Corriere della Sera, 6 aprile 2023
Intervista a Sabrina Impacciatore
Questa non è la fiaba del brutto anatroccolo trasformato in cigno. Perché Sabrina Impacciatore ha studiato «come una pazza per tutta la vita», e se i suoi difetti, il nasone, l’altezza, l’hanno fatta soffrire in passato, ora sono i suoi punti di forza, la caratterizzano. Ecco, se fino all’altro ieri era considerata una caratterista, ora è una primattrice ed è entrata a Hollywood dalla porta principale, anche se in America ha fatto una sola serie tv (e non un film per il cinema), popolarissima ma corale, The White Lotus, sulle disfunzioni dei ricchi ospiti di un resort, ma il suo personaggio, e la sua interpretazione sono come un assolo. Dopo una falsa partenza sul suo ruolo, quando le chiediamo della sua receptionist di quel grande resort in Sicilia («No! Sono la general manager»), si offre con sincerità, com’è lei, saltando oltre l’asticella, ipersensibile, emotiva.
Lei è romana.
«I primi sette anni di vita li ho passati al Prenestino, poi siamo andati all’Eur. Papà era un dirigente e azionista della Bosch, responsabile della filiale di elettrodomestici in Sardegna. Lo vedevo poco. Mamma era impiegata statale al ministero delle Finanze».
Prima recita?
«A otto anni, in un Natale in casa. Mi misero il velo azzurro sulla testa. Lo ricordo come un momento epifanico, sentivo l’aura, la potenza. Credevo di essere la Madonna! È come se in quel momento, così bambina, mi fossi detta: questa sarà la tua vita. Più tardi in uno sketch casalingo interpretai un idraulico».
Dalla Vergine Maria a un idraulico.
«Facevo anche Tarzan e sua moglie, e la Perla di Labuan. Ma il pezzo forte era l’idraulico che seduceva un’amica. Ero matta già da ragazzina. A 16 anni a scuola mi offrii volontaria in una compagnia teatrale. Debuttai in un teatro di Trastevere facendo sei personaggi».
Non quelli di Pirandello.
«No, certo. Un giorno accompagnai un’amica a fare un provino: le ragazze pon pon a Domenica In per Gianni Boncompagni, a cui devo tutto. A lui e a Gabriele Muccino. Entrati in uno studio enorme della Dear, mi fece cantare Il cielo in una stanza. Ero a cinque metri da Gianni, mi fermò e disse, oddio mi hai sputato in un occhio. Voleva provocarmi. Gli risposi angosciata, dandogli del lei, mi scusi tanto. Voleva studiare la mia reazione. Ma tutto cominciò quando in un’intervista con Roberto D’Agostino parodiai una canzone di Boncompagni cambiando le parole. Mi prendevo in giro sul mio naso. Gianni disse, ma tu allora sai scrivere canzoni».
Il naso grosso è stato un problema?
«La gobba mi spuntò a 12 anni e non ho mai smesso di piangere fino ai 18, quando in una notte ebbi un incubo. Mi toglievano le bende dopo l’operazione chirurgica e urlavo: chi sei tu? Non mi riconoscevo più. Da lì ho cominciato a prendermi in giro sui miei difetti, il naso, l’altezza. Mamma mi diceva che Bridget Jones l’avevo inventata io».
A scuola la prendevano in giro?
«A scuola, inspiegabilmente, ero una leader. Ricevevo una quantità inimmaginabile di bigliettini, da maschi e femmine, mi volevano sposare tutti».
Poi c’è il cognome. Un’attrice che si chiama Impacciatore...
«Non è stata una passeggiata. Gli inizi da attrice sono stati talmente scoraggianti che mi dicevano che non avrei mai fatto questo lavoro. Alla scuola di recitazione di Cosimo Cinieri un giorno venne un gigante, Carmelo Bene. Dopo la lezione mi convocò a casa sua. Sembrava la casa di Gabriele D’Annunzio, drappeggi barocchi, ninnoli ovunque, tende di velluto, scura, senza luce. Mi aprì il maggiordomo: il maestro sta arrivando. Mi bombardò di domande. Arrivarono altre ragazze e mi fece restare. Cercava la partner per uno spettacolo su Don Chisciotte».
Come andò?
«Alle otto di sera mi disse: sei l’unica degna di stare accanto a un genio. Ma sei pronta a rinunciare a tutta la tua vita? Io potrei svegliarti nel cuore della notte per continuare le prove. Rinunciai perché papà ebbe due infarti. Aveva aperto cinque negozi, se ne dovettero chiudere tre. Ci fu una grave crisi economica in famiglia. Chiamai Gianni Boncompagni, gli chiesi una mano per un lavoro. Mi rispose che non aveva mai raccomandato nessuno ma a Non è la Rai cercavano una segretaria di redazione. Mi misero lì. Dopo sei mesi scrivevo testi, canzoni. Per Gianni e Irene Ghergo, suo luogotenente, ero sprecata, mi fecero un provino e mi ritrovai a fare la posta di Sabrina, dove ricevevo lettere ironiche delle spettatrici (scritte da me) su problemi di estetica. A 18 anni ho vissuto un’altra esperienza importante».
Quale?
«A Roma venne un insegnante dell’Actors Studio di New York, per pagarmi il corso al Teatro Argot feci la donna delle pulizie, passavo l’aspirapolvere, preparavo gli arredi di scena. Cenerentola? Sì, anche se non mi ci sono mai sentita».
Il cinema quando è arrivato?
«Il mio debutto lo divido in tre film. Il primo ciak fu per il film tv Il compagno di Citto Maselli. L’avevo conosciuto ai tempi di Macao, sempre con Boncompagni. Il mio personaggio si chiamava Darla, una ignorantona sarda che diceva di non scendere mai a compromessi. Però faceva sempre un appello a Citto Maselli dicendo che era innamorata di lui, ne era ossessionata. Gianni mi fece uno scherzo terribile, facendo entrare in studio Citto Maselli dopo che dicevo che volevo fare l’amore con lui».
E gli altri due debutti?
«Concorrenza sleale di Ettore Scola, dove c’erano Castellitto e Depardieu. Ero agitata, non dormivo la notte, prendevo il Lexotan. Depardieu mi disse nel suo italiano francesizzato perché prendi la pillùla, tu la sera prima di dormire accarezzati le cosce e pensa a me. In realtà andò oltre. Si prese una cotta per me, Scola cercò di proteggermi. Mi sentivo come una bistecca davanti a un rottweiler. Ero in soggezione, oggi vorrei essere mangiata da lui. Il terzo debutto è L’ultimo bacio di Muccino. Quando lo vidi per la prima volta pensai quanto è figo questo, non sapevo che fosse il regista. È stato uno degli incontri più importanti della mia vita, mi fa sentire amata, mi dà fiducia e voglio renderlo felice. Ora che lavoro in Usa fa il tifo per me. Mi ha urlato al telefono: lo vedi, era solo questione di tempo».
Tornando a Depardieu...
«Non sono la bellona, non voglio presentarmi per quello che non sono ma da ragazzina, in modo inspiegabile, ero quella che rimorchiava di più. Ero corteggiata, desiderata, mai tradita. Sono abitata dalla sindrome di Peter Pan».
In genere prende ai maschi.
«Non ho costruito una famiglia perché sarei ossessionata dall’educare i figli. Sono così. Viscerale, possessiva. Vivo sulle montagne russe».
È facile stare con lei?
«Non si è mai lamentato nessuno. Un mio psicologo, molto rinomato, si innamorò di me. Un trauma. Mi disse, dandomi del lei, ringrazi che ci sono le sedie senno’ l’avrei sbattuta per terra; aggiunse che Boncompagni per me rappresentava il padre e per risolvere il problema edipico dovevo andare a letto con lui. Lui era una figura autorevole, avevo 25 anni, ero infantile, ingenua, insomma non lo denunciai».
Se le diciamo «Non ti muovere»?
«Eh, quanto mi ero preparata a quel provino per Sergio Castellitto. Non mi aveva riconosciuta da quanto mi ero travestita. Camminavo con la gamba sciancata, non mi sono lavata i capelli per due settimane, ero talmente dentro quel personaggio dell’extracomunitaria di borgata che emanavo una energia incredibile. Andai vestita in quel modo dal mio terapista che mi disse: quel ruolo è tuo. La mia agente, Moira Mazzantini, sorella di Margaret che aveva scritto il libro, mi chiamò: piccole’, hai fatto piagne tutti. Il mese dopo mi ritelefonò: piccole’, te devo da’ una brutta notizia, hanno preso Penelope Cruz. Da quel giorno la chiamo Penelope Puz, ma era un’attrice di Hollywood, cosa potevo fare?».
Ora a Hollywood c’è posto per lei. Come l’hanno presa a «The White Lotus»?
«Della prima serie non sapevo nulla, non l’avevo vista, in America spopolò, in Italia fu di nicchia. Il provino è stata una cosa complessa, l’agente mi disse che l’avevano fatto tutte le attrici italiane dai 35 anni in su. Ho visto sei episodi e sono rimasta folgorata. Dopo 48 ore mi chiama l’agente: sono impazziti per te».
Ma è ancora a Los Angeles?
«Chi si muove. Sono qui da quattro mesi. È un posto senza eros e io ne sono sempre a caccia. Ma non avevo mai incontrato persone così meravigliose. Le feste sono solo occasioni di lavoro. Ho incontrato per caso Michelle Pfeiffer, il mio mito Laura Dern, Anne Hathaway, Ana de Armas. Tutte a dirmi: Sabrina, we love you».
Chissà l’invidia in Italia.
«Ho avuto delle delusioni che mi hanno spezzato il cuore, colleghe che consideravo amiche mi hanno trafitto, ma ho avuto anche tanti messaggi belli da persone che non immaginavo, anche da gente di cinema, a cominciare da Claudia Gerini che per me è una sorella».
Lì dove vive?
«Sono fortunata e credo nel destino, il fratello di uno dei produttori mi disse quando sei a Los Angeles vieni da me. Lo dirà tanto per dire, pensavo. Vivo con lui, la fidanzata, sua madre con il compagno psicologo che suona l’ukulele, un attore e un musicista. Siamo una comune».
Sabrina, lei è senza filtri.
«Sì, sono così, non ho difese, non riesco a proteggermi, anche nella vita. Sono innocente, istintiva, egocentrica ma pronta a mettermi nell’ombra in un secondo. E pago un prezzo alto, vibro di ogni cosa. Sono una samurai».
Per tanti anni era comprimaria.
«Io mi sono sempre sentita protagonista, mai comprimaria. Quando vado alle feste di Hollywood una parte di me è incredula, un’altra parte mi dice che quello è il mio posto».