Il Messaggero, 4 aprile 2023
L’alcol non serve per scrivere meglio
Lei pensa di essere uno scrittore migliore da quando ha smesso di bere? «Hombre, sí». La secca risposta di Manuel Vilas a Jesús Ruis Mantilla sul País smonta un luogo comune della letteratura: l’alcol come scorciatoia o precondizione della creatività per molti scrittori, trampolino mentale per tuffarsi nella pagina bianca col sangue infiammato da birra, vino, spiriti... Il processo poietico sarebbe quello descritto da Hrabal che sorseggia una bella frase come fosse «un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcol, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola nelle vene fino alle radicine dei capillari».
LA LISTA
La sterminata lista di scrittori devoti al dio alcol non conosce limiti geografici, temporali, culturali, di genere: da Eschilo a Joyce, da Dorothy Parker a Pascoli, da Edgar Allan Poe a Hemingway, dai Fitzgerald a Baudelaire e Kerouac, da Bukowski a Mayakovskij, da Jack London a Esenin, da Faulkner a Anaïs Nin, Rimbaud e Verlaine, Raymond Chandler e Patricia Highsmith. È più raro imbattersi in un astemio che in un beone, tra i Nobel non solo americani. Poi arriva questa intervista al País di Vilas, famoso per il suo Ordesa ("In tutto c’è stata Bellezza"), che dice: «Ho smesso di bere nel giugno 2014, Ordesa l’avevo iniziato a maggio. L’ho scritto per un mese da ubriaco e il resto, tutto il romanzo, da completamente sobrio». L’amico Fernando Marías, «riposi in pace», gli aveva profetizzato che smettere di bere avrebbe portato fortuna. «Quello che vuoi, che cerchi, andrà meglio. Perché il falso cicaleccio dell’alcol, quella specie di illusione euforica che pensi di trasmettere è una bugia. Falsa Quindi sì, nel mio caso io scrivo meglio da quando ho smesso». Quella euforia era solo ebbrezza, un abito in serie. «Quando l’ho dismesso, ho capito che l’amore per la vita era dentro di me. La mia euforia si basa sulla passione per la vita, da sobrio la vedi con maggiore chiarezza. L’alcol non ti dà quella chiaroveggenza». Smettere è conveniente. «Vivi di più, sei più saggio».
LIQUORI
Ecco sfatato un mito. Nelle Vite scritte di Javier Marías, le biografie di poeti e romanzieri sono imbevute di liquore. Robert Louis Stevenson per lettera si lamenta con Henry James che di fronte a una vita senza vino e tabacco non rimarrebbe altro che «ululare, sferrare calci, e fuggire via». Malcolm Lowry (Sotto il vulcano) in Messico sparisce e viene ritrovato da Margerie Bonner, sua moglie, in mutande in una casa di tolleranza dopo aver venduto tutti gli abiti per comprarsi una bottiglia di gin. London, in Ricordi di un bevitore, racconta la metamorfosi di un «istintivo astemio» in alcolizzato, forse per troppa felicità. O troppa forza. Però ammette che «ogni folle e splendido istante che sembra centuplicare la vita l’accorcia, invece, in uguale misura e, ahimé, qualche volta a un prezzo troppo alto». Dylan Thomas continua a bere nonostante gli avvisi del medico e compiuti i 39 anni, mentre scola birre una dopo l’altra in un pub del Greenwich Village ha un malore, entra in coma e muore quattro giorni dopo.
DOPPIO MARTINI
Truman Capote, per la stesura di A sangue freddo, si versa un doppio Martini prima di pranzo, un altro a pranzo e un cicchetto subito dopo. Arrestato per guida in stato d’ebbrezza, finisce in clinica. Kerouac è stroncato a 47 anni dalla cirrosi epatica. Fa storia a sé William Faulkner, che non beveva mai quando scriveva ma usava l’alcol come «valvola di sfogo» dalla routine. La vita sgangherata dei Fitzgerald è ben nota. Joyce alzava le mani nei pub della sua Dublino, mentre Hemingway incrementò la sua dose quotidiana di alcol in proporzione alla depressione che lo portò infine al suicidio. Dorothy Parker sosteneva di preferire «una bottiglia di fronte a me, a una lobotomia frontale». Brendan Beham, drammaturgo e imbianchino irlandese militante dell’Ira, amava definirsi «un bevitore con un problema di scrittura». Morì di coma epatico. Tennessee Williams, in La gatta sul tetto che scotta, faceva dire a un suo personaggio «faccio un viaggetto a Echo Spring» per intendere che andava ad attingere alla scorta di Bourbon nell’armadietto dei liquori. Per Blake Morrison, poeta inglese professore di scrittura creativa al Goldsmith College, gli scrittori bevono per gli stessi motivi di tutti, «per noia, solitudine, mancanza di autostima, sollievo dallo stress o scorciatoia verso l’euforia; per seppellire il passato, dimenticare il presente o scappare nel futuro». Ma dopo la sbornia resta quel sentimento che la Highsmith tratteggia in Tom Ripley, «la paura di cose senza nome e senza forma che infestavano il suo cervello come le furie». Senza contare la violenza dell’alcolizzato descritta da Maupassant in L’ubriaco, o da Bukowski in Compagno di sbronze.
L’ESPERTO
A dare ragione a Vilas è il neurologo Rosario Sorrentino, per il quale «nel nostro cervello, creatività e fantasia vanno oltre gli effetti di droghe e alcol. Il paradigma per cui queste sostanze possono rivelarci l’inconscio va ridimensionato, perché il nostro inconscio ne sa più di noi e il cervello, per la sua genetica, la sua biologia e l’interazione con l’ambiente, è un organo straordinario che può farci partorire idee originali e bellissime che stupiscono anzitutto noi stessi». Si può essere scrittori brillanti, senza essere brilli.