Corriere della Sera, 5 aprile 2023
Giampiero Ingrassia racconta suo padre Ciccio
La gente leggeva o sentiva il cognome Ingrassia e chiedeva subito: parente? Ma a Giampiero, figlio di Ciccio Ingrassia, non è mai dispiaciuto sentirsi il figlio di... «Nell’immaginario collettivo, certo, puoi essere considerato un raccomandato – afferma l’attore —. In realtà mi sento un privilegiato. Poi è ovvio che, quando ho iniziato a intraprendere lo stesso mestiere di mio padre, mi sono sentito spesso più osservato con attenzione, giudicato con maggiore curiosità da registi e colleghi. Capivo che dovevo possibilmente meravigliarli, altrimenti erano cavoli...».
Un padre nato cento anni fa in una famiglia poverissima. Come ha iniziato a calcare le scene?
«Era nato a Palermo nel povero quartiere Il Capo, figlio di un ciabattino, lavorava col padre a bottega ma era orgoglioso della sua povertà, diceva che non se ne vergognava e che era amico intimo della fame. Con i fratelli, mi pare fossero cinque o sei, dormivano tutti insieme in un’unica stanza. Sin da giovane sognava di fare l’attore ed essendo impensabile per lui frequentare scuole di recitazione, è nato come attore di strada, poi esordì nell’avanspettacolo con le squattrinate compagnie girovaghe. Spettacoli per un pubblico popolare, messi su con pochi mezzi: una volta dovette dipingersi le caviglie di nero con la vernice, perché non c’erano soldi per comprare i calzini che doveva indossare sotto i pantaloni in scena. Quando ebbe le possibilità economiche, fu generosissimo: regalò case ai parenti bisognosi».
In che modo conobbe il suo futuro compagno di scena: Franco Franchi?
«Anche lui era nato poverissimo nel quartiere della Vucciria. Papà già lavorava in un teatrino locale e lo aveva notato mentre si esibiva in una scenetta comica, chiamata la Posteggia, cioè fatta per strada. A quel tempo Franco si faceva chiamare Ciccio Ferraù, faceva imitazioni e giochetti acrobatici. Quando si ammalò un comico che lavorava nello spettacolo, papà si ricordò di quell’artista, lo propose all’impresario. Franco ne fu felicissimo e all’inizio dava del lei a mio padre. Subito nacque il loro sketch Core ingrato».
Tanti i film insieme...
«Sono stati la prima coppia di fatto del cinema italiano, più di Totò e Peppino, di Tognazzi e Vianello, persino di Stanlio e Ollio. E io li ho considerati come i miei genitori, addirittura c’era chi si sbagliava pensando che fossi figlio di Franchi Cicci...».
Una comicità, la loro, mai volgare.
«Due antieroi surreali, risate tante, senza bassa trivialità. Camilleri li definiva la continuazione del teatro dei pupi. Erano talmente amati dalla gente che, andare in giro con la coppia, sembrava come girare con i Beatles. Quando pranzavamo tutti insieme al ristorante, non c’era un attimo di privacy, una processione di ammiratori: una continua richiesta di autografi e di foto insieme. Una giovane donna si fece autografare addirittura sopra una tetta! Sul décolleté molto aperto, con un pennarello... E mia madre non la prese benissimo. Quando ero ragazzo, non sopportavo molto questo assalto, che non mi permetteva di stare insieme con i miei in santa pace. Oggi capisco che era una grande dimostrazione d’affetto».
Tanti successi e anche tante incomprensioni, tra Franco e Ciccio...
«Proprio perché erano come marito e moglie, non sono mancati i litigi, che non riguardavano il piano personale, erano solo dovuti a diverse visioni del loro lavoro. Franco, più istintivo, accettava qualunque proposta; papà, più riflessivo, sosteneva che potevano compiere scelte oculate dei registi con cui lavorare, dei copioni da accettare. Un contrasto inevitabile, per questo hanno trascorso periodi a lavorare ognuno per conto suo... però si volevano bene».
La critica non fu molto benevola.
«I film incassavano un botto, ma c’era la moda di parlarne male a prescindere e, secondo me, i critici non li vedevano nemmeno, pur scrivendone malissimo. I primi tempi i due attori ne soffrivano, poi se ne sono fregati e sono stati rivalutati negli anni, come è avvenuto con Totò. Bisogna ricordare che sono stati diretti anche da registi come i Taviani in Caos e Comencini nel Pinocchio. Mio padre ha inoltre lavorato con Petri, Vancini, Fellini. Quando Franco è mancato, papà decise dopo poco di ritirarsi. L’ultima cosa che ha fatto fu Giovani e belli con la regia di Dino Risi, poi disse: basta, dopo anni e anni che non ho dormito, mi voglio riposare, mi godo la famiglia e la pensione. L’ho molto ammirato per questa sua scelta».
Lo ha mai seguito su qualche set?
«Certo! Avrò avuto 10-11 anni e un giorno in cui non dovevo andare a scuola, mi portò sul set di Amarcord. Eravamo in un casale in un bosco vicino Roma. Interpretava il ruolo di Teo, lo zio matto e, in una scena, doveva far finta di farsi la pipì addosso. Mi avevano piazzato proprio vicino a Fellini, un omone enorme con una vocina sottile che, da lontano, lo incitava dicendogli: Ciccio sgrullalo! Sgrullalo! Riferendosi al suo coso... E mio padre, imbarazzato, rispondeva: Federico non posso, c’è mio figlio! Per quel film non vinse il David solo perché venne doppiato dall’attore emiliano Enzo Robutti: Fellini non voleva l’accento siciliano, ma emiliano. Peccato, se lo sarebbe molto meritato».
Ciccio era contento che suo figlio seguisse le sue orme?
«Mi ripeteva che il suo mestiere comportava una faticosa gavetta. Preferiva che mi laureassi, anche se lui a malapena aveva frequentato le elementari: studiava poco e il maestro lo mandava a fare la spesa per sé stesso, e poi lo promuoveva. Io, per farlo contento, mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza ma il caso volle che, a causa della rosolia...».
Che accadde?
«Mentre stavo preparando un corposo esame di Diritto romano, esco con degli amici e uno di loro, il giorno dopo, mi chiama chiedendomi: hai mai avuto la rosolia da bambino? Rivolsi la domanda a mia madre, mi rispose che era l’unica malattia che non avevo mai beccato: qualche giorno dopo mi riempii di puntini rossi. L’esame saltò e per me fu un segno del destino: sognavo di fare l’attore e poi venni ammesso al laboratorio teatrale di Gigi Proietti, che per me è stato un “papà bis”. Comunque, udite udite: ho ricevuto il mio primissimo applauso appena nato».
Addirittura?
«Ciccio recitava al Sistina nel Rinaldo in campo con Domenico Modugno. La sera del 18 novembre 1961, tra il primo e il secondo tempo, vengono a sapere della mia nascita e il mitico Mimmo lo annunciò festoso alla platea, da dove partì il caloroso battimano. Purtroppo, papà e mamma non riuscirono a vedere il mio debutto in un piccolo teatro romano: quella sera la Roma aveva vinto lo scudetto e la città era bloccata dai tifosi».
A Palermo, in via San Gregorio dov’è nato Ciccio, Pippo Falcone ha realizzato un murale dedicato a lui.
«Un bell’omaggio, che si aggiunge alla targa dedicata alla coppia Franchi-Ingrassia nella piazzetta del Teatro Biondo. Un grande onore per mio padre, uomo molto riservato e, se avesse potuto festeggiare i 100 anni, lo avrebbe fatto in famiglia. Oggi, a vent’anni dalla sua scomparsa, mi manca la sua voce, il prenderlo per mano, le nostre chiacchierate in salotto e soprattutto il suo sguardo fisso e severo quando, da bambino, ne combinavo una delle mie: capivo che era incazzato...».