un simile argomento; – so soltanto che io certamente non avrei scritto le Memorie di un cacciatore, se fossi rimasto in Russia. Dirò anche che io non ho riconosciuto mai quel confine che alcuni zelanti ed anche ardenti, ma poco informati patrioti vogliono ad ogni costo tirare fra la Russia e l’Europa Occidentale, quell’Europa con la quale ci legano così strettamente razza, lingua, fede». Ecco perché Ivan Sergeevic Turgenev (Orël, 9 novembre 1818 – Bougival, 3 settembre 1883) si sottrasse alla mitizzazione della propria patria, preferendo chi di quella patria mostrava, tra il serio e il faceto, la polvere sotto il tappeto o gli scheletri nell’armadio. Ovvero Gogol’, che Turgenev salutò, alla sua morte, con un necrologio traboccante stima, affetto e riconoscenza («Gogol’ è morto! (...) quale cuore russo non è scosso da queste tre semplici parole? (...) egli se ne è andato, quell’uomo che ora noi abbiamo il diritto, l’amaro diritto conferitoci dalla sua morte, di chiamare Gogol’ il Grande»). L’articolo, comparso sulla Peterburgskaja gazeta contravvenendo al divieto (per «idolatria»!) della censura, costò a Turgenev fra il 1852 e il ’53 un mese di carcere e un anno di arresti domiciliari nella tenuta di campagna di sua madre. Fu l’occasione per fargli pagare anche il conto di Memorie di un cacciatore, avendovi letto sotto traccia la denuncia delle miserrime condizioni dei contadini. Del resto, agli eroi, alle vittime, ai criminali e ai santi, Turgenev preferiva, come soggetti, gli «uomini superflui». Ce ne sono molti, al centro dei suoi racconti e dei suoi romanzi, ma quello che incontriamo in Alla vigilia, romanzo che ora torna nelle librerie italiane dopo lunghissima assenza (Carbonio Editore, pagg. 204, euro 17, traduzione e prefazione di Maria Caramitti, dal 14 aprile) è talmente superfluo da risultare... fondamentale. Si chiama Pavel Jakovlevic ubin, ha vent’anni, studia arte, vuole fare lo scultore, possiede quanto basta e avanza per passarsela bene, abita alle porte di Mosca, nella casa altoborghese di una zia. E ovviamente ha una fiammella che arde nel cuore, per Elena, anch’essa ventenne, figlia di Nikolaj Artem’evic Stachov, militare a riposo fedifrago e gaudente, e della suddetta zia, Anna Vasil’evna, piagnucolosa e malaticcia. Ma anche l’amico e confidente di Pavel, di tre anni maggiore, Andrej Petrovic Bersenev, timido, pensoso, appassionato di filosofia, è attratto da Elena. Ci sarebbe dunque tutto l’occorrente per imbastire un romanzetto sentimentale incardinato sulla rivalità fra Pavel e Andrej. Ci sarebbe, se Turgenev non fosse Turgenev, e se Elena non fosse come è: «il padre, che un tempo s’inorgogliva della sua fama di bambina sopra le righe, aveva cominciato, una volta cresciuta, a diffidarne timorosamente, e andava dicendo che era una repubblicana esaltata, chissà da chi aveva preso! La debolezza la disturbava, la stupidità la indignava, per la menzogna non contemplava perdono; era esigente senza compromessi, tanto che a volte anche le sue preghiere erano frammiste a rimproveri. Chiunque perdesse la sua stima – rapida com’era, fin troppo, a giudicare – per lei smetteva del tutto di esistere (...) i poveri, gli affamati, i malati la coinvolgevano, turbavano, tormentavano; li vedeva in sogno, chiedeva di loro a tutti i suoi conoscenti; faceva la carità con premura, con involontaria ostentazione, quasi preoccupata. Tutti gli animali in ambasce, i gracili cani randagi, i gattini destinati a morte, i passerotti caduti dal nido, persino insetti e vermi trovavano in Elena difesa e supporto: era lei stessa a nutrirli, li accudiva senza nulla disdegnare». Scritto nel 1860, Alla vigilia si sviluppa fra l’estate del 1853 e la primavera del ’54, quindi alla vigilia e durante le prime fasi della guerra di Crimea. Da lì nasce il personaggio di Dmitrij Nikanorovic Insarov, fiero irredentista bulgaro contro l’arroganza imperialista ottomana. È lui, amico di Andrej, ad avere la meglio quasi senza colpo ferire, nei confronti dello stesso Andrej e di Pavel, a proposito di Elena. Lui combatte per la libertà della sua patria dove vuole tornare, lei combatte in difesa dei deboli e della propria indipendenza. Quindi, in un contesto fatto di frivolezze e perbenismo, vizi privati e pubbliche virtù, è fatale che formino una coppia. Coppia anche (scandalosamente) carnale prima del matrimonio. Ne consegue che qui siamo alla vigilia anche dell’emancipazione femminile. Partendo insieme per dove li porta il cuore, Dmitrij ed Elena si preparano a coronare i loro sogni. Non diremo se riusciranno a farlo. In compenso diremo quale era il sogno di Ivan Sergeevic Turgenev: trovare in Russia, insieme ai tanti, troppi «uomini superflui», anche una generazione di «uomini degni». Ed è proprio il «superfluo» Pavel Jakovlevic ubin, a una manciata di righe dalla fine, a ricordarcelo. Quando l’autore apre uno spiraglio sul futuro con la formula «Cos’è accaduto agli altri personaggi della nostra storia?», ci sottopone uno stralcio di una lettera di Pavel a Uvar Ivanovic Stachov, zio di terzo grado del padre di Elena, figura silente, enigmatica, sfuggente come un oracolo da consultare: «Si ricorda, gli ha scritto tempo fa, della notte quando si è saputo del matrimonio della povera Elena, e io ne discutevo con lei, seduto sul suo letto? Si ricorda come le ho chiesto se ci saranno da noi degli uomini degni, e lei ha risposto: Arriveranno!’. O forza delle terre nere! Ecco, adesso, dalla mia splendida lontananza’, torno a chiederle: be’, allora, Uvar Ivanovic, arriveranno?. Uvar Ivanovic ha snocciolato le dita e ha indirizzato lontano il suo sguardo enigmatico». Questa volta il silenzio non è assenso, ha tutta l’aria di essere un «no».