La Stampa, 6 aprile 2023
Renzi al Riformista
No, neppure lui «l’hanno visto arrivare»: Matteo Renzi direttore di giornale, del Riformista. La sorpresa lo entusiasma quanto la cosa in sé: «Siamo stati bravini, non l’abbiamo detto neppure allo specchio». Che pure frequenta spesso, non fosse che per confidargli le sue vaste brame. Questa forse non l’aveva neppure, ma gliel’hanno proposto (Piero Sansonetti, Alfredo Romeo, la sua coscienza riformista) e come poteva rifiutare? Quando nella vita hai fatto tutto quel che sognavi, non ti resta che andare a vedere com’è quel che non avevi mai desiderato. Se puoi. E lui può. Un giro su sé stesso et voilà, ecco la nuova incarnazione. Ci sono i tuttologi e i tuttisti: Renzi, la seconda che ho detto. Per lui il giornalismo è la continuazione della politica con altri mezzi. Non vede contraddizioni o controindicazioni. «Non lascio, raddoppio». In realtà: non lascia, disgiunge. Da quando la sua parabola ha iniziato la discesa, la notte del referendum, (4 dicembre 2016), che feralmente ricorda come tutti gli scampati alla propria fine, Renzi ha creato una nuova dottrina politica, inevitabilmente personale. Riformismo? Liberal-socialismo? Centrismo? No, è la teoria dell’alibi. O meglio, di una ubiquità intermittente che consente di coprire più ruoli senza assumersi la responsabilità di alcuno. Se il partito crolla a un’elezione regionale, lui era impegnato come maratoneta. Se l’alleanza non funziona, lui non ne era il leader, ma un conferenziere in giro per il mondo.
Quante cose è stato Renzi da quella notte, quanti altrove ha visto, quanti alibi di ferro. L’uomo dell’e/o. Sempre pronto a scegliere la congiunzione più adatta al momento. Speaker internazionale, consulente in Arabia Saudita, consigliere d’amministrazione in Russia, conduttore di una docu-serie televisiva dedicata a Firenze, king-maker, king-killer, ha fatto nascere il Conte 2, ha ucciso il Conte 3, contro Salvini, con Salvini. Ha dissipato l’eredità di Gramsci e non ha riscosso quella di Berlusconi. Che colpo sarebbe stato se l’editore Romeo gli avesse affidato l’altro suo giornale, l’Unità. Come idea di marketing però è ancor meglio Il Riformista. Che direttore sarà? In conferenza stampa glissa sul precedente di Veltroni e ricorda “umilmente” quello di Mattarella. Si intuisce che gli provoca più prurito Elly Schlein di Giorgia Meloni. Cita due pensatori: Mike Bongiorno e Flavio Briatore. Il contratto non è ancora firmato. Non si conosce il compenso, ma la durata sì: un anno. «Poi vedrò che cosa fare da grande». Lo è già stato. Ieri.
Per valutare Matteo Renzi oggi occorre non stare al suo gioco, verificarne l’alibi e disgiungere. Che cosa? Il politico dall’uomo. Il primo sembra avviato lungo un viale al cui fondo lo attende Gloria Swanson pronta a farsi parafrasare: «Io sono ancora grande, è la politica a essersi rimpicciolita». A guardarlo e ascoltarlo si prova un fremito, come un’eco, una sensazione lontana. Nostalgia, ecco che cos’è. Di quando c’erano Tony Blair, Barack Obama e appunto,Matteo Renzi. Poi, che cosa è successo? È scaduto il tempo o sono scaduti loro? Dal salone vuoto del Grande Gatsby Lana Del Rey canta una retorica profezia: «Mi amerai ancora quando non sarò più giovane e bella?». Francamente, mia cara, la risposta è no. Il Renzi politico di ora si intesta un’illusione che non si sarebbe concesso allora. Anziché inseguire un sentimento, lo evoca. Anziché individuare un pubblico, lo sogna. I terzisti. I moderati. Le sfumature di grigio in un tempo bianco e/o nero. Agita una bandiera senza colore, indica un ideale pragmatico e/o onirico. Né radicali, né sovranisti. Se ci crede, è una cosa nobile. Gli si conceda il beneficio dell’indicativo, anziché la diffidenza del congiuntivo. Resta l’impressione che non possa più stare a sinistra, non possa buttarsi a destra e cerchi di iscrivere alle Nazioni Unite la sua no man’s land, un’isoletta da naufrago che non è grande abbastanza per lui e Calenda, «entusiasta della nuova avventura». Perché è la fine di «una bella amicizia»? Scompare anche il terzo polo come l’abbiamo conosciuto? Il problema per l’eventuale lapide non sarà individuare la data terminale, ma quella iniziale. Per Renzi si suggerisce un trattino e «continua», come per una serie tv che prima o poi scriverà, o in cui reciterà.
Quanto all’uomo, ha ancora il grande avvenire che il politico si è lasciato alle spalle. La sua irrequietezza è affascinante. Il suo uso frequente del sostantivo «narrazione» è la chiave. È come se scrivesse la propria autobiografia vivendo (e più o meno lo fa). Al termine di ogni capitolo, precipitando dal cliff-hanger, si chiede che cosa renderebbe più interessante il successivo. Si sfracella, si rialza e va a giocarsela al tavolo dell’esistenza seguente. Contemporanea, direbbe lui: il gatto con nove vite in una. Dopo aver sistemato tutti i suoi fedeli, ora può rischiare in proprio. È infido con i pari grado quanto leale con i sottoposti. E questa è una dote.
Durante la diretta Facebook per l’annuncio del nuovo incarico uno dei suoi adoranti sostenitori ha evocato la «mossa del cavallo». Aggiungendo: di razza. È una manovra degli scacchi, divenuta metafora di una iniziativa imprevedibile per uscire da una situazione critica. Sembra più la «mossa del matto». Ha a che fare con la scherma: la compie lo spadaccino spalle al muro. Con una capriola salta sull’avversario e ricompare con la lama puntata alla sua schiena. Un, due, tre, oplà: Matteo è risbucato alle spalle di Renzi. —