Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  aprile 05 Mercoledì calendario

Su "Sono normale? Due secoli di ricerca ossessiva della «norma»" di Sarah Chaney (Bollati Boringhieri)

“Il mio corpo ha una forma o una dimensione normale? È normale piangere di fronte agli altri? Avere un flusso mestruale pesante? Sentirsi in ansia sui mezzi pubblici o fare sesso con sconosciuti?”. Inizia con una serie di domande semplici ma indicative il saggio della ricercatrice inglese Sarah Chaney, Sono normale? Due secoli di ricerca ossessiva della “norma” (Bollati Boringhieri). Un libro che parte da interrogativi diffusi, così come da disagi diffusi: ad esempio quello che provano tante ragazze che sono costrette a comprare pantaloni due taglie più grandi per chiuderli in vita salvo voi averli larghissimi sulle cosce. O non poter acquistare un paio di stivali perché troppi stretti per i propri polpacci, perché il prêt-à-porter ha preso il sopravvento su un passato in cui i vestiti si facevano dalla sarta in base alle proprie forme, mentre oggi sono i nostri corpi a doversi adattare.

Bianco, benestante, eterosessuale (almeno in pubblico)

Sul banco degli imputati, Sarah Chaney mette soprattutto il XIX secolo. Prima, infatti, “la parola normale non era associata al comportamento umano, era un termine matematico che indicava un angolo retto”. Con lo sviluppo della medicina, della statistica della fisiologia, della psicologia, della sociologia e della criminologia ampi settori della vita vengono invece standardizzati, per ricavarne poi una norma, ovvero stabilire chi era normale. E, di conseguenza, “più umano e pregevole”.

In epoca vittoriana, l’uomo medio, dunque normale, nel senso di “ideale” di individuo in base al quale giudicare gli altri era un uomo bianco, medico, scienziato, scrittore, banchiere, avvocato, uomo d’affari o scrittore. A seguire, la donna migliore era quella bianca, sottile e dai lineamenti regolari. Un ideale duro a morire ancora oggi, visto il giro d’affari delle creme per sbiancare la pelle, gli interventi chirurgici e le diete. In questo senso, la scienza della normalità è, sottolinea l’autrice, anche “la storia di come intere comunità siano state alterizzate e definite in opposizione agli standard occidentali”, quelli relativi a, appunto, uomini bianchi, benestanti, occidentali, e – almeno in pubblico – eterosessuali.

QI e indice di massa corporea: bambino sano vs patologico

A fare le spese di una nuova idea di normalità (e normatività) furono anche i bambini. I concetti di quoziente intellettivo, per fissare presunti canoni di intelligenza, e di indice di massa corporea, ancora oggi utilizzato per determinare quale sia il peso sano per una data altezza, introdussero l’opposizione binaria tra normalità e patologia. Eppure, l’autrice spiega come lo sviluppo dei bambini “non è dettato da regole fisse”, e presunte anomalie sono facilmente spiegabili se si guarda al contesto familiare e soprattutto sociale dei bambini. La diffusione della diagnosi da disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Adhd) confermano la forza di un certo ideale normativo (per quanto l’Adhd, nota l’autrice, è sia diventata ormai una malattia inscindibile dalla classe media bianca, non tutte le patologie sono uguali).

L’opposizione tra normale e patologico ha, ovviamente, il suo massimo sviluppo nell’ambito della salute mentale e sempre a partire dall’Ottocento, con lo sviluppo della psichiatria, per la quale “le ragazze isteriche dovevano sposarsi mentre le mogli alcolizzate avevano solo bisogno di occuparsi più dei bambini”. Ma anche la psicoanalisi, se da un lato afferma che essere nevrotici è qualcosa di comune, dall’altro conduce le persone a cercare un’ombra, un segreto oscuro dietro ogni nostra azione, portando nella vita di tutti i giorni lo spettro dell’anormalità.

Frigide oppure sgualdrine, quell’opposizione dura a morire

Ma l’ambito in cui forse l’ideale normativo ha avuto i suoi effetti più drammatici è quello che riguarda il modo in cui le persone fanno sesso. D’altronde, scrive Chaney, “ancora oggi le persone vengono imprigionate o condannate a morte perché hanno avuto rapporti con persone dello stesso sesso, mentre le donne subiscono ripercussioni sociali e legali per aver avuto rapporti e figli fuori dal matrimonio e in alcune zone del mondo l’adulterio è un crimine”. La storia della sessualità è anche la storia delle persone oppresse ed escluse perché sessualmente diverse. Basti ricordare il panico morale dell’epoca vittoriana verso la masturbazione maschile, lo stigma freudiano su quell’orgasmo clitorideo femminile, lo stereotipo della donna come priva di passioni e passiva, dedita alla maternità che, per converso, rendeva le donne passibili di essere accusate di ninfomania, comportamenti osceni o promiscuità. Tesi i cui echi restano, visto che anche le giovani donne di oggi sono giudicate frigide se caute rispetto al sesso, sgualdrine se invece troppo interessate. “Prendere la pillola troppo giovani è sospetto, restare incinte per sbaglio un fallimento morale. E il modo in cui si vestono per uscire la sera è ancora invocato come attenuante per chi è accusato di moleste sessuali nei media e nelle aule di tribunale”, scrive Chaney.

Una definizione fatta per escludere

Un’ultima riflessione riguarda invece le emozioni e il modo in cui vengono espresse. Negli anni cinquanta dell’Ottocento, tutto spingeva verso un controllo delle proprie emozioni. Dopo 150 anni, ancora rimane un’eco di questa convinzione, come dimostra il caso di Greta Thunberg, l’attivista per il clima più volte accusata di non saper “gestire la rabbia”. Ma la teoria per cui provare emozioni forti è da primitivi è servita anche a promuovere credenze razziste, anche se la verità è che “le emozioni e il modo di esprimerle non sono universali”.

Insomma, la definizione di normalità, ed è questo il succo del saggio, è servita soprattutto ad escludere: i neri, la classe operaia, gli immigrati, gli abitanti dei quartieri poveri e le comunità rurali. Perché di fatto, per buona parte della storia umana, chi ha definito i presunti tratti normali era chi possedeva il potere. Ecco perché concetto di normalità va messo in discussione, anzi fatto forse letteralmente saltare. Perché ha ricadute pesantissime su chi non soddisfa queste norme predefinite che, conclude Chaney, “può essere etichettato come diverso, come criminale o malato mentale, finire in prigione o in ospedale psichiatrico, vedersi negato il sostegno statale o l’assistenza sanitaria, in definitiva essere gravemente penalizzato se non addirittura segregato”.