la Repubblica, 4 aprile 2023
Intervista a Roddy Doyle
Good morning, Roddy Doyle. Tra poco compie 65 anni. Perché ora questa intensa raccolta di racconti “La vita senza i figli” (Guanda),da oggi in libreria? Finalmente sono andati via di casa?
«Sì. Un passaggio della vita arduo, un nuovo stato mentale, che dà senso a questa raccolta scritta nei lockdown Covid. Ma niente titoli tipo “racconti dal Coronavirus”, ma più alla Hemingway, come “Uomini senza donne”. Ricorda?».
Certo. E com’è la sua vita senza figli?
«Diversa. I giorni della settimana hanno meno importanza. Non conta più se è lunedì o martedì, perché i tuoi figli non vanno più a scuola. Neanche so quando è Pasqua quest’anno. Rory, Jack e Kate sono cresciuti, diventati indipendenti e io mi sento un po’ disoccupato. Ma ora ci ho fatto il callo. Non provo più quel bizzarro senso di tristezza, ma neanche un senso di liberazione. Forse solo un inedito brivido di opportunità».
Che tipo di opportunità?
«Di certo non i cliché di quelli che si mettono a girare il mondo e scalano il Kilimangiaro, per carità. Ma di dedicare un po’ di tempo in più a se stessi. E magari rilassarsi».
Anche per questo nella “Vita senza i figli” c’è un po’ più di malinconia dei suoi esilaranti standard?
«Beh, è inevitabile quando si invecchia. I tuoi genitori muoiono, fratelli e zii pure,gli amici iniziano a farlo. Sei circondato di ricordi e oggetti di chi non c’è più. Si, è tutto piuttosto malinconico. E poi anche il Covid negli anni scorsi: terrore e senso di urgenza».
Come maneggia la malinconia con il suo proverbiale humour?
«Una delle cose meravigliose di uno scrittore è che hai sempre un sacco da scrivere, a qualsiasi età. Alcune spine vengono staccate, ma se ne collegano altre: una diversa carica di energia. Sì, ora scrivo più di persone che invecchiano come me, e guardo più al passato rispetto al futuro: ricordi, melanconia, rimpianti.
Ma allo stesso tempo, l’energia continua a crescere. Se avessi fatto solo l’insegnante, sarei già pensionato. Ho 64 anni, perché no?».
Non lo faccia.
«Oh, certo che no! Non sono uno di quelli che conta le ore di lavoro al giorno. Ma ora uso il tempo differentemente. Le storie cambiano di conseguenza».
È la sua proustiana “ricerca del tempo perduto”?
«Mai letto!».
E da scrittore non si vergogna?
«Macché! Ma è da decenni nella mia lista di libri. Magari morirò a metà lettura, sul letto, con il libro sulla testa».
“La vita senza i figli” sono racconti scritti nell’era Covid, ancora vivida nel libro. Perché dovremmo leggerlo ora che siamo fuori dall’incubo?
«Avevo iniziato a scrivere un romanzo. Poi è arrivato il Covid, i lockdown, e quel libro mi sembrava ormai senza senso. Allora ho preso il manoscritto e, per la prima voltanella mia vita, l’ho buttato nella spazzatura».
Accidenti. È stato doloroso?
«Solo per un secondo. Ma niente esitazioni: per me quell’opera era un alieno. Dunque mi sono dedicato ai racconti, il genere migliore per catturare l’era Coronavirus, attraverso singoli momenti. Ma non ha senso dividere il mondo pre e post Covid, tutto è cambiato.
Non c’è mai un tempo ideale, per niente. E poi, oggi leggiamo ancora libri ambientati nella Seconda guerra mondiale, no?».
Certo. Ma cosa ha imparato lei dalla pandemia?
«Che molte cose prima considerate impossibili erano invece possibili. Come una migliore sanità pubblica. Oppure gli studenti valutati non solo con esami di 5 ore chiusi a scuola. Abbiamo scoperto una nuova flessibilità, prima inconcepibile. E poi ho capito che in fin dei conti sono un animale sociale. Lavoro solo, non sono estroverso. Ma quando il Paese ha riaperto dopo il Covid, ho capito che mi piace la compagnia. Anche solo osservare e ascoltare gli sconosciuti».
Beh, molte sue opere sono basate su dialoghi, come farebbe altrimenti?
«Ma anche i monologhi sono dialoghi, sebbene con te stesso».
Le sue opere sono eredi di “Dubliners” di Joyce?
«Non lo so. Ma adoro leggere qualsiasi cosa su Dublino, anche ogni targa delle strade. La Irishness è dentro di me, ma la cosa più importante è essere un passeggiatore cittadino, uno scrittoreurbano. Osservare la città, osservare le persone».
Un flâneur.
«La prego, non mi chiami così! I miei amici mi prenderebbero in giro a vita».
Eccola, la sua anima “working class”…
«La classe operaia è stata molto più visionaria e avanzata delle élite e classe media irlandesi: figli fuori dal matrimonio, niente messa, persino sui diritti gay erano ben più tolleranti. Non avranno peso nella legislazione, ma hanno cambiato il Paese prima e più profondamente di altri. Alla radio sento che “l’accento popolare dublinese è scomparso”. Assolute stupidaggini. Può dirlo solo chi non conosce Dublino».
Nel suo capolavoro, i “Commitments”, i protagonisti lanciano un gruppo di musica soul perché “gli irlandesi sono i negri d’Europa, e i dublinesi sono i negri d’Irlanda”. Con il politicamente corretto di oggi, leggeremmo ancora una cosa del genere?
«Non sono preoccupato. Non voglio essere uno di quei vecchi che si lamentano della modernità. Capisco le nuove sensibilità, sono sempre aperto al confronto con l’editore. ICommitments sono ambientati nel 1986: un altro contesto».
Ma oggi quella frase la riscriverebbe?
«No, perché non avrebbe senso. Ma non è autocensura, mi sento assolutamente libero, anche di offendere, se nel contesto giusto. In carriera ho ricevuto critiche per il linguaggio, ma nessuno mi ha mai detto: questa parola non può restare lì. È questa la differenza».