la Repubblica, 5 aprile 2023
Il processo a Trump e i sette personaggi da romanzo
«Rimpiango non ci sia Tom Wolfe, vestito di lino candido, tra i banchi della stampa al processo Trump: che romanzo ne avrebbe tratto!», lamenta la signora dell’Upper West Side, sponsor dell’arte contemporanea a Soho, pensando all’incriminazione dell’ex presidente Donald Trump, accusato di pagamenti illeciti alla pornostar Stephanie Gregory Clifford, in arte Stormy Daniels. Wolfe, autore de “Il falò delle vanità” (Mondadori), sarebbe davvero impazzito davanti alle due Susan in aula, Susan Necheles per la Difesa, Susan Hoffinger per l’Accusa, rivali che, ci racconta Madame J. a patto di restar anonima, «ai party si elogiano a vicenda, dopo le cinque settimane a scontrarsi al processo alla Trump Organization, vinto da Hoffinger con lo storico manager di Donald, Allen Weisselberg, condannato per frode fiscale, credo lasci il carcere di Rikers Island in queste ore».
Le due gladiatrici vantano background opposti, Necheles, madre portoricana, padre ebreo tedesco, si definisce “immigrante”, in aula è un mastino, obietta ad ogni parola del pubblico ministero, fa perdere la pazienza al magistrato, conquista i giurati. Ha difeso il boss Venero Frank Mangano, detto “Benny Uova”, eroe dell’aviazione, poi sicario della famiglia Genovese. Laureata a Rochester, Necheles entra nella classe dirigente con gli studi a Yale e da lì, ci ricorda Madame J., «si fa le ossa allo studio di Frederick Hafetz, celebre per la causa sull’eredità di BrookeAstor, il cui suocero, John Astor IV, morì nel naufragio del Titanic. Harvey Weinstein, il produttore accusato di violenza sessuale, pregava Necheles di difenderlo, invano, invece il finanziere Reichberg, sospettato di mazzette, e il senatore del Bronx dal nome di matador, Pedro Espada, alla sbarra per crimini federali, hanno avuto fortuna e Susan li ha assistiti». Susan Hoffinger nasce nell’America che conta, si forma al college liberal di Amherst e alla facoltà di Legge di Columbia, «così snob, che l’ex preside Benno Schmidt recitava nei film di Woody Allen!». Il padre era braccio destro di Frank Hogan, per una generazione District Attorney a Manhattan, il cui nome adorna ancora il palazzo dei magistrati.
La rivista Super Lawyers, sì esiste questa testata, descrive le sorelle giuriste figlie d’arte, Susan e Fran Hoffinger, incantata. «Non hanno mai litigato nello studio di famiglia, ciascuna porta i suoi talenti, papà ha insegnato che un avvocato deve individuare i punti deboli dell’accusa e colpirli senza pietà».
Per questo Alvin Bragg, 49 anni, District Attorney, pubblico ministero che ha rinviato a giudizio, per la prima volta nella storia Usa, un ex presidente, ha convinto Susan Hoffinger a collaborare con lui, vuole anticipare la difesa Trump. Dietro le due Super Avvocate, infatti, agiscono due uomini, Alvin Bragg per far condannare Trump, Joseph “Joe” Tacopina per farlo assolvere. Nel romanzo “Il Processo Trump” Bragg interpreta la parte del primo procuratore distrettuale afroamericano, nato negli storici isolati di Striver’s Row ad Harlem, dove si cantavanoinni in chiesa mentre le gang si scontravano con la polizia, «per tre volte, da ragazzino, gli agenti mi han fermato, pistola in mano» ricorda Bragg. Molti compagni finiscono in galera, o all’obitorio, lui ha talento e fortuna e si diploma al liceo prestigioso Trinity School, laureandosi ad Harvard. Eredita la carica da Cyrus Vance jr. il cui padre era stato segretario di Stato del presidente Carter: prudente, Vance non crede di aver prove per incriminare Trump, Bragg procede.
Se vincesse, in attesa dei processi in Georgia e a Washington, diverrebbe l’eroe dell’America democratica. Se perdesse, sarebbe “il nero pagato dal finanziere ebreo Soros” della disinformazione online.
È l’esito su cui conta Joe Tacopina, pittoresco avvocato il cui ritratto Madame J. fa a memoria «2005, Bernard Kerik deve diventare ministro degli Interni di Bush figlio ma viene silurato, per non avere pagato tasse sulla baby-sitter. Dall’11 al 12 dicembre, Joe fece, secondo ilNew York Times, 316 chiamate dal cellulare, pur di salvare Bernard». Studio al 35esimo piano, 275 Madison Avenue, Tacopina si vanta «Ho il telefono cucito all’orecchio», parla bene italiano, mamma di Montelepre, patria del bandito Giuliano, lauree così così, Skidmore e Connecticut, verve instancabile da “paisà” che lo porta alla presidenza della Spal, a difendere Chico Forti, al centro di una campagna internazionale, Michael Jackson, gli assi del baseball. «Unsuccesso in aula farebbe di Joe il nuovo Rudy Giuliani, cocco della destra», sorride Madame J. L’aula sarà presieduta dal magistrato Juan Merchan, come nel caso di Weisselberg, e Trump twitta «Quel giudice mi odia!». Papà poliziotto colombiano, cresciuto poverissimo, scuola pagata facendo lo sguattero, la rinuncia all’università per mantenere la famiglia, il ritorno nei corsi da studenti lavoratori, “voti orribili” riconosce, Merchan, con la toga addosso, è impeccabile, senza emozioni, gelido alle pressioni.
«Infine restano loro due – conclude Madame J. – Stormy Daniels, astuta attrice e produttrice di porno, che trasforma una sveltina con Donald in caso storico, lucrando sulle vendite online, e l’ex avvocato dei Trump, Michael Cohen, talmente sedotto dal clan da comprare case nei loro palazzi e dirci serio serio, «Per quella famiglia io mi farei sparare». Condannato per frode, Cohen testimonia contro l’ex cliente, da pregiudicato, potrebbe non convincere i giurati, ma se ha passato a Bragg documenti o chat sui pagamenti illegali per tacitare l’attrice, magari dai fondi elettorali, crimine penale, si farebbe dura per “The Donald”.
Il processo avrà momenti scabrosi, erotici, anche con Karen McDougal, modella di Playboy, che ora confessa dieci mesi di amori con Trump cancellati con 150mila dollari, ma potrebbe, con la sentenza, influenzare i destini del mondo, da Manhattan, all’Ucraina, a Taiwan, con le gesta di questi Sette Personaggi in cerca di Trump.