la Repubblica, 4 aprile 2023
Nel laboratorio italiano che produce carne sintetica
ROMA – È bianca?! «Perché non c’è il sangue». Ma chi si mangia una fettina di vitello bianca? «Stiamo studiando come colorarla con sostanze vegetali, come la barbabietola». Quindi il gusto alla fine sarà diverso? «Può essere, ma il gusto lo dà soprattutto il grasso, che combiniamo con la fibra muscolare». Nel laboratorio del professor Cesare Gargioli si capisce che la bistecca “sintetica” italiana non è ancora pronta da grigliare. Per ora è un pallido straccetto di filamenti, che nessuno ha assaggiato. Il professore – uno che: «la chianina me la mangerò sempre» – prevede dai tre ai cinque anni di sviluppo perché si arrivi a spessore e gusto soddisfacenti. Ma ora la domanda è: in Italia la si potrà mai produrre?
Al dipartimento di Biologia dell’Università Tor Vergata, appena oltre il Grande raccordo di Roma, c’è uno dei pochi laboratori italiani dove si sperimenta il cibo del futuro, che il governo vuole preventivamente bandire dalle tavole. Il Paese a cui Meloni potrebbe dare un liceo del Made in Italy, sarà anche il primo al mondo “libero da carne sintetica”, ha annunciato il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Ma già su quel termine – sintetica – qui tra provette e microscopi hanno da ridire. «Di sintetico non c’è nulla, coltiviamo cellule naturali, senza alcuna alterazione genetica: tutti al mondo la chiamano carne culturale o agricoltura cellulare», spiega Gargioli, 50 anni, davanti all’armadietto dove a 37 gradi si moltiplicano cellule staminali di mucca, maiale e pecora. È lo stesso processo con cui si creano tessuti umani per la medicina ricostruttiva, per le bistecche cambia solo specie.
Il processo, dunque. Con una biopsia si estraggono le staminali dall’animale, basta un campione piccolo quanto un chicco di riso. Quindi si fanno moltiplicare in vitro. Infine le si plasma con una stampante 3D. No, non è il vostro tradizionale allevamento. E secondo il governo il bando difenderà tradizione e qualità italiane, per la gioia delle associazioni di allevatori e agricoltori. «L’obiettivo non è certo soppiantare le eccellenze prodotte negli allevamenti sostenibili – risponde Gargioli – semmai offrire un’alternativa a quelli intensivi, più etica e meno impattante dal punto di vista ambientale. Privare la gente di questa possibilità mi sembra, come dire, miope». Tutte le startup che si occupano di carne coltivata, molte americane, alcune pronte a impiattare, mettono l’etica in primo piano: meno sofferenza per gli animali, meno consumo di acqua, meno inquinamento. Si può e deve discutere su come cambierebbe il nostro rapporto con il cibo: dal maiale di famiglia, alla bistecca confezionata, a quella prodotta in laboratorio. Ma le autorità di quasi tutto il mondo riconoscono che la strada va esplorata. Qui a Tor Vergata sono arrivati fondi comunitari, della Regione Lazio e perfino del Pnrr. Con la mano destra l’Italia finanzia, con la sinistra vieta.
C’è un rischio per la salute pubblica, è l’altra tesi del governo: per Lollobrigida le carni sintetiche potrebbero essere «veleno». Peccato che al momento non ci siano evidenze in tal senso, cosa che il ministro della Salute Schillaci, che di Tor Vergata fino a qualche mese fa era rettore, dovrebbe sapere. In Europa l’approvazione di ogni un “nuovo cibo” è sottoposta alle verifiche dell’Autorità per la sicurezza alimentare. Per ora non c’è alcuna richiesta, e anche se domani una venisse approvata, difficilmente la trincea di sovranismo alimentare italiano terrebbe. Per fermare la libera circolazione di un prodotto nella Ue spetterebbe a Roma dimostrarne la pericolosità. «Un’inutile caccia alle streghe», dicono da Brunocell, startup trentina che prova a sviluppare carne coltivata. Bruno sta per l’eretico Giordano, bruciato in piazza: un presagio che pare avverarsi. Ma oltre che inutile, la mossa del governo rischia di essere dannosa. Il mondo avanza, da quel primo hamburger “del futuro” cucinato nel 2013 a Londra, al non modico costo di 300 mila dollari. A Singapore e in Israele già si possono assaggiare, a prezzi normali, nuggets di pollo coltivato, le Autorità Usa hanno dato un primo via libera. Presto qualche azienda busserà in Europa, e l’Italia, che ha ingoiato a fatica la farina di grilli, sembra autoescludersi da un’altra innovazione, un po’ come con l’intelligenza artificiale. «Si potrà consumare ma non produrre, invece di far crescere il nostro patrimonio di ricerca», sintetizzano dall’azienda trentina. Peter Kruger, che si occupa di investimenti “foodtech”, tecnologia applicata al cibo, aggiunge che la contrapposizione con gli allevatori tradizionali «non esiste: i costi della carne coltivata resteranno a lungo più alti, sarà una nicchia per persone ad alto potere di spesa. Nicchia che proprio i produttori italiani sarebbero i migliori a sfruttare».
Il governo sostiene che il suo intervento non blocca la ricerca, solo produzione e vendita. Ma c’è un codicillo, nel disegno di legge che arriverà in Parlamento, che prevede punizioni anche per chi le “favorisce”. Il messaggio che passa è di una tecnologia sgradita, non un bel biglietto da visita per ricercatori e aziende a caccia di fondi. Alessia Petrilli, 23 anni, studia Biologia a Tor Vergata e vorrebbe fare la tesi sulla carne coltivata. «Vedo tanti pregiudizi e poca informazione – dice – un limite per chi fa ricerca. Finirà che dovrò andare all’estero».