Corriere della Sera, 3 aprile 2023
Fabrizio De André raccontato da Mario Luzzatto Fegiz
Una bella giornata di giugno. Siamo nel 1980. Il fuoristrada arranca sul sentiero sterrato. Tutto intorno macchia mediterranea. Da un cucuzzolo un grande spuntone di roccia. «Granito Limbara, il marmo bianco e nero» lo indica Fabrizio De André. «Se il prossimo disco non funziona qui apro una cava. Nel mio terreno ce ne sono almeno cinque, due delle quali col marmo rosa chiamato Granito Sardinia». Arriviamo a destinazione. Un set meraviglioso: un piazzale roccioso in lieve pendenza, una grotta, una vista mozzafiato. Siamo all’Agnata, il buon ritiro di Dori Ghezzi e Fabrizio. Gli operatori si danno da fare a sistemare telecamere e microfoni. Luvi, la loro figlia, nella confusione sfugge di mano e si dirige verso un burrone. «Presto fermatela» grida Dori.
Fabrizio è ancora sonnolento (è mezzogiorno) e non capisce bene quel che stava per succedere. Dobbiamo girare un servizio per Odeon, il rotocalco di Raiuno curato da Brando Giordani. È il ritorno sulla scena pubblica dopo il rapimento e il rilascio della celebre coppia. Fabrizio in realtà ha scelto la parte del principe consorte. Perché al centro della scena c’è Dori Ghezzi con un brano intitolato «Mama Dodori» ispirato alla piccola Luvi. L’idea è un coretto di famiglia allargato: Fabrizio, Dori, Cristiano De André, Luvi, Cristiano Minellono, Oscar Prudente (il produttore del disco). La canzone non è scritta da Fabrizio. È il primo prodotto dell’etichetta Fado creata con le sillabe Fabrizio e Dori. Inutile dire che l’obiettivo era quello di stanare Fabrizio che però non aveva nessun disco da promuovere (l’album con l’indiano in copertina uscirà l’anno successivo).
Fabrizio aveva un processo creativo complicato. Viveva a orari invertiti. Creava di notte e dormiva di giorno. Si svegliava nel pomeriggio con la terribile tosse del fumatore incallito. In genere di pessimo umore. La sua telefonata arrivava spesso a mezzanotte con una raffica di critiche, obiezioni, richieste di chiarimento. Mi resi conto gradualmente che domande, risposte e rassicurazioni non erano altro che un rito che durava 30 minuti. Durante queste conversazioni ingestibili io immaginavo il contesto. Il lettone matrimoniale era un campo di battaglia. Sfrattata Dori, un caos apparente di libri tutti aperti su pagine precise, con tanti segnalibri improvvisati. E mille foglietti sparsi. Oltre a due portaceneri colmi. Fabrizio comprava centinaia di libri e magari dalla lettura di un libro annotava una sola frase. Lavorava così, con lentezza.
Un giorno il suo discografico Antonio Casetta, già proprietario del castello di Carimate, che non sapeva pronunciare la lettera erre, lo rimproverò per i ritardi. E lui si giustificò dicendo «Non ho idee». Comica la reazione di Casetta: «E allora lei ubi ubi /(rubi rubi)». Ma lui non rubò mai. Fabrizio aveva uno spiccato senso dell’umorismo dominato da due elementi: la misericordia assolutoria («Il pescatore», «Anime Salve») e l’amore per Dori. Un giorno ero stato invitato nel reparto Penale di San Vittore (quello che accoglieva i detenuti con condanne pesanti) per tenere una conversazione sulla musica. L’incontro era nel primo pomeriggio. Verso sera Fabrizio mi chiese com’era andata. Gli raccontai che l’invito era partito da un odontotecnico di Milano che, nella sua casa in via Cesare Correnti, aveva ucciso la moglie, madre di quattro figli, con ventiquattro coltellate. «E perché mai?», chiese Fabrizio un po’ angosciato e come sempre curioso di tutto. E io, scherzando naturalmente: «Pare che avesse cucinato male la cena». E lui sornione: «Belìn, doveva essere proprio cativa!”.
Molti anni prima era rimasto solo in una torrida Milano per lavorare a un disco. Di malavoglia. Sentiva molto la mancanza di Dori. E diceva beffardo: «Io qui a cuocere, lei ad abbronzarsi a Santa Teresa di Gallura». Finalmente Dori annunciò l’imminente ritorno a Milano.«Belìn, son contento. (pausa pensierosa) Non credo che le darò il tempo di posare a terra i bagagli!». Amore e desiderio. Ogni tanto aveva delle strane manie: come quella di infilarsi in affari sballati o anomali. Mi propose di entrare in società con un apicoltore sardo, un tipo alquanto pittoresco, investendo una grossa somma per assicurarsi una bella quantità di miele amaro di corbezzolo (una vera squisitezza).
Fabrizio era la disperazione degli uffici stampa. Veniva pianificato tutto scientificamente, poi arrivava un quotidiano minore o la rivista anarchica e lui vuotava il sacco prima del tempo. Oppure si sottraeva all’ultimo momento all’intervista. O la rifiutava adducendo scuse come il non essersi svegliato in tempo. Diceva: «Nelle interviste non si dice mai quello che si vorrebbe dire io poi non ho nessuna idea chiara, se fossi capace di parlare sarei tutte le sere al Costanzo show». Molte canzoni di De André nascono ispirate a fatti di cronaca o da personaggi reali: in «Preghiera di gennaio» c’è la morte di Luigi Tenco, nella «Canzone di Marinella» un delitto con stupro, l’istriana Mariza era «Bocca di rosa» dove la barca diventava un talamo. E poi le canzoni ispirate al rapimento («Hotel Supramonte», «Quello che non ho»). C’è però una storia poco nota dietro una canzone davvero incredibile e altrettanto poco nota intitolata «Parlando del naufragio della London Valour», scritta assieme a Massimo Bubola e inserita nell’album Rimini del 1978.
La nave London Valour salpò il 2 aprile 1970 da Novorossisk imbarcando 23.606 tonnellate di cromo. Era diretta a Genova, dove giunse il 7 aprile e diede fondo nell’attesa dell’ormeggio. La mattina del 9 aprile la nave era ancora lì. Il comandante Edward Muir aveva ordinato lo smontaggio dei propulsori poiché dovevano essere revisionati una volta entrati in bacino con l’ausilio dei rimorchiatori. Il capitano si era fatto raggiungere a Genova dalla moglie. Improvvisamente sulla città si abbatté una libecciata di enorme violenza. Verso le 14.30, per via del fortissimo vento, l’ancora della nave cominciò a perdere la presa avvicinandosi pericolosamente alla barriera frangiflutti e finì poi per sbattere violentemente contro gli scogli. Quel che successe dopo fu sconvolgente. La moglie del capitano salì sulla teleferica creata dai soccorritori, che avrebbe dovuto portarla in salvo. Ma anche lei sbattè malamente sugli scogli e sparì fra i flutti. Il capitano si getta in mare per tentare un salvataggio in extremis. Periscono entrambi. Nel disastro persero la vita venti membri dell’equipaggio, in gran parte di nazionalità indiana e filippina.
Fabrizio racconta la vicenda a modo suo sottolineando che allo spettacolo del naufragio assistono i genovesi come si trattasse di uno show circense. Fabrizio canta, anzi recita, così: «E la radio di bordo è una sfera di cristallo dice che il tempo si farà lupo e il mare si farà sciacallo... E le ancore hanno perso la scommessa e gli artigli». La radio prevede ma nessuno l’ascolta al momento giusto. «E con uno schiocco di lingua parte il cavo dalla riva ruba l’amore del capitano attorcigliandole la vita». L’ultima telefonata tra noi due fu alla vigilia di Natale: «Oggi si guarisce di tutte le malattie tranne di quella chiamata vita». L’11 gennaio successivo furono le sue ancore a perdere la scommessa. Fabrizio sapeva difendersi anche dagli amici. Un giorno Beppe Grillo, allora suo buon amico, lo invitò a una crociera sulla sua barca. Faber chiese precisazioni: «Chi saremmo a bordo?». «Beh, noi e la ciurma» rispose Grillo. «La ciurma chi?» incalzò Fabrizio. «Tu io Dori e mia moglie». Quella crociera non salpò mai.