Corriere della Sera, 5 aprile 2023
Intervista al mago Silvan
Sim Sala Bim. Ma cosa vuol dire?
«Non lo so, era il ritornello di una canzoncina danese anni ’40. Prima la mia parola magica era tactàc-serùmba-yamaclèr, l’avevo inventata io, sente come suona bene?».
Illusionista, mago, prestigiatore, manipolatore, che titolo gradisce?
«Illusionista. Ma anche mago può andare. E la magia è una forma d’arte, che crea l’illusione della verità, dove l’impossibile diventa possibile», spiega dotto Aldo Savoldello in arte Silvan, anni per vezzo mai dichiarati perché «un mago non ha età» e come contraddirlo. Con la chioma bruna («come la mia bisnonna Luigia, che morì a 104 anni e aveva ancora i capelli neri, la chiamavano nonna Mora») e la voce suadente con cui da sempre incanta il pubblico, mentre mostra una moneta, fa svolazzare le mani in aria, dorso, palmo, dorso, palmo, destra, sinistra, incrocio rapido di dita e voilà, non c’è più.
Ora anche commendatore della Repubblica italiana.
«Come mio padre Giovanni, capo della polizia lagunare di Venezia, fu nominato nel 1976 dal presidente Leone. Bello, alto, carismatico, era il sosia di Rodolfo Valentino, lo chiamarono a Hollywood, però alla fine non ci andò».
A 7 anni l’incontro con un mago di paese.
«Papà aveva una casetta a Crespano del Grappa, ci passavano le vacanze estive. Il sabato c’era la lotteria in piazza, primo premio un maialino vivo, la domenica il mercato delle mucche. Una sera, in pizzeria, l’attrazione era questo prestigiatore simpatico, con la marsina lisa, grande affabulatore, proponeva numeri con fiori finti e foulard. “Ehi tu, vieni qui”, mi disse. E mi porse delle monetine su un vassoio. “Prendile. Sono dieci giusto? Ora dammene tre che me le metto in tasca, così. Te ne restano sette, stringile forte nel pugno”. Pronunciò non so quale formula. “Ora ricontale”. Riaprii la mano e cominciai: “Uno, due, tre... dieci”. Di colpo fui invaso da un tremore, un’emozione forte che mi sembrava di volare. Era il bacillus magicus appena entrato in me».
E dove o da chi ha imparato tutto ciò che sa?
«Sono autodidatta. Studiavo su vecchi testi di magia comprati alle bancarelle dell’usato nel sestiere di Cannaregio. Mi rifilavano volumi di occultismo, stregoneria, teosofia, esoterismo, leggevo tutto». E intanto scendiamo per una scala a chiocciola fino al suo «antro magico» in cui pochissimi sono ammessi. Sugli scaffali oltre tremila libri e preziosi incunaboli di magia, antichi tarocchi, un raro automa del 1830 che fa un gioco di prestigio, un teschio parlante.
A casa non erano proprio entusiasti.
«Chiuso a chiave nella mia stanzetta rifacevo esperimenti appresi sui libri antichi, recitando le formule magiche. Il mio amico, figlio del farmacista, mi procurava i componenti chimici per l’autocombustione. Una volta mi sono bruciato le sopracciglia, un’altra ho dato fuoco alla tovaglia. Tramutavo l’acqua in vino per i miei sei fratelli. “Sto fìo ze mato”, sospirava mamma. Per disperazione papà diede fuoco alla valigia in cui tenevo tutti i miei giochi. E mi portò dallo psichiatra Cappelletti a San Servolo, “l’isola dei matti”. Feci un trucchetto pure a lui. Tagliai in due una cordicella, me la misi in bocca e la tirai fuori intera. Il professore restò a bocca aperta. “Come hai fatto caro?”. “Sono un mago”. “Mi sa che hai ragione”».
Quando diventò un lavoro?
«A 18 anni vinsi Primo applauso, un programma della Rai presentato da Enzo Tortora e Silvana Pampanini. In gara con me c’erano Adriano Celentano e Peppino Di Capri, in giuria Carlo Dapporto e Vittorio De Sica. Presi tutti dieci sulle palette. Allora mi presentavo come Saghibù, dalle iniziali di Savoldello, Ghigi, grande ipnotizzatore, e Bustelli, famoso mago. La Pampanini mi consigliò di cambiarlo. “Troppo esoterico. Chiamati come me, ma senza la a: Silvan”. E così mi hanno conosciuto in tutto il mondo, a parte in Germania dove divento Zilvan».
Quanti numeri ha in repertorio?
«Centocinquanta grandi illusioni, e migliaia di giochi da salotto». Indica tre pile di libri sul tavolo. «Ne prenda uno a caso. Apra una pagina, scelga una parola». Eseguo. «Ora mi guardi negli occhi, io le leggerò nel pensiero». Mi fissa a lungo, poi scandisce la parola esatta, lettera dopo lettera. «È un esperimento unico al mondo, restò sbalordito pure Gustavo Rol».
Trucco preferito?
«Quello in cui tengo fino a 140 carte in una sola mano e le apro a ventaglio, eseguendo varie figure, sulle note del concerto n.21 di Mozart. Dura cinque minuti, piace moltissimo. Si pensa che il prestigiatore debba avere dita lunghe, non è così. Dipende dalla loro conformazione, dall’arco palmare e dall’estensione dei tendini».
Quanto e come si allena?
«Due ore ogni sera, davanti alla tv. Da ragazzo anche cinque, perché manipolavo le palle da biliardo o 16 sigarette accese. Prendo un foglio di carta, lo appallottolo, lo rilascio, ricomincio. E attacco dei pesetti alle dita – quelli di ottone della vecchia bilancia di mia madre – poi le alzo e le abbasso, a ripetizione».
Unguenti miracolosi, impacchi, massaggi?
«Nessuno. Però porto sempre i guanti».
Cose che non ha mai potuto fare?
«Sciare, andare a cavallo, affettare le verdure, ma tanto non so cucinare manco due uova. E non posso giocare a carte al casinò, sono schedato dall’Interpol. Solo dadi e roulette. Ho giocato un anno a Las Vegas, osservando la spinta che il croupier dava alla ruota, riuscivo a prevedere dove si sarebbe fermata la pallina. Vincevo.»
Ha assicurato le sue mani?
«Certo. Un tempo per 500 milioni di lire».
Mamma era convinta che fossi matto: mi portarono dallo psichiatra. Feci un trucco e stupii anche a lui
Mai messo un paio di jeans in vita sua.
«Vero. Possiedo 36 smoking. Prima portavo il frac. Il primo mi fu regalato dal re Umberto II di Savoia. Mi esibivo al casinò dell’Estoril, in Portogallo. Una sera nel pubblico c’era anche lui, si divertì molto. L’indomani mi mandò il segretario per invitarmi a Villa Italia, a Cascais. Portavo un modesto vestito da sera di un sarto di Venezia. Rifiutai il compenso e mi esibii in uno spettacolo di 45 minuti. Alla fine Umberto II venne a ringraziarmi. E il giorno dopo mi rimandò lo stesso segretario con un pacco per me: dentro c’era un magnifico frac, cucito dal suo sarto personale».
Lo smoking ha tasche nascoste, maniche col doppio fondo?
«Nooo».
Quando è in scena non ha paura che qualcosa non funzioni, che il trucco non riesca?
«Non ho paura, ma timore, sempre. Succede che si inceppi un attrezzo, che accada l’imprevisto, ma il pubblico non sa mai cosa andrò a fare, perché non lo svelo in anticipo. Trovo una soluzione sul momento e nessuno se ne accorge».
Qualche volta che è andata proprio storta?
«Eseguivo il numero della donna tagliata in tre pezzi. La ragazza si mosse, la graffiai con la lama e lei quasi svenne. Mi fermai subito».
Meno male.
«O quando ero chiuso nel baule, ma l’assistente perse la chiave che avrebbe dovuto tenere in tasca. Dovettero chiamare un fabbro a liberarmi, stavo soffocando, me la sono vista brutta».
Chi le costruisce le attrezzature?
«Un falegname fidato e un fabbro di Borgo Pio, Antonio. Ognuno fa un pezzo singolo, quindi non hanno mai scoperto i miei trucchi».
Li ha mai svelati ad anima viva?
«Solo se costretto. Al teatro Sistina, per uno show con Ornella Vanoni, facevo apparire sei colombe bianche che tenevo qui in giardino. Arrivò la protezione animali, convinta che le schiacciassi, dovetti spiegare come facevo. O quando, nel 1982, mi esibii a Versailles per i sette Grandi della Terra: c’erano Ronald Reagan – a cui indovinai quanti soldi aveva in tasca – Margaret Thatcher, Helmut Schmidt, François Mitterrand, Giovanni Spadolini. La sicurezza fu inflessibile, smontarono tutti i miei marchingegni, pezzo a pezzo, svitarono anche le gambe dei tavolini».
Che numeri aveva proposto?
«Il baule della metamorfosi. Ci chiudevo dentro una ragazza, infilata in un sacco postale, serravo il lucchetto e ci giravo intorno delle catene. Poi salivo sul coperchio, si alzava un drappo e quando ricadeva la ragazza era al mio posto e io al suo, nel forziere con una sigaretta in bocca».
Altre diavolerie?
«La testa galleggiante, che si separa dal corpo e si posa su un armadio. A Sanremo feci sparire 25 persone in diretta tv. Anna Falchi l’ho fatta levitare. Carmen Russo e Gabriella Carlucci le ho tagliate in due con la sega circolare. Raffaella Carrà si sdraiava sulle punte di tre scimitarre. “Mi raccomando eh”, mi diceva ridendo, ma non aveva paura, la adoravo».
Si è esibito per tre pontefici.
«Papa Roncalli, papa Luciani e papa Bergoglio. Roncalli era stato patriarca di Venezia, amico di papà, lo conobbi da bambino. Mi raccontò che San Giuseppe era un mago e che, durante l’Esodo, faceva l’astrologo, narra la Bibbia».
E papa Francesco?
«Ho fatto uno show per tremila persone nei giardini del Vaticano, eseguendo l’esperimento di levitazione della mia assistente Sveva, mia nuora. Lui è stato squisito, ci siamo parlati in spagnolo. “Ma come fa?”, mi ha chiesto».
Conquistò sua moglie Irene, scomparsa due anni fa, con un gioco di prestigio.
«La conobbi a Londra, frequentava la Saint Martins, scuola esclusiva di arte e design, e vendeva oggetti per beneficenza. Portava al collo un vassoio con sopra un cappello a cilindro. “Sono un mago”, dissi. Lo presi, lo voltai e feci apparire una rosa. “Questa è per te”. Non ne voleva sapere, all’inizio. Suo padre ancora meno, convinto che gli italiani fossero tutti playboy. Ero già socio del Magic Circle, club serissimo, ne fa parte Carlo d’Inghilterra, appassionato prestigiatore, come Dwight Eisenhower e Orson Welles».
Pensa mai di riporre i trucchi nel baule?
«Mai. Il grande John Calvert andò in scena al Palladium di Londra fino a cent’anni».