la Repubblica, 6 aprile 2023
Intervista a Filippo Ganna
Filippo Ganna fa rotta sulla Parigi-Roubaix con qualche certezza nelle gambe – il secondo posto alla Sanremo e il 10° ad Harelbeke – e la scivolata alla Gand-Wevelgem del 26 marzo. Una botta al ginocchio, niente di speciale. Nelle ultime ore il campione olimpico dell’inseguimento a squadre e recordman dell’ora ha incassato due endorsement pesanti: quello di Sonny Colbrelli, l’ultimo italiano re sulle pietre, e quello di Romano Prodi: «Da pistard è diventato un grande del ciclismo su strada.
Speriamo». Grazie anche alla diretta integrale su Eurosport, Ganna sarà il grande protagonista della Pasqua dello sport italiano.
Nelle corse belghe si è testato e ad Harelbeke è andato forte: 10°.
Di cosa sa il pavé, Ganna, quando ci si corre sopra per vincere?
«Harelbeke mi ha dato le risposte di cui ero già convinto e il lavoro con la squadra sta dando i suoi frutti. Non è la prima volta per me sul pavé, ma è vero che questa è la prima volta che lo faccio in maniera ambiziosa, non da uomo squadra, ma da capitano.
Sono felice della progressione chesto avendo da quello a questo ruolo».
Dicono: quando le condizioni ambientali sono complicate, Ganna soffre più di altri. Cosa c’è di vero?
«È una questione di prospettive, di angolazioni. Quando ho degli obiettivi grandi e faccio una gara in avvicinamento piena di rischi, tendo forse a tirare il freno più del necessario. Ma quando una gara è un obiettivo stagionale, al di là delle condizioni meteo, che ci sia sole o pioggia, sapere di avere la responsabilità e i gradi di capitano mi porta a dare tutto. Me lo dico prima di partire: sono io il leader e devo competere. E competere, nel ciclismo, vuol dire assumersi dei rischi. Sempre. Pavé o no».
La Parigi-Roubaix dal fascino perverso e discusso, da sempre.
Lei ne è affascinato?
«È una gara che ha sempre diviso i corridori. A Hinault non piaceva. Ma la vinse. A me piacerebbe vincerla, entrare nel suo albo d’oro. Poi potrei rifarla l’anno dopo, da campione in carica. E poi mai più».
“Una maledetta lotteria per belgi” disse Hinault. O, più icasticamente, “una merda”.
«Non si può amare una gara in cui tifai del male, in cui soffri dall’inizio alla fine. Non c’è piacere. Ma il suo mito resta».
Lei l’ha vinta nel 2016 da U23.
«A 19 anni, dopo aver vinto il mio primo Mondiale dell’inseguimento. Era la prima volta in assoluto sul pavé. Forse un segno del destino».
Il campione uscente, Van Baarle, suo ex compagno alla Ineos, ora indossa la maglia della Jumbo-Visma, la stessa di Van Aert. Sono loro la squadra di riferimento?
«Sono impressionanti per il numero di frecce che hanno, ma al tempostesso si possono battere. Alla Strade Bianche, alla Sanremo e al Fiandre non hanno vinto, per esempio».
Le resta il rammarico per quell’inseguimento non completato su Van der Poel giù dal Poggio, quando eravate in tre contro uno?
«La Sanremo mi ha dato molto in termini di convinzione. Io, Pogacar e Van Aert abbiamo dato tutto per raggiungere Van der Poel, ma lui è stato superiore. Solamente quando la vittoria era andata, abbiamo iniziato a pensare al piazzamento. In una corsa come la Sanremo il 2° posto è un risultato raggiunto che ti costruisce come corridore».
Si sta liberando pian piano dalla fama di cronoman puro.
«Sto allargando i miei orizzonti. Al Giro andrò a caccia della prima maglia rosa ma mi piacerebbe inseguire anche qualche tappa in linea. Ne ho vinta una di montagna nel 2020, sulla Sila. Anche quella è stata importante nella mia costruzione».
I Mondiali di agosto a Glasgow mettono a distanza di pochi giorni le gare su pista e quelle su strada. E lei dovrà per forza scegliere.
«Dopo il Giro mi piacerebbe trovare un po’ di pace e di tranquillità, di momenti in famiglia. I piani li faremo dopo».