la Repubblica, 4 aprile 2023
Biografia di Barabba
Questo ritratto di Barabba apre la galleria di personaggi della Via Crucis che ci accompagnerà fino alla domenica di Pasqua. Ogni giorno della Settimana Santa, Stefano Massini riscriverà le Stazioni della Passione di Cristo partendo da sei figure emblematiche del Calvario: Barabba, Ponzio Pilato, Giuda, Simone di Cirene, il centurione, e infine Gesù stesso. Sei primi piani, sei zoom, sei frammenti dai Vangeli che si traducono in uno specchio della contemporaneità, per indagare echi, suggestioni e rimandi fra quella crocifissione di 2000 anni fa e i nostri giorni sconvolti da guerre, verità distorte e un diffuso senso di terrore.
di Stefano Massini
Chi sarebbe oggi Barabba? Probabilmente un influencer, con milioni di follower, osannato dai suoi perché violentissimo, esplicito, un campione nell’aizzare le folle. E siccome ogni re delle masse reclama un nemico, Barabba scaglierebbe i suoi tweet contro Gesù.
Eh già, perché non è vero che Barabba era un delinquente da strada, un criminale da bassifondi come spesso è stato descritto prendendo per buona solo la versione del Vangelo di Giovanni, mentre gli altri evangelisti ci consegnano il ritratto di un quasi terrorista, uno zelota arrestato per sommossa, secondo Matteo amatissimo, con orde di seguaci che gli avrebbero perdonato tutto, perfino l’eversione, perfino l’omicidio. Insomma, Barabba potremmo cominciare a pensarlo come una specie di profeta guerrigliero, un Messia col passamontagna, un black-bloc urlante slogan contro i Cesari invasori, uno sciacallo da barricata, forse perfino un Jack Angeli di Gerusalemme, al punto tale che il carcere stava diventando per lui un’enorme occasione di consenso.
Sul versante opposto c’era invece quel Gesù, dotato di un carisma senza precedenti (si pensi al Discorso della Montagna, che nella preistoria della comunicazione risuonò come l’“I have a dream” del reverendo King), solo che il suo mantra della non-violenza, dal “porgi l’altra guancia” in giù, lo designava a naturale competitor mediatico di uno come Barabba. Uno scontro frontale, il loro. Due leader, due punti di riferimento, agli antipodi, opposti per toni, modi e contenuti, e dunque costretti in duello fino a quel brutale televoto in cui Ponzio Pilato chiamò il tilt e si rimise al pubblico da casa, come in un’arena catodica, magari selezionando il codice 01 per Cristo sedicente “figlio di Dio” o lo 02 per quel Bar-abbâ che in aramaico significa “figlio del padre”. Più in competizione di così. E scelta fu, com’è noto.
Non solo scelta fra due condannati, ma scelta fra due linguaggi, due visioni del mondo, due possibilità di reazione all’oggettiva stretta dell’ingiustizia, sociale e politica, perché laddove Barabba incitava alla rivolta, Cristo spiegava che odio crea odio, offesa reclama vendetta, e la spirale avvolge vittima e carnefice rendendoli identici. Non esiste compromesso, devi decidere, devi scegliere, o Gesù o Barabba. Sta scritto che quel giorno fu un voto pilotato dai Sacerdoti, ecerto sarebbe edificante oltre che rassicurante credere che il popolo, senza condizionamenti, si sarebbe espresso altrimenti, cosicché avremmo un Barabba in croce e Cristo in trionfo. Ma onestamente non è mai così che va.
La narrazione dell’ascesa al Golgota è in fondo una lucidissima biopsia sul tessuto dell’umana violenza, un esame citologico da cui non è escluso alcun aspetto di quella che Freud avrebbe definitola pulsione distruttiva del nostro essere. E quindi, nella Passione, c’è spazio anche per quella distorsione della realtà che è corollario e presupposto di ogni sistema basato sull’aggressione. In quella folla che scandisce il nome di Barabba c’è racchiusa l’immagine potentissima della violenza che mentre ti promette t errore riesce a inebriare gli animi, a esaltare i corpi, per cui sì, ci sembra di vederla quella massa sterminata di gente che porta in trionfo il tagliagole di turno, facendone un paladino o un Angelo Vendicatore.
Neanche un secolo è passato da quando conoscemmo l’orrore delle esecuzioni sommarie nei ghetti, le mattanze dei pogrom, le camere a gas dei lager, eppure i rovi della violenza all’apparenza estirpati, sono riusciti sempre a rifiorire di nuovo, a resuscitare (anche il Male, certo, ha la sua Pasqua), ed ecco allora i cadaveri di Srebrenica, di Bagdad, di Damasco, o adesso di Bucha. A cosa si deve tutto questo, se non all’evidenza – oggettiva e spietata – che seppure a caro prezzo la folla alla fine sceglie comunque Barabba? La violenza seduce, eccome. Di più: il genere umano d’istinto la ama, e finisce per abbracciarla.
Cristo trafitto in croce è insomma uno scandalo ma al tempo stesso, senza ipocrisie, è l’esito indifferibile di una scelta pro-Barabba, quella scelta che si è ripetuta migliaia se non milioni di volte nella storia degli uomini, e che tuttora trova il suo sigillo nelle valanghe di like sui post che invocano i naufragi dei migranti o i missili sui civili, reclamando un’orgia di morte.
Nessuno può dire che fine abbia fatto Barabba dopo quel giorno, tacendo del tutto le fonti storiche. È lecito però credere che a furor di popolo egli continuò a predicare il sangue altrui come unica via di salvezza, attentato dopo attentato, strage dopo strage. E chissà se, ormai anziano, c’era anche lui fra i 960 zeloti che si suicidarono in massa nella fortezza di Masada, incalzati dai romani al volgere della prima guerra giudaica. Fu una carneficina. Ma i sopravvissuti avrebbero comunque votato Barabba