Corriere della Sera, 3 aprile 2023
Calvino e Celati
Fu una lunga amicizia quella tra Italo Calvino e Gianni Celati, due scrittori che hanno segnato le loro rispettive generazioni: Calvino classe 1923, Celati 1937. Neanche tanto distanti anagraficamente, ma divisi dalle esperienze più forti. L’uno partigiano nella divisione Garibaldi ed entrato in letteratura dalla porta neorealista. L’altro troppo giovane per vivere la Resistenza e troppo grande per partecipare al ’68, troppo avulso e diffidente per aderire al Gruppo 63 (gli bastò annusarlo restandone un poco ai margini), sarà protagonista del ’77 bolognese, ma a suo modo: inventandosi al Dams dei frequentatissimi seminari sul personaggio di Alice.
Calvino e Celati si conobbero nel 1968 a Urbino in occasione di un convegno di semiotica. Erano, appunto, gli anni della semiotica e dello strutturalismo, Calvino aveva lasciato Torino e pur continuando a collaborare per l’Einaudi si era trasferito a Parigi dove frequentava il gruppo dell’Oulipo e Raymond Queneau, di cui nel 1967 aveva tradotto I fiori blu. È Nunzia Palmieri, nell’ultimo numero della rivista Autografo (Sul confine dei carteggi di carta. Lettere letterate 1931-1996), a ricostruire quello scorcio temporale, raccontando gli esordi di Celati, prima come traduttore (di Swift e di Céline) e saggista, in seguito come narratore con racconti editi su riviste orbitanti attorno alla neoavanguardia. Il suo primo romanzo, Comiche, uscirà nel 1971 proprio grazie a Calvino nella collana sperimentale «La Ricerca Letteraria» di Einaudi.
Palmieri, che ha curato con Marco Belpoliti il Meridiano di Celati, ricorda le difficoltà dello scrittore nei rapporti con gli editori: «Ero giovane, discutevo di tutto e volevo avere sempre l’ultima parola». Non era un carattere facile, e tanti se ne sarebbero accorti. Ecco come Celati raccontò l’incontro urbinate: «Per tre giorni abbiamo parlato quasi ininterrottamente e lui era ancora eccitato da quello che aveva visto durante le giornate di maggio a Parigi. Ne parlava con straordinario entusiasmo; diceva che era andato in giro per le strade con un senso di liberazione (...); e mi raccontava che adesso si sentiva di “voltare pagina”».
Intanto, dopo la laurea e l’esperienza di insegnante in scuole di campagna, in quel 1968 fatale anche Celati aveva deciso di lasciare l’Italia: per Londra. Ed è tornando dall’Inghilterra che fece tappa a Parigi per fermarsi dall’amico Italo: nacque lì il progetto di una rivista, «Alì Babà», pensato con il francesista Guido Neri e con lo storico Carlo Ginzburg. Per Calvino, il giovane Celati era a quel tempo «un vulcano di idee»: «l’amico con cui ho lo scambio d’idee più nutrito». Preciserà più tardi: «Tutto ciò che gli stava più a cuore in letteratura, da Lewis Carroll a Samuel Beckett, stava a cuore anche a me». La difficoltà semmai, aggiungeva, era «tenergli dietro»: «Appena riuscivo a entrare nel filo del suo discorso (...) lui era già passato ad altro; e dovevo ricominciare da capo». Tuttavia, se il progetto della rivista è destinato a fallire, è perché i due amici vanno scoprendo differenze sostanziali: sul rapporto tra politica e cultura per esempio. Le divergenze esplodono qualche anno dopo, quando Celati propone di pubblicare barzellette, proverbi, fatti di cronaca e un «elogio del fotoromanzo» che Calvino giudica una «vaccata immonda» (la staticità del fotoromanzo è secondo lui tutto il contrario di ciò che richiede il romanzesco).
Nel marzo 1972 la rivista, per Calvino, non è più «necessaria», rischierebbe di diventare un foglio di studi letto da quattro gatti. La cronistoria del fallimento, attraverso le lettere, è ben ricostruita in un numero della rivista Riga del 1998. Ma altri scambi epistolari testimoniano differenze di vedute non facilmente colmabili. Sin dalla discussione sul risvolto di Comiche: rispondendo a una prima proposta di Calvino, il giovane Celati lo costringe a correggere rivendicando la sua contrarietà verso ogni eccesso di programmazione del romanzo e verso ogni gioco combinatorio. E nella stessa lettera dichiara piuttosto il suo interesse per la «bagarre, quando tutti si picchiano, tutto scoppia, crolla, i ruoli si confondono, il mondo si mostra per quello che è, cioè isterico e paranoico, e insomma si ha l’impazzimento generale».
La corrispondenza si infittisce quando, nel 1972, escono Le città invisibili: in quella occasione, Calvino, deluso dalla freddezza con cui la critica ha accolto il libro, si rivolge all’amico per chiedergli un intervento capace di chiarire i presupposti teorici del progetto narrativo. Le testimonianze epistolari su quell’episodio sono purtroppo in gran parte perdute, poiché le lettere di Calvino, chiuse con altri importanti documenti in un baule della casa bolognese di Celati, sono scomparse durante una sua assenza. A proposito delle Città invisibili Celati si esprime in diverse interviste (le sue conversazioni tra 1974 e 2014 sono ora raccolte nel volume Il transito mite delle parole, a cura di Marco Belpoliti e Anna Stefi, edito da Quodlibet). Parlando con Michael Caesar nel 1982, definiva il libro di Calvino come «l’esempio di un modo di narrare di superficie, senza andare in profondità» e in questa cancellazione della tradizionale profondeur di sentimenti ed emozioni consisterebbe secondo lui la sua vera novità.
Sono quattro le lettere di Calvino risalenti ai primi anni Ottanta e ora leggibili grazie alla donazione delle carte celatiane alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia: vale la pena ricordare che la conservazione e la sistemazione di questo fondo, insieme con un archivio che avrebbe dovuto costituire un piccolo museo familiare, si devono alle cure del fratello maggiore di Gianni, Gabriele, morto nel 2003. Devoto custode delle sue carte e in alcuni frangenti suo generoso finanziatore, Gabriele era inizialmente «lo scrittore di famiglia», ma la sua attività, come ricordava Gianni, rimase sotterranea e inconclusa. Nel proporre le quattro lettere inedite, Palmieri fa notare come queste smentiscano l’idea diffusa secondo cui tra i due amici negli ultimi tempi fosse calato il silenzio. Dopo una delicata fase di passaggio che riguarda soprattutto Celati negli anni che seguono Lunario del paradiso (1978), i due si ritrovano nell’estate 1983, quando Calvino sottopone all’amico alcuni racconti usciti sul Corriere e rielaborati in vista di Palomar.
Alle riserve di Celati, Italo reagisce con una lettera del 1° novembre da cui si intuiscono i dubbi del giovane interlocutore sulla «attenzione visuale e riflessione» che caratterizza in massima parte quei testi, a svantaggio dell’aspetto «fantafisico» che Celati apprezza in altri. Ma il paragrafo iniziale della lettera di Calvino è occupato da un suo parere positivo (condiviso dalla moglie Chichita) su una novella che gli è stata inviata da Celati e che prelude a Narratori delle pianure, cioè alla svolta radicale di poetica conseguente all’incontro con il fotografo Luigi Ghirri. Calvino vi coglie una «furiosa musica interiore», il «divertimento» di una volta e soprattutto «il fluttuare tra realtà assurda e irrealtà ragionata (che) diventa dramma». Per la pubblicazione, Italo consiglia di guardare alle riviste e allude alla dolorosa crisi dell’Einaudi in corso proprio nel momento in cui si ritrova tra le mani le bozze di Palomar.
A Palomar Celati dedicherà nell’aprile 1984 un saggio su Alfabeta, insistendo su alcuni elementi sensibili che lo toccano direttamente in quella fase creativa e che Palmieri riassume così: «Il congedo dal mondo osservato; le cose che si allontanano e sfuggono alle parole; l’incertezza e la precarietà dello sguardo; i punti di silenzio su cui non abbiamo l’obbligo di pronunciarci; la necessità di una scrittura interrogativa in un mondo impoverito di storie». La figura che secondo Celati (e Calvino è d’accordo) incarna al meglio i caratteri del Signor Palomar è Buster Keaton, con le sue «mosse altrettanto intime e astratte».
Il 14 marzo dello stesso anno, Calvino scrive a Celati dopo aver ricevuto una prima versione del «racconto d’osservazione del paesaggio» Verso la foce: «Sì, mi piace, fa effetto, comunica questo senso di fine del mondo, tutto prende un senso, soprattutto più ci si avvicina alla fine, ha uno stile, un rapporto col mondo che non assomiglia a niente». E lo esorta a puntare sulla strada del racconto. Ne è tanto convinto che recensirà Narratori delle pianure sull’Espresso con parole che l’amico utilizzerà nelle edizioni successive riportandole sulla quarta di copertina: «Celati ritorna ora con un libro che ha al suo centro la rappresentazione del mondo visibile, e più ancora una accettazione interiore del paesaggio quotidiano in ciò che meno sembrerebbe stimolare l’immaginazione».
Nell’ultima lettera, del 1° luglio 1984, Calvino parla della sua passione per la Piccola cosmogonia portatile, il poema di Queneau, a cui si era applicato anni prima in vista di una traduzione che dovette arenarsi di fronte alle difficoltà di comprensione del testo. Affidò il compito al poeta-francesista Sergio Solmi, salvo pentirsene. Ma Queneau non era pane per i denti di Celati, e il tempo del confronto tra i due amici era quasi finito.