La Stampa, 6 aprile 2023
Intervista a Umberto Galimberti
Quando diciamo che non possiamo non dirci cristiani, ammettiamo inconsapevolmente che il cristianesimo ha a che fare poco con la parola di Cristo e molto con la cultura occidentale. «Gesù non aveva alcuna intenzione di fondare una religione: chiedeva una fede», dice alla Stampa Umberto Galimberti, filosofo e psicanalista, in libreria con Le parole di Gesù (Feltrinelli), scritto insieme a Ludwig Monti, un libro per bambini che racconta quella fede attraverso le parole che “il figlio di Dio che s’è fatto uomo” ha chiesto di ascoltare e seguire e che, invece, sono scomparse o trasfigurate, rese funzionali a un messaggio prescrittivo. L’amore, il corpo, la verità, il presente: qui s’incardina il modo di vivere che Cristo è venuto a svelare, e che però abbiamo estromesso dalla religione che gli abbiamo attribuito. Joseph Moingt, teologo francese, diceva che l’eccezionalità di Gesù non era di ordine religioso ma umano: «Siamo condotti a Dio sulle vie di umanità che Gesù ha tracciato». Su quelle strade, il catechismo e le messe che ci fanno dire “non possiamo non dirci cristiani” ci portano sempre più di rado, impegnate come sono a saldarci a un’identità che, nei secoli, è servita a giustificare ed esercitare un dominio su noi stessi e le nostre paure, sull’altro, sull’irrazionale, sul mistero, sul futuro. Così, da fatto concreto e umano, il verbo cristiano è stato trasformato in una mistica dell’Occidente.
Professore, premessa inevitabile. Lei resta un greco, come si è sempre definito, o si sta convertendo?
«Greco. Né ateo, né laico, né credente. Greco».
Ne consegue che?
«Che so che devo morire e da questo acquisisco il senso del limite della mia vita».
Anche i greci credevano in un aldilà.
«Ma non in una salvezza spostata in quell’aldilà. E nemmeno Gesù, che infatti parlava dell’importanza del fare, perché la salvezza è in questo mondo: qui si può perseguire e ottenere».
Però Gesù dice: sarai giudicato se non hai vestito chi era nudo, se non hai visitato il carcerato. Dice: sarai. Al futuro.
«Certo. Ma sono cose che fai qui, ora. Questo spostamento nel futuro ci serve ad alimentare la speranza: mentre la cultura greca è tragica, perché crede che la morte sia l’implosione di ogni senso, quella giudaico-cristiana è animata dalla fede, crede che dopo la morte la vicenda umana prosegua».
Nel suo libro scrive che l’ottimismo che caratterizza la cultura occidentale viene dall’idea che morire sia un passaggio e non la fine.
«La cultura occidentale concepisce il tempo così come è descritto dal cristianesimo, secondo il quale il passato è male, il presente è redenzione, il futuro è salvezza. Lo stesso vale per la scienza: il passato è ignoranza, il presente è ricerca, il futuro è progresso».
E invece?
«Invece il futuro è solo il tempo che viene dopo il presente, ed è per questo che è importante agire adesso: non farlo, significa condannare il domani a essere come oggi, o peggiore. La speranza, in questo senso, è una categoria cristiana che ci illude, corrobora quell’idea ottimistica per cui oggi è un giorno migliore di ieri».
Lei scrive: «La verità non si contempla: si fa».
«‘Èmet in ebraico significa verità, ed è una parola che indica l’azione e non la conoscenza. Quando San Paolo dice “noi facciamo poca verità”, intende che agiamo poco, non che cerchiamo o sappiamo poco».
Ma fare cosa?
«Amare. Quando Simone il fariseo invita Gesù a pranzo perché vuole capire se sia davvero un profeta, e lo vede interagire con la Maddalena, che gli lava i piedi e gli unge i capelli, dice: lui non può essere un messia, va con le prostitute. Gesù gli risponde: quando sono venuto nella tua casa, non hai unto con olio il mio capo, ma lei sì e per questo le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Questa è l’operazione di Gesù, il suo fare: l’amore».
Che non può fare a meno del corpo.
«E come potrebbe, se il cristianesimo si fonda sull’incarnazione? Dio si fa uomo, quindi prende corpo. Con la comunione mangiamo il corpo e il sangue di Cristo, non l’anima, che non appartiene né alla cultura cristiana, né a quella ebraica: è un’invenzione di Platone. Se i cristiani stessero solo un po’ attenti quando pregano, saprebbero che il Credo recita precisamente questo: la resurrezione dei corpi, non dell’anima. Le chiese lo dimostrano: sono piene di immagini di corpi».
Chi è il prossimo che Gesù ci dice di amare?
«Non la persona davanti a me, ma io stesso che mi faccio prossimo a un altro, a chi è in difficoltà e incrocio sulla mia strada e mi carico sulle spalle come fa il buon Samaritano. La condizione essenziale affinché questo avvenga è il decentramento del proprio io».
L’empatia è una qualità cristiana?
«Non esistono qualità cristiane. Gesù ha trasmesso un modo di stare al mondo».
È come se lei dicesse che Cristo e cristianesimo non combaciano e che dovremmo scorporarli l’uno dall’altro.
«No. La mia tesi è più semplice: dico che il messaggio di Cristo è stato completamente frainteso e, prima ancora, inascoltato. Lui chiedeva fede nella sua parola e noi lo abbiamo messo a capo di una religione che ci è servita a sacralizzare la nostra cultura. Così, con l’Editto di Costantino è diventata la religione dell’impero romano; con Carlo Magno è diventata la religione del Sacro romano impero; con la scoperta del nuovo mondo, dove in suo nome s’era proceduto allo sterminio degli indigeni, è diventata la sacralizzazione dell’imperialismo europeo e infine, con il Concilio vaticano II, è diventa la sacralizzazione della laicità. In tutto questo, la parola di Gesù è sparita».
La perdita del sacro di cui si parla con insistenza, in questo senso, gioverebbe?
«Altri fraintendimenti. Sacro vuol dire separato. Il sacro è il luogo della massima violenza, della sessualità selvaggia. Sacra è la guerra, è Dio che chiede ad Abramo di uccidere suo figlio, trasgredendo alla sua stessa legge, e lo fa perché abita il sacro. In chiesa non leggono mai le ultime due colonne del libro di Giobbe, dove c’è l’invettiva con cui Dio risponde a Giobbe, quando lui, dopo aver sopportato le pene dell’inferno, gli chiede perché mai, sebbene sia stato giusto, gli vengano riservate solo disgrazie. Dio risponde: credi che per essere stato buono io ti dovrei ricompensare? Dov’eri tu, quando io riempivo il cielo di stelle e il mare di pesci? Eccolo lì, Dio: al di là del bene e del male. Così era anche per i greci. Dio è lo scenario dal quale l’umanità è fuoriuscita: il sacro, appunto».
Come è avvenuta quella fuoriuscita?
«Prima attraverso i riti e poi attraverso la religione. Religione significa relegare: delimitare l’area del sacro, che è pericoloso ma ci abita. Ecco perché le religioni hanno svolto una funzione di terapia universale».
È anche per questo che abbiamo preferito intendere la verità come un punto fermo e certo a cui arrivare?
«La verità ferma è l’invenzione più potente della metafisica dell’Occidente inaugurata da Platone e ribadita poi dalla teologia cristiana con San Tommaso, fino ad arrivare poi a Cartesio, che ha stabilito che la ragione è il luogo della verità. L’esito finale è il grande sogno della modernità: la verità è razionalità. Da questa idea ne è discesa un’altra, ancora più illusoria: chi pensa bene fa il bene. Il nazismo è l’esempio eclatante di quanto questa logica sia sbagliata perché il nazismo ha pensato benissimo come fare il male. Le scoperte scientifiche della contemporaneità hanno poi dimostrato che non c’è una verità assoluta e hanno così inaugurato un tempo nuovo: la post modernità, che io chiamo iper modernità, perché la razionalità intesa come la intendeva l’età moderna è stata distrutta (da Einstein in poi) e si è arrivati a pensare di poterne costruire una con l’Intelligenza artificiale».
E che tipo di razionalità è?
«Una razionalità dei comportamenti che ci rende meglio utilizzabili e che non è più controllata dall’uomo. L’algoritmo ci fa un profilo, che non risponde a chi siamo ma a cosa serviamo, eliminando la nostra dimensione irrazionale – il dolore, l’amore, l’ideazione, l’immaginazione, il sogno – perché disturba la razionalità tecnica».
Credere nella resurrezione è irrazionale?
«Dal punto di vista della religione, che – insisto – è sacralizzazione della cultura, il fatto che il figlio di Dio muoia è uno scandalo. Mentre, dal punto di vista della fede, noi non siamo redenti dalla resurrezione di Cristo bensì dal suo grido nell’ora Nona, quando lui perde fiducia in Dio e urla: “Padre, perché mi hai abbandonato?”. È nel grido del Golgota che Cristo partecipa al dolore umano e ci ama. La resurrezione è diventata importante soltanto perché è funzionale all’idea ottimistica di futuro».
Perché ha scritto un libro per bambini su Gesù?
«Perché non sanno niente di lui. M’interessa che quando un ragazzino entra in una chiesa, capisca cosa vede».
C’entra l’amore particolare che Gesù aveva per i bambini?
«No. Quando lui parla di bambini, intende gli apostoli. Per recuperare le parole di Gesù non servono prediche, ma lo stupore». —