Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  aprile 05 Mercoledì calendario

Domande insopportabili a Massimo Fini

Il giorno dopo mi scrive questa mail: «Ciao Moreno è importante che tu mi legga l’intervista prima di pubblicare. In anticipo ti dico di togliere tutte le foto che prendono di mira gli occhi, perché ovviamente si vede che sono spenti, e questo non mi fa piacere. Ti confesso che sono perplesso: quando hai scopato l’ultima volta?, ma che cazzo di domande sono? Siete forse una versione hard di Chi? o di Novella? Ma il peggio è che poi lo chiamate giornalismo. Massimo Fini». Già, quel Massimo Fini: intellettuale, giornalista da eccessi e passato spericolato, alcolizzato per buona parte della sua vita, pokerista, amante dei casinò e delle donne, scrittore che ha intitolato il suo ultimo libro Cieco perché cieco non solo lo è, ma ha sempre saputo che lo sarebbe diventato, cosa che gli ha fatto vivere la cecità come un’attesa e una condanna. Mi accoglie a casa sua, a Milano. Ha la camicia sporca di caffè, quando cammina trascina i piedi, va avanti lui e mi porta nel salone. Fini è un personaggio mitologico: scontroso, diretto, libero. Amante della letteratura e del calcio. Dell’alto e del basso. Del sublime e del volgare. Lo amo, glielo dico. E lo temo, ma questo evito di farglielo sapere. Mi metto a sedere davanti a lui, lui fuma e quando non fuma tiene comunque una sigaretta spenta in bocca. Evita di guardarmi in faccia, o meglio: di direzionare lo sguardo verso di me. Io invece, consapevole di non poter essere giudicato inopportuno, lo scruto, lo studio, lo godo. Poi mi guardo intorno: sui divani ci sono le magliette di Iniesta (Barcellona) e di Lewandowski (Bayern) e van Nistelrooij (Ajax), «i due attaccanti più forti degli ultimi venti anni». C’è anche quella del Mullah Omar, che non è un giocatore ma un talebano, «però non me ne frega niente, a me affascina la sua assoluta integrità, un valore pre politico e pre religioso». Poi: soprammobili, premi, quadri e soprattutto giornali e libri ovunque. Impilati, accatastati, ordinati per genere. Una biblioteca. Mi sono preparato delle domande provocatorie. Assisto alle sue risposte come si assiste a uno spettacolo.
Tu adesso di me cosa vedi?
«Non te lo dico».
Massimo Fini quante donne ha avuto nella sua vita?
«Ho 79 anni quindi parecchie».
Più o meno di 200?
«Saremo su un centinaio».
E uomini?
«Ho avuto un rapporto omosessuale non completo quando avevo 24 anni. Più che altro per curiosità, e poi comunque quando erano nelle catacombe gli omosessuali mi hanno sempre interessato. Poi la bellezza maschile per me ha un senso. Su di me circolano tre leggende metropolitane. Una che sia misogino, uno che sia omosessuale e uno che sia un tombeur de femmes. Nessuna corrisponde alla realtà, ma in ognuna c’è un pizzico di verità. Anche se il grande amante della mia vita è stato l’alcol. Un amante che chiede molto».
Cosa stai bevendo adesso? Che vino è?
«È un rosso come puoi vedere».
 
Aspetto qualche secondo con la speranza che mi chieda se ne voglio un bicchiere anche io. Invano.
 
L’ultima volta che hai fatto l’amore?
Aspira la sigaretta. Resta in silenzio. Credo che si arrabbi. Poi fiata: «Non posso risponderti sennò la mia fidanzata si incazza».
Soffri ancora per amore?
«No, mi è capitato da giovane. Ho avuto un rapporto così pieno con una donna che dopo ogni notte d’amore, praticamente ogni notte, la mattina mi rendevo conto che dovevo riconquistarla. Un gioco affascinante, ma dopo 9 anni eravamo entrambi esausti, quindi ci siamo lasciati. Eravamo ancora troppo adolescenti nonostante io avessi 52 anni e lei 48, troppo adolescenti per accettare che un sentimento che aveva suonato a 10 decibel scendesse a 8. È molto onesto, perché poi quasi tutti accettano il compromesso di scendere anche a meno di 8. Canta giustamente Battiato che non c’è peggior insidia che amarsi con monotonia».
Quanti soldi hai in banca?
«Lavoro da 52 anni, quindi qualche soldo ce l’ho. Comunque li ho dati da amministrare a mio figlio Matteo perché non mi piacciono i contanti».
Quanti ne hai persi nei casinò e giocando a poker?
«Giocando a poker ne ho solo vinti, ero il numero uno di Milano. C’è ancora gente a cui puoi chiedere. Però con i soldi che vinci a poker poi vai al casinò, poi vai all’ippodromo, stramaledetti quadrupedi, e li perdi tutti».
Com’è il buon pokerista?
«Nel vecchio poker conta molto la psicologia, ci vuole presenza al tavolo e quella cosa misteriosa chiamata carisma. Io ho giocato anche con Raul Gardini, lui aveva 30 anni, noi ne avevamo 22-23. Da come giocava potevi capire che avrebbe perso una fortuna pazzesca: a poker si vince sui punti medi, le scalette, i tris. Dove gli altri fanno uno tu devi fare tre, e quando hai un punto forte devi stare molto attento perché può capitarti qualcuno con un punto superiore. Mi ricordo che Gardini con il suo poker doppio, al quinto rilancio, non si è reso conto che non fosse il caso di rilanciare ancora. Quindi ha perso tutto quello che aveva vinto e molto di più. Lo accompagnai alla macchina e aveva una Bentley. Uomo simpatico, ma disastroso».
Dove andavi a giocare?
«Si giocava molto a casa mia. Poi naturalmente a Campione, San Siro e a Baden-Baden dove si trovano ancora delle bellissime scritte di Dostoevskij, che era un grande giocatore votato a perdere. Perché inconsciamente il giocatore vuole perdere, la sconfitta gli movimenta la vita».
L’ultima volta che hai fatto a botte?
«Deve essere stato circa una decina di anni fa con un americano. Io chiamo il taxi davanti al Principe di Savoia, mi siedo ma si infila questo. Ho girato intorno alla macchina, ho aperto la portiera, l’ho preso e buttato per terra. Poi sono intervenuti a dividerci. Adesso non riuscirei a estrarre neanche un gatto».
Chi è che richiameresti in vita?
«Nel mio mestiere, oltre a Walter Tobagi, l’unico amico che ho avuto è stato Giorgio Bocca, che considero più di Montanelli il migliore giornalista italiano del dopoguerra. Lui aveva 25 anni più di me, ma non si poneva mai come un fratello maggiore, mi dava insegnamenti con un pragmatismo scevro di ogni sentimentalismo, che forse alle volte avrei dovuto seguire un po’ di più».
Sei sempre stato un grande appassionato di auto. Nel 2035 pare che saranno solamente elettriche.
«Non me ne frega un cazzo perché nel 2035 non ci sarò».
Non hai mai creduto in Dio.
«Io penso quello che dice Baudelaire: l’unica scusante di Dio è di non esistere. Perché che colpa può mai avere un bimbo di due anni a cui viene un tumore? Oppure c’è quell’altra frase di Rimbaud che mi piace: se Dio c’è si è nascosto molto bene».
Cosa stai leggendo adesso?
«Un libro di Sciascia».
Quotidiani invece?
«Sostanzialmente tre: il Corriere, il Fatto e il Giornale. Con l’aggiunta della Gazzetta quando c’è qualche partita».
Perché questi tre?
«Il Fatto è dove scrivo. Il Corriere perché nonostante sia il giornale più vile d’Italia è anche quello più completo e ordinato. In quanto al Giornale, la parte socioculturale è fatta molto bene da Alessandro Gnocchi e da Luigi Mascheroni».
Come fai a leggerli?
«Li leggo con l’assistente che ho adesso».
Come avviene questo rito?
«Deve dirmi i titoli, poi leggiamo gli articoli che mi interessano, faccio segnare alcune cose, infine archivio».
Ti dico dei nomi, tu sentiti libero di esprimere un aneddoto o un giudizio. Vittorio Feltri.
«Vittorio è stato il più grande direttore della sua generazione, che poi è la mia, ma secondo me anche di un paio di precedenti. Fa un po’ pena vederlo adesso non accettare questo viale del tramonto. Abbiamo avuto sempre rapporti molto ambivalenti. Quando lui lasciò L’indipendente gli diedi della canaglia. Però devo dire che se avevo un pezzo che nessuno pubblicava lui l’avrebbe pubblicato, perché il fiuto non gli si può negare».
Sallusti.
«Una volta lo avevo sfidato a duello con la pistola, perché aveva sostenuto che Travaglio mi dettava i pezzi o qualcosa del genere. Lui molto abilmente la sfida l’ha trasformata in una bicchierata a casa sua, in via Goito. A un certo punto chiacchierando Sandro dice, rivolto alla mia fidanzata: sai Massimo ha rinunciato a miliardi, non si tratta di prendere mazzette ma di entrare in un certo giro, e poi tutto consegue da sé. Parlava di sé stesso, e questa onestà intellettuale a me è piaciuta».
Vedi talk show?
«No. Ogni tanto andavo da Formigli o da Floris, poi ho trattato male D’Alema e io lì non ci ho messo più piede. Sai, forse dovevo dare più retta a una cosa che mi aveva rimproverato Bocca: se tu, alla tua età, credi di poter scrivere e dire sempre la verità sei un cretino. Questa frase detta da uno dei più coraggiosi giornalisti italiani mi colpì; avrei dovuto dargli più retta, avrei evitato tanti odi».
Com’è la tua giornata? A che ora ti svegli?
«Presto purtroppo. Alle nove».
Non è prestissimo.
«Per me è presto».
A che ora vai a letto?
«Alle tre. Tutti i libri li ho scritti di notte».
Come dormi quelle sei ore che dormi?
«Bene, in questo momento bene».
Cosa sogni?
«Non lo so, i sogni svaniscono all’alba e non te li ricordi più».
E dopo la sveglia cosa succede?
«Faccio colazione con un tè. Poi in genere la mattina ho appuntamento con qualcuno, vado a bermi un bicchiere in un baretto che c’è qua, e alle due comincio a lavorare».
Stai scrivendo adesso?
«No. Ho scritto Cieco e credo che sia l’ultimo mio libro».
Non ci credo.
«Uno deve anche morire a un certo punto».
Chi muore prima tra te e Giuliano Ferrara?
«Spero io, perché Giuliano è un po’ più giovane di me».
A che età vorresti morire?
«A 16 anni. È stato il mio anno favoloso, ma ho perso tempo. Vorrei morire di morte violenta, questo sì. È che ci sono poche occasioni adesso, non voglio ritrovarmi a trascinarmi come un ammalato terminale».
Ultima cosa che vorresti fare prima di morire?
«Spararmi».
Sulla tomba cosa ci vorresti scrivere?
«Niente, Massimo Fini anno di nascita e anno di morte»
Sei bravo a fare l’amore?
«Questo bisognerebbe chiederlo alle donne che sono state con me».
Che voto dai a 79 anni, dopo una vita di amori e di prestazioni sessuali, al tuo cazzo?
«La fidanzata che ho attualmente ha detto che ho un cazzo molto giovane. Secondo me vive in un mondo un po’ di favole. Comunque sì, dai, me la cavo. Non ho raggiunto ancora la pace dei sensi. Non so se sia un male o un bene».
Quindi ti masturbi ancora?
«No».
Hai mai pagato escort?
«Nessuna donna mi crede ma non sono mai andato a puttane».
Hai trombato più te o Travaglio?
«La sessualità di Travaglio è assolutamente misteriosa, nonostante io lo conosca molto bene».
Più te o Saviano?
«È uno che mi è talmente odioso che non voglio nemmeno prenderlo in considerazione».
Ti arrapa un po’ Giorgia Meloni?
«Non mi arrapa, però mi piace nel senso che è fresca e diretta. Non è ricattabile. Io l’ho conosciuta quando non era ancora Giorgia Meloni e mi è parsa animata da una vera passione politica. Detto questo le sue idee le condivido pochissimo. Soprattutto non puoi essere europeista e atlantista nello stesso tempo. Per essere atlantista devi essere ora e per sempre sotto il gioco americano».
L’ultima sbornia che hai preso?
«È abbastanza lontana nel tempo, facciamo due anni fa. Adesso sto più attento, non bevo superalcolici. Da ragazzo ne prendevo di sbornie, ma bastava che mi tuffassi in mare e uscivo come se non avessi bevuto un goccio. Il mare è sempre stato taumaturgico per me. In tutti i sensi».
Ti manca di più non vedere un bel culo o non vedere il mare?
«Il mare lo vedo perché è grande. I bei culi pure continuo a vederli, ho una cecità selettiva».
Ora come riconosci le belle donne per strada?
«È questo il punto. C’è una canzone di Fabrizio De André, Le passanti, vuoi sentirla?»
 
Rispondo di sì, ovviamente. Fini gira la testa di scatto e ordina: «Alexa! Metti Le passanti!» Alexa non capisce. Fini bestemmia: «Alexa! Fammi ascoltare la canzone Le passanti». Alexa stavolta capisce. La canzone parte. Mi godo il momento. Fini non girerà mai la testa, guarda nella direzione dell’assistente vocale ascoltando il pezzo in religioso silenzio. Quando finisce dice: «Parla delle occasioni mancate, di una donna che poteva dare una svolta alla sua vita, ma che non ha avuto il coraggio di seguire quando scende dal tram. Però attraverso il gioco degli sguardi l’ha potuta toccare e amare».
 
Quali altri sensi hai sviluppato per capire che quella donna ti piace?
«L’udito. Ascolto il passo, ascolto la voce».
Cos’è che ti fa paura?
«La malattia in tutte le sue forme. Il male che viene dal corpo».
Cosa resterà di tutto questo, dei libri che ti inondano queste stanze, di tutto quello che hai scritto?
«Dei miei libri spero che alcuni restino nel tempo, almeno per un po’. Il resto lo lascio a mio figlio. Lui vorrebbe fare una sorta di fondazione».
Per terra, abbandonata tra vari giornali, c’è una macchina da scrivere. E quella li?
«Sta lì».
La utilizzavi?
«La utilizzavo. Naturalmente posso scrivere a occhi chiusi ma non posso rileggere. Quindi è inutile».
Cos’è che ti fa piangere?
«Ho pianto una sola volta in vita mia, quando mio figlio è stato operato. Mia moglie è stata più forte di me».
Dove scrivi?
Indica il tavolo dietro di me. «Qui».
Con cosa scrivi?
«Con un pennarello. Ma se devo fare una dedica la faccio a penna. Non si capisce niente di quello che scrivo però c’è la mia firma».
Me la faresti?
«Sì».
 
Ci alziamo, va al tavolo. Gli porgo il suo libro, scrive questa dedica: «A Moreno e alle sue domande insopportabili». In effetti me la deve leggere lui, perché la scrittura è incomprensibile. Prima di andare via gli chiedo: vuoi rileggerla l’intervista? «No. E ti consiglio di non chiederlo mai».
 
Ci salutiamo. Andando via ho un che di malinconico. Ho visto un uomo, un gigante del giornalismo e della vita, al suo tramonto. Trasandato («lo sono sempre stato»), con una grande dignità e la volontà di non arrendersi. Nel suo essere scontroso e nel suo tenerti a distanza mi ha ricordato anche mio nonno. Il giorno dopo mi arriva la sua mail: ci ha ripensato, l’intervista la vuole rivedere. Una volta scritta, gli chiedo se posso tornare a casa sua a rileggergliela. «Non mi è possibile, mandala via mail». Eseguo. Ed ecco il suo commento: «Il poker che aveva in mano Raul Gardini era un poker di 8, solo uno che non ha mai visto un tavolo da poker può parlare di un “doppio poker”. Alcolista sì, ma “per buona parte della sua vita” no. Per dieci anni non ho toccato un goccio».