La Stampa, 4 aprile 2023
Storia del Borsalino
«È impossibile, solo se pensi che lo sia», diceva il cappellaio matto ad Alice. E Giuseppe e Lazzaro Borsalino non hanno mai avuto dubbi quando il 4 aprile 1857 fondarono ad Alessandria l’azienda che ha messo il cappello in testa al mondo che conta. Una leggenda che inizia in Piemonte ma che fa il giro del pianeta passando per Hollywood, con la consacrazione del classico feltro indossato da Humphrey Bogart nella scena finale di Casablanca. Ma anche da Alain Delon e Jean Paul Belmondo nel film che prende il nome proprio dal Borsalino. Oggi ad Alessandria la riapertura del museo che celebra i 166 anni del brand.Fu in Francia, che il fondatore dell’azienda Giuseppe Borsalino, un ragazzino di sedici anni, decise nel 1850 di trasferirsi per imparare il mestiere. E quando tornò, sei anni dopo, in un cortile di via Schiavina, ad Alessandria, gettò le fondamenta della ditta di famiglia, costruita sull’ambizione, sui sogni, sul talento artigiano ma anche sulla visione industriale che gli fa comprare macchinari modernissimi a Manchester. Una piccola bottega si trasforma all’inizio del Novecento nella più grande fabbrica della città, il primo esempio di potenza internazionale del made in Italy. E pensare che a Giuseppe non piaceva portare il cappello, perché, diceva che «gli impediva di pensare».Trasferitasi nel 1888 nella sede storica di corso Cento Cannoni, l’azienda sfornava cinquecentocinquanta cappelli al giorno che diventarono cinquemilacinquecento nel 1909 e due milioni nel 1914, molti dei quali destinati all’export, soprattutto al mercato statunitense. La crisi del ’29 appanna i bilanci ma non il mito di un brand che si è trasformato presto in un nome comune grazie alla sua popolarità, come la Coca Cola. Negli anni Trenta l’azienda faceva concorrenza alla Stetson del Texas producendo un cappello da cowboy marchio Borsalino. Ma anche alle aziende inglesi che producevano bombette.L’azienda in Italia diventa fornitrice ufficiale di casa Savoia. Alessandria ormai è la capitale mondiale del cappello e Teresio Borsalino vuole ripagare tanto successo con opere filantropiche. Costruisce l’acquedotto, il sanatorio, l’ospedale, la casa di riposo, la rete fognaria. Per gli operai crea una assicurazione medica, una cassa pensioni e anche una colonia estiva per i figli delle “borsaline”, le mitiche operaie che con le loro mani creavano cappelli destinati ai grandi del mondo, ma anche alla borghesia che ha ormai fatto di quell’accessorio un vezzo di riconoscimento.Non solo il classico feltro alla Bogart ma anche il cilindro, il panama, la bombetta, la bustina, la feluca, il colbacco.Troppo lungo l’elenco dei clienti che comprende capi di stato, principi, star del cinema, registi, artisti, compositori come Giuseppe Verdi, gangster come Al Capone. Ma anche cardinali con in testa il rosso galero, con nappe e trenta fiocchi. Molti i pezzi storici conservati nel museo: la bombetta dell’imperatore del Giappone Hirohito a quella di Benito Mussolini, uno dei cilindri che lo scià di Persia ordinò per le celebrazioni dei duemilacinquecento anni dell’impero persiano a Persepoli. Il cappello di Charlie Chaplin, ma anche di Ezra Pound, il copricapo del Pandit Nehru, il charro in oro zecchino fatto fare per Pancho Villa.Cappelli che sono stati testimoni di grandi eventi della storia, in testa a Chamberlain, Truman, Churchill, Gorbaciov. Il filmato che testimonia la fucilazione di Galeazzo Ciano mostra il feltro che scivola via insieme alla vita del condannato.A Hollywood Gary Cooper sfoderava il suo fascino sotto a un Panama, Fred Astaire faceva volteggiare insieme alle sue gambe proprio una paglietta made in Alessandria. E insieme a loro una folla di divi, da Orson Welles a Warren Beatty. Ma anche Robert Redford, Robert De Niro (ne indossa uno ne “Gli Intoccabili"), e attrici dalla bellezza conturbante come Marlene Dietrich, Ingrid Bergman, Greta Garbo.A Cinecittà non si fanno guardare dietro e mettono il Borsalino, tra gli altri Federico Fellini, Alberto Sordi, Marcello Mastroianni.Un mito a se il modello “Panama”, in fibre e germogli di Carludovica palmata, così flessibile da potersi arrotolare e chiudere nella custodia di un sigaro. Lo hanno indossato Napoleone III e Theodore Roosevelt, Edoardo VIII d’Inghilterra e Gustavo di Svezia, Gabriele D’Annunzio e Ernest Hemingway. E Giovanni XXIII ne ricevette uno in dono.Con la fine della Seconda guerra mondiale il cappello non è più un prodotto di massa, ma un vezzo per esteti, un segno di distinzione. Le vendite non sono più quelle di una volta e la crisi si acuisce con la messa in discussione del modello borghese, nel ’68, e poi dalla rivoluzione estetica degli anni ’80. Nel 1987 il cappellificio si sposta dalla sede storica in centro ad Alessandria a quella attuale di Spinetta Marengo e il presidente Vittorio Vaccarino, ultimo discendente della famiglia Borsalino, vende a un imprenditore milanese. Pochi anni dopo l’azienda finì nel turbine di Tangentopoli (i proprietari erano diventati il cassiere del Psi milanese Silvano Larini e il presidente Eni Gabriele Cagliari). Poi un altro passaggio, in mani svizzere, e la dolorosa pagina del fallimento nel 2017. Ed Humphrey Bogart quel giorno avrebbe ripetuto quel che disse nel 1949, quando fallì un cappellificio dello Yorkshire da cui si serviva: «L’unica cosa che non dovrebbe mancare nel guardaroba di ogni uomo è un cappello… Il cappello è certamente un segno di riconoscimento, ma è soprattutto un’ancora di salvataggio, salva l’uomo dall’imbarbarimento dei costumi, dalla perdita progressiva d’eleganza. Per questo quando fallisce un cappellificio è una ferita inferta a tutto il genere maschile». Ma dopo gli anni bui la Borsalino sta tentando il rilancio rivolgendosi ai millennial, perché un mito non muore mai