la Repubblica, 4 aprile 2023
Intervista a Michele Mariotti
Donne che soccombono ad amori dolenti o malati. Uomini per cui amare significa possedere.
L’Opera di Roma porta sul palcoscenico un tema bruciante di cronaca accostando due melodrammi di un secolo fa (entrambi rappresentati nel 1918), diversissimi eppure accomunati dal medesimo soggetto: Il tabarro di Giacomo Puccini eIl castello del principe Barbablù dell’ungherese Béla Bartók. Partiture sull’incomunicabilità di coppia che sfocia nella violenza del marito sulla moglie. Storie dove però, a differenza delle narrazioni offerte dai media, carnefici e vittime non sempre sono facili da distinguere e la responsabilità morale di chi compie il delitto va saputa soppesare con equità. «In queste opere la donna è schiacciata dall’uomo, da una brutalità inaccettabile oggi più che mai.
Tuttavia, come solo accade nella grande arte, qui i compositori non intendono giudicare con il codice penale alla mano, ma vogliono piuttosto investigare le ragioni profonde, talvolta ineluttabili, che spingono perfino alle azioni più riprovevoli», spiega Michele Mariotti, direttore musicale dell’Opera, sul podio del ditticoTabarro-Barbablù per cinque recite, dal 6 al 18 aprile: regia Johannes Erath, protagonisti Luca Salsi, Maria Agresta, Gregory Kunde (in Puccini), Szilvia Vörös e Mikhail Petrenko (in Bartók).
Maestro Mariotti, in “Tabarro” la disperazione sembra non lasciare scampo.
«Perché dovrebbe? Riflette la vita così com’è. Sofferenza. Dolore.
Nessuna idealizzazione».
Tutti personaggi infelici?
«Tutti. E frustrati. Ciascuno soffre una qualche mancanza e si scopre incapace di affrontare il presente.
Michele, padrone del barcone ancorato sulla Senna dove si svolge la vicenda, non ha più l’amore della compagna Giorgetta. Luigi, che di Michele è un sottoposto, vuole fuggire da se stesso e dalla relazione che lo lega a Giorgetta.
Lei, il soprano, desidererebbe ben altra vita. Lo scudo per contrastare tali difficoltà di coppia sarebbe l’ampio tabarro di Michele.
Perlomeno lo era quando Michele e Giorgetta costituivano una famiglia insieme al loro figlioletto: protetti da quel mantello si abbracciavano felici».
All’origine di questa incomunicabilità fra moglie e marito c’è una perdita.
«Il bambino è morto. Difficile che una coppia, dopo un lutto del genere, possa resistere. Loro, infatti, sanno di non avere più futuro. Quando tentano di parlare, non riescono. Del resto, cosa potrebbero mai dirsi? Giorgetta, che un tempo ha amato Michele, ora lo detesta. Rivede in lui ciò che ha perso. Per lei essere diventataamante di Luigi può significare salvezza».
Per questo Michele ammazza il rivale e Giorgetta?
«Puccini non chiarisce se lei venga uccisa. Di certo Michele la stringe forte a sé, dentro al tabarro, serrandola accanto al cadaveredell’amante lì occultato.
Comunque, con la prepotenza verso Giorgetta, Michele manifesta debolezza: volge la sua umanità in bestialità. Ma pure lui, a conti fatti, è vittima. Come chiunque altro in questa storia».
Un uomo che odia davvero le
donne è invece il “Barbablù” di Bartók.
«Anche lui ha un mantello, il mezzo per assoggettare la sposa Judit ai suoi desideri più oscuri, privandola di volontà e libertà. Ciononostante nemmeno il poligamo Barbablù può essere inteso come archetipodella prepotenza maschile sulle donne».
Quindi Barbablù non sarebbe un malvagio?
«Il personaggio di Bartók – che tiene segregate nel suo castello diverse mogli – non raffigura il male assoluto. Quasi quasi teme di mostrare alla nuova venuta i propri segreti. Sembra più lei desiderosa d’esserne partecipe, dato che del marito vuole possedere, assieme al passato, testa e cuore.
Bartók pare volerci dire che i Barbablù non avrebbero spazio d’azione se le donne ne sapessero riconoscere l’amore malato e non li assecondassero: loro, quando non mosse da un sentimento di passione autentico, magari attratte dalla ricchezza, dal potere, dalla posizione sociale di quegli uomini destinati a divenire aguzzini».
Dunque Puccini e Bartók assolverebbero i carnefici ecaricherebbero sulle donne la responsabilità di essere vittime?
«L’arte presenta la realtà sfaccettata delle cose. Puccini e Bartók scandagliano e denudano la psicologia umana, consapevoli di quanto sia complessa, mettendoci di fronte a situazioni esistenziali.
Poi noi spettatori possiamo assolvere o condannare, ciascuno secondo la propria sensibilità. Tenendo comunque presente quanto Barbablù che mostra alla moglie la sua camera della tortura raffiguri, metaforicamente, tutti noi che abbiamo segreti da tener celati, di cui ci vergogniamo, per i quali ci sentiamo in colpa».