il Giornale, 5 aprile 2023
Intervista ad Aldo Agroppi
Gian Paolo Ormezzano, cuore Toro e raffinato ritrattista di personaggi dello sport, lo dipinge con cinque pennellate: «Aldo è tutto da metabolizzare». «Aldo» è Aldo Agroppi, nato a Piombino il 14 aprile 1944: 78 anni trascorsi ad amare il «suo» calcio, che nulla ha a che fare con quello degli altri, principalmente se gli «altri» sono i sacerdoti della messa blasfema del football odierno («Alcune cose del calcio mi fanno schifo», la sentenza inappellabile del giudice Agroppi). Una tribù di indiani dalle frecce avvelenate che Aldo conosce bene perché l’ha combattuta in veste di cowboy, a volte addirittura di sceriffo con la stella sul petto e la pistola nella fondina. Poi va nel saloon e agli amici del poker racconta di «quel sacrosanto cazzotto tirato da Giagnoni a Causio»; dello «scudetto rubato al Toro nel ’72»; del «gol non concesso dall’arbitro Barbaresco in Samp-Inter»; di «Marcello Lippi che continua a sostenere che la palla non aveva superato la linea di porta»; di «Van Basten che era già stato preso dalla Fiorentina e che finì invece al Milan» e mille altre avventure. Da nord a sud in ogni piazza dove ha giocato o fatto il mister, Aldo viene ricordato da tutti e lui ricorda tutti, perfino le squadre di provincia come il Potenza («Eravamo in serie B. Si sfiorò la promozione in A, fu un anno miracoloso»). Poi amarcord sentimentali tra Genoa, Ternana, Perugia, Pescara, Pisa, Padova, Como, Ascoli, ma soprattutto Torino (coi granata ha vinto due Coppe Italia, nel ’68 e nel ’71 ndr). E allenatore della Fiorentina: il massimo per un toscanaccio foderato di passione e battute («Lewandowski? Preferisco Mettoski!») che ha indossato per 5 volte anche la maglia azzurra della nazionale. Aldo, il 25 aprile di 30 anni fa (Juve-Fiorentina: 3 a 0) fu la tua ultima partita da allenatore. «Sulla panchina dei Viola ero già stato nella stagione ’85-’86. Allora arrivammo quarti: stagione memorabile». Con Baggio giovanissimo e Antognoni che scalpitava per giocare dopo l’infortunio. «Voglio bene a entrambi». E Passarella? «Recentemente mi ha confessato: Ti ho odiato, ma ho imparato più da te che in tutta la mia vita». E i dissidi con Antognoni? «Gli consigliavo solo di recuperare dall’infortunio con calma, senza fretta. Lui era d’accordo, ma i tifosi non capivano». Ti contestarono duramente. «Le contestazioni non mi hanno mai fatto paura. Un allenatore deve avere carattere e assumersi le responsabilità». Altrimenti che ci sta a fare?». Ti hanno definito un personaggio «scomodo»? «Ho fatto le mie battaglie. Se scomodo significa non accondiscendere al potere e dire la verità, sono orgoglioso di essere stato scomodo». Prima di sederti in panchina sei stato una bandiera del Toro. «Quando segnavo nei derby, ed è capitato tre volte, impazzivo di gioia. Sono cresciuto all’ombra degli eroi di Superga e la spiritualità del Filadelfia fa parte di me. Ma da ragazzino il mio idolo era lo juventino Sivori». Cosa pensi dei 15 punti di penalizzazione alla Juve? «Non mi interessa. Il calcio dovrebbe essere un’altra cosa». Che cosa esattamente? «Felicità, il contrario della depressione: la bestia che da decenni mi divora l’anima e che mi fa morire lentamente. Ogni giorno ho un appuntamento fisso con le pillole». La fede in Dio ti conforta? «Prego nella mia stanza. Non entro in chiesa: non tutti i preti sono degni ministri del Signore; non vado ai funerali: in troppi partecipano solo per fare passerella e, quando arriva il cestino per le offerte, si girano dall’altra parte». Chi sogni di incontrare nell’aldilà? «Mio fratello, i miei genitori e un amico vero come Emiliano Mondonico: il «Mondo» aveva il tumore, io ero vittima della depressione, ci facevamo coraggio a vicenda. Ponendoci la stessa domanda: Ma Dio perdona o punisce?». Che risposta vi davate? «Nessuna, è un quesito che va oltre la dimensione umana». La tua vita si è brevemente incrociata con l’esistenza di Gigi Meroni. «Torino-Samp, 15 ottobre 1967, vincemmo 4 a 2: io esordivo con un gol, toccando il cielo con un dito. Gigi la sera stessa moriva investito da un’auto, toccando il cielo per sempre. E in quel cielo ci ritroveremo presto. Insieme».