Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  aprile 04 Martedì calendario

La scuola autarchica di Giorgia Meloni

La scuola italiana, per Giorgia Meloni, è come la Comune di Parigi o la Moneda di Allende: nelle sue aule si è arroccato il potere sindacale e ogni insegnante è un Gramsci straccione. Ha dunque inventato il “liceo del made in Italy” e sarà la Nazione che, contro il cogito cartesiano, si riappropria del parmigiano, e alla fenomenologia oppone la mozzarella di Battipaglia (ma anche di Bojano) e all’idealismo hegeliano il caciocavallo di don Benedetto di cui va ghiotto, ça va sans dire,il ministro Sangiuliano. E, a proposito, va segnalato, quanto meno all’Accademica dei Lincei, che il principale consulente del ministro non è il troppo libero Sgarbi ma quel Francesco Giubilei che a Nazione Futura, blog neo marinettiano, aveva messo a punto ilrestyling (ops, pago la multa all’italianista Rampelli), del famoso “Trattato dei pantaloni a cacarella” di Bagnacavallo.
Oggi ci tocca dunque “il liceo del made in Italy”, che sarebbe la scuola autarchica, l’orticello di casa, non inventato da uno dei soliti svalvolati, Donzelli, Fazzolari, Rampelli, La Russa o Sangiuliano…, ma da Meloni medesima, ospite d’onore al Vinitaly, in carne ossa e bollicine (italiane). E, come si dice a Roma, «ma de che voi parlà» al Vinitaly se non inventarti “il liceo del made in Italy”, con l’applauso di tutti quei ministri che davvero a Verona erano più numerosi che in Consiglio dei ministri?
Cos’è il liceo del Made in Italy? Meglio lasciar perdere per non finire nello stupidario del derby tra l’istituto professionale che, secondo Giorgia, appartiene alla destra, vale a dire alla saggezza d’er popolo di Trilussa, e il liceo classico, che sarebbe di sinistra, l’élite dei radical-chic nei loro «famosi momenti di consapevolezza ultraterrena» diceva Umberto Eco. Del resto, tra le tante fascisterie degli svalvolati avevamo già vissuto la fatwa contro i diabolici telefonini, l’uso delle armi in classe e il dovere di punire lo scolaro. E meno male che non si sono (ancora) ricordati che vent’anni fa nacque in Francia, a Rouen, il «Movimento in difesa del calcio nel sedere» per solidarizzare con la pedata che un prof esasperato aveva rifilato a uno studente.
Comunque sia, giganteggia già, nell’iconografia di questo Vinitaly, la foto di gruppo, che è la memoria di ogni festa. E vedrete che diventerà epica, come quella dei Bersaglieri con i fucili puntati sulla Breccia di Porta Pia, questa foto dei “Giorgiaglieri” con i bicchieri puntati, tutti felici col prosecco, al punto che persino Antonio Tajani, per la prima volta, non ha l’aria del salsiccio ingrugnito e ha assunto anche lui quella bibens dei giovanotti de ‘sta Roma bella: «è mejo er vino de li Castelli che questa zozza società». Il nostro ministro degli Esteri era soddisfatto perché si era appena cointestato con il ministro-cognato la battaglia «fermiamo l’ondata neo-proibizionista contro il vino».
Ma dov’è quest’ondata? Si capisce solo che ce l’hanno con la sinistra che, secondo loro, ha maltrattato il vino come «ha distrutto gli istituti tecnici» hanno denunciato ieri Giorgia Meloni e la sua ministra Santanché che si sono consegnate insieme alla satira dell’estro e dell’allegria. Ed è un peccato che nessun professore di liceo abbia loro raccontato le vite di Marx, che senza vino non sarebbe riuscito a scrivere il Capitale, e di Engels, che conosceva i vini meglio di Angelo Gaja, e il cui ultimo acquisto, prima di morire, fu la fornitura di 156 bottiglie di Champagne, pagate e non ritirate.
Tutto il governo ci ha spiegato che il vino «fa bene, ma con moderazione», e via con il latinorum nazionale: cum grano salis, festìna lente per Svetonio e cum judicio per Manzoni, e, pissi pissi bau bau. Erano soprattutto il governatore del Veneto, Luca Zaia, e il cognato Francesco Lollobrigida a insistere, esponendo persino i quadri di Caravaggio e di Guido Reni e citando Mario Soldati. «Siamo contro gli ubriachi» ribadivano ad ogni sorso. E vorrei vedere: gli ubriachi, secondo loro, sono solo a sinistra. E quando, per errore di natura, sono italiani, di sicuro gli ubriachi non sono patrioti.
Abbiamo appreso al Vinitaly che tra i pensieri spettinati della destra nazionale non ci sono né i paradisi artificiali dei francesi, né le sbornie tristi dei nordici che s’attaccano alla bottiglia anche per strada e finiscono a dormire per terra, stesi sul proprio vomito. Lo straniero, infatti, succhia, aspira, tracanna, gargarizza, liba, lappa, sorbisce, ingolla, alza il gomito, s’inebria, ingurgita, scola, vuota, si ubriaca, pinta, pompa, si imbiba e rutta, mentre l’italiano, si sa, sorseggia, centellina, assorbe, si disseta, sorbisce, bevucchia, sbevicchia, assapora, assaggia, assume, gusta, degusta, schiocca e scioglie la lingua, spilla, distilla e scintilla. Solo Nietzsche, che è di destra nonostante Cacciari, aveva capito che l’Homo Bibens, il famoso Zaratustra, è il ponte verso il Superuomo, liquido e italiano.
Ma torniamo ai meriti di Giorgia Meloni, il presidente che i retroscenisti, con finta impertinenza, ci raccontano arrabbiata e sopraffatta da tutte queste fascio-fesserie (fascisterie) da circo. Ecco: non è vero. C’è sempre lei a dirigere la masnada, e va bene che va a lezione da Mattarella che sul Pnrr l’ha affidata a due insegnanti di sostegno d’eccellenza, Mario Draghi e Paolo Gentiloni, ma poi, quando se ne presenta l’occasione, anche Giorgia non resiste e si concede al revanscismo, alla voglia di rifare l’Italia, come gli sconfitti avevano sempre sognato. E perciò ogni volta che può si misura con la vendetta creativa, nazionalista, sovranista ma, purtroppo per tutti noi, anche ridicola.
Di sicuro, il liceo del Made in Italy di Meloni è più fantasioso della guerra alle parole che Rampelli ha battezzato “forestiere” e che Mussolini chiamava “ostrogote”, ma viene surclassato dalla messa fuorilegge della carne sintetica, che vieta un cibo di laboratorio che non è in commercio e che nessuno sa quando e quanto davvero influirà sull’alimentazione, visto che gli scienziati ci stanno ancora lavorando. Certo, fa sempre piacere a un reazionario fermare la scienza, ma la destra italiana non odia la bistecca senza spargimento di sangue perché potrebbe un giorno fare concorrenza ai mattatoi e dare gentilezza ai macellai pure in metafora, ma perché stravolge la tradizione del suo mondo immaginario, da quello di Ettore Petrolini, «ho comprato i salamini e me ne vanto», a quello del geniale Benito Jacovitti che gli uomini li faceva a forma di salame e li tagliava pure a fette.
Alla fine, dunque, quel che ci resta del Vinitaly, insieme all’epica foto d’epoca, è la conferma che sotto il tendone da circo di Ignazio La Russa c’è lei, nel doppio ruolo dell’impresario e del regista. Una volta al giorno fuoriescono dal sottosuolo, che non è quello di Dostoevskij sulla Prospettiva Nevski, ma è quello di Rampelli sul Colle Oppio, sfoghi e soffioni di gas, fascista forse, esilarante sicuro: fughe di gags.