il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2023
Quelli che copiano senza citare: una risata li seppellirà
Oggi parlerò di me. Oh bella, dirà il lettore, ma se è tutta la vita che non fai che parlare di te. Vero. Ho scritto un’autobiografia, diciamo così, ufficiale (Una vita) due surrettizie (Ragazzo e Di(zion)ario Erotico) e anche nella mia opera di pensatore non ho fatto altro che parlar di me se è vero, come scrive Nietzsche (chi era costui?) che “ogni filosofia è un’autobiografia”. E allora di che ti lamenti? Del fatto che io non esisto per la congrega dei miei colleghi.
È uscito un bel libro di Gaia Tortora, la figlia di Enzo, che racconta il dolore della famiglia Tortora per il modo in cui fu trattato il padre non solo da pm incapaci, ma anche, e direi soprattutto, dai media: il meschino piacere delle Televisioni pubbliche e private di immortalare il presentatore in manette per fargli pagare in un sol colpo la sua popolarità, il suo successo. In occasione dell’uscita del libro di Gaia Tortora alcuni quotidiani hanno ricordato che ci furono dei giornalisti coraggiosi che presero le difese di Tortora: Biagi, Montanelli, Bocca, Feltri. Ora, il primo a difendere Tortora sono stato io una settimana dopo il suo arresto (“Io vado a sedermi accanto a Tortora”, Il Giorno, 25 giugno 1983, cioè una settimana dopo il suo arresto). Quando rievocano quella vicenda i giornali ricordano Montanelli, Bocca, Feltri, ma non me che pur scrivevo su uno dei più importanti quotidiani nazionali e mi ero battuto contro la legge sul “condono ai pentiti” perché diventava evidente che un mascalzone, purché mascalzone, poteva mandare in galera una persona perbene, come avvenne per Tortora e per tanti altri ignorati dalla stampa.
Un paio di settimane fa Paolo Mieli ha recensito sul Corriere, il 6 marzo, un recente libro di Luciano Canfora, Catilina. Una rivoluzione mancata. Mica che Mieli abbia ricordato, anche solo di sfriso, che su Catilina io ho scritto una biografia (Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta) che precede di un quarto di secolo, anche se con tesi diverse, il libro di Canfora? Io non esisto.
Qualche anno fa, allo Smeraldo, Grillo inaugurava la sua stagione di politico. C’erano molti importanti personaggi, tra cui Celentano che ebbe una standing ovation. Ma c’ero anche io che ebbi una standing maggiore di quella di Adriano. Il giorno dopo lessi sul Corriere una cronaca che ricordava tutti i personaggi presenti, me escluso. Mandai un biglietto risentito a De Bortoli, direttore del Corriere. Ferruccio, che è una persona perbene, a differenza del “bonzo”, mi rispose dolendosi per l’accaduto. Ma per l’intanto ero scomparso da quella cronaca. Io non esisto.
Nel 1989 nella trasmissione Alla ricerca dell’Arca di Mino Damato fu presentata con grandi strombazzamenti, in esclusiva mondiale, la prima intervista rilasciata dalla figlia dell’ayatollah Khomeini, Zakra Mustafavì. Quell’intervista l’avevo fatta io, a Teheran, in trasmissione si sentiva la mia voce che poneva le domande, ma io non venivo mai nominato, l’intervista era attribuita a un altro senza nome.
Alla trasmissione Va’ pensiero di Andrea Barbato, Giovanni Valentini, direttore dell’Espresso, parlando di alcolismo si vantò di aver fatto, già nel 1976, per l’Europeo un’inchiesta sull’argomento affidandola, disse, “a un giornalista di cui non ricordo il nome”. Quel giornalista innominato, ahimé, ero io.
Sfoglio la biografia di Anna Magnani che Patrizia Carrano ha scritto per Rizzoli. E trovo che ha utilizzato per intero, distribuendole in varie parti del libro, le interviste che, per l’Europeo, feci a vari amici dell’attrice nei giorni successivi alla sua morte. Una trentina di cartelle. Guardo nella lunga lista di ringraziamenti che Carrano prefà al libro: non ci sono. Guardo nelle copiose “fonti bibliografiche”: non ci sono. Guardo nello sconfinato “indice dei nomi”: il mio non c’è. Io non esisto. Quelle parole che Vittorio De Sica, Sergio Amidei, Colette Rosselli, Raffaele Jacchia, Franco Monicelli, Franco Zeffirelli, Suso Cecchi D’Amico dissero a me risultano dette a nessuno o a Patrizia Carrano. E mi viene da sorridere. Quando moriva qualche grosso personaggio dello spettacolo Tommaso Giglio era solito affidarmi il compito di ricostruirne la biografia attraverso la viva voce delle persone che lo avevano conosciuto. Non era una faccenda semplice. Si trattava di incontrare, nel giro di tre giorni, personaggi importanti sparsi per l’Italia e non usi a concedersi facilmente, oppure di rintracciare amici ormai lontani nel tempo, gente sconosciuta finita chissà dove. Mi ricordo che, proprio per la Magnani, una delle difficoltà più grosse fu far parlare Suso, una delle amiche più care di Anna, la sola che l’avesse assistita nella sua atroce agonia. Suso, sconvolta, non voleva parlare. Le telefonai per un incontro: rifiutò. La avvicinai durante i funerali, a Roma. Rifiutò ancora, garbatamente. Sapevo che la D’Amico, il giorno dopo i funerali, si sarebbe rifugiata nella sua casa di Castiglioncello, sul litorale toscano, per distendere i nervi scossi da quella tragedia. E proprio mentre, dopo aver completato le altre interviste, facevo in macchina la lunga strada che da Roma conduce a Castiglioncello, rimuginavo, tra me e me, come rendere efficacemente il bellissimo flash che De Sica mi aveva fornito del suo primo incontro con la Magnani, un incontro che non era stato con lei, fisicamente, ma con la sua straordinaria risata, sentita al di là di una parete. Era soprattutto la qualità di questa risata che mi premeva restituire al lettore e, mentre guidavo, cercavo gli aggettivi adatti perché De Sica mi aveva dato solo l’impressione plastica di quella risata, non le parole. Quando arrivai davanti al cancello della villa della D’Amico, dopo sei ore di macchina, nella mia mente avevo ricostruito così quell’episodio raccontatomi da De Sica: “Mi ricordo che quel pomeriggio ero chiuso in camera a non fare niente. Ero lì, steso sul letto a crepare di freddo e di fame, quando sentii venir dalla cucina, attraverso i muri, una risata. Era una risata forte, prepotente e dolorosa, una risata quasi feroce che mi ferì i timpani e il cuore”. Poi suonai alla villa dei D’Amico e Suso, colpita dalla mia ostinazione, questa volta non si negò. Ora quelle parole, che De Sica non pronunciò mai, le trovo nel libro di Patrizia Carrano come se, insieme a quelle di Suso e di tutti gli altri, fossero state dette a lei e da lei elaborate. Del mio lavoro non c’è più traccia. Io non esisto.
Un giorno mi telefonò Violante Visconti e mi disse: “Ma come? Non fa causa a Gaia Servadio?”. “E perché?” risposi. “Perché in una biografia di Luchino ha copiato, senza citarla, ciò che lei ha scritto sull’Europeo all’indomani della morte di Luchino”. “Ah” dissi io. “Non lo sapevo. Comunque non è mia abitudine inseguire i cialtroni. Non ho tempo. Lo perdo a lavorare”. “Lo faccia per me” disse Violante. “La prego”. “Perché?” “Perché il libro della Servadio, là dove non copia, è ignobile, una miserabile serqua di pettegolezzi”. Violante aveva una bella voce affannata, un nome inconsueto, la immaginai stupenda e, lo confesso, fui sedotto più che dal suo nome dal suo cognome, Visconti di Modrone, e le promisi che avrei mandato avanti la cosa. Il libro della Servadio fu sequestrato.
È da vent’anni che non sono più invitato da alcun network. Mi consola però il fatto che alcuni importanti personaggi mi abbiano citato: Guido Ceronetti su La Stampa, due volte, Bocca, una volta, Montanelli. L’osservazione più profonda l’ha fatta il vecchio Indro che nella prefazione al mio Conformista scrive: “Gliela faranno pagare calando su di lui una coltre di silenzio: da quando i roghi non usano più, è la sorte che attende i conformisti che non si conformano”. E così è stato.