Corriere della Sera, 3 aprile 2023
Il punto sul Pil
Una delle immagini più ricorrenti ed evocate dell’Unione europea è quella della bicicletta: deve continuare a pedalare per non cadere, nel senso che smettere il processo della progressiva integrazione le sarebbe fatale. Si può condividere o meno questa visione e argomentare che, anche se dovesse fermarsi, ormai la costruzione europea è una realtà talmente radicata e solida, da non dover più temere per il proprio futuro. Una cosa tuttavia è certa: se l’Europa rimanesse ferma, pagherebbe un prezzo. E anche molto alto. Per la precisione: 2.800 miliardi di euro l’anno a partire dal 2032. Partendo dalla domanda «quanto costa la non Europa?», il Servizio ricerca del Parlamento europeo ha esaminato e quantificato i benefici potenziali che potrebbero essere conseguiti se l’Ue facesse miglior uso delle risorse esistenti, e soprattutto se varasse nuove politiche comuni, dando quindi risposte unitarie a problemi simili. Secondo lo studio, l’Europa per il prossimo decennio ha davanti a sé tre scenari. Vediamoli.
I tre scenari
Scenario 1: lasciando le cose come stanno, senza alcun cambiamento delle politiche comuni, il Pil aggregato dell’Ue passerebbe dai circa 15 mila miliardi di euro del 2022 a circa 17 mila miliardi nel 2032, con un tasso di crescita medio annuo dell’1,3%. Scenario 2: se di fronte a una nuova crisi economica – che inflazione, scricchiolii del sistema bancario e protrarsi della guerra in Ucraina non fanno certo escludere – i Paesi membri reagissero in ordine sparso dando risposte nazionali e divergenti, tra dieci anni ci sarebbe una perdita netta reale di 2.052 miliardi di euro di Pil. Scenario 3: con il rilancio di un’azione comune in 50 settori strategici il Pil europeo passerebbe invece dagli attuali 15 mila miliardi a 19.800 miliardi nel 2032, quindi 2.800 miliardi in più rispetto allo scenario dello status quo, con un tasso medio annuo di crescita del 2,9%. Naturalmente, non tutte le politiche sarebbero a regime allo stesso tempo e quindi a quella cifra ci si arriverebbe per approssimazioni successive, ma alla fine della fiera quello sarebbe il vantaggio sostenibile della maggior integrazione. Ben inteso, i benefici futuri non sostituirebbero o metterebbero in discussione quelli derivanti dalle politiche dei singoli Stati membri a livello nazionale, regionale e locale, ma li integrerebbero e li rafforzerebbero. Ma come si arriverebbe concretamente a questo risultato?
Un vero mercato unico
Un potenziale immenso è nel settore dei trasporti: oggi non si viaggia ovunque alla stessa velocità. Per esempio quando un treno merci passa da uno Stato all’altro trova strozzature e ostacoli spesso insormontabili: i binari possono essere più larghi (come nei Paesi Baltici, e in gran parte dei Paesi dell’est) o più stretti (in aree della Spagna) o la rete è vecchia e lenta, come nel Sud Italia. In tutti questi casi il trasporto deve passare su gomma. In sostanza investire nelle interconnessioni facendo del Sistema europeo di gestione del traffico ferroviario (Ertms) l’unico sistema di segnalamento utilizzato sulla rete globale Ten-T, e completando il mercato unico di beni e servizi, eliminando le barriere residue porterebbe nel giro di 10 anni a vantaggi pari a 507 miliardi di euro. Restando sempre nel mercato unico: se le imprese continuano a farsi concorrenza non sulla qualità dei prodotti o servizi offerti, ma in base alle agevolazioni fiscali offerte da questo o quel Paese, non sarà mai efficiente. Armonizzare le agevolazioni e introdurre l’obbligo di fatturazione elettronica in tutti i Paesi membri genererebbe 94 miliardi di Pil europeo aggiuntivo. E poi c’è il divario relativo all’imposta sul reddito delle società: l’Ue dovrebbe creare norme comuni per le imprese che operano in più di uno Stato membro e rafforzare lo scambio di informazioni tra le amministrazioni fiscali. Questo comporterebbe anche una riduzione della burocrazia e dei costi di adempimento.
Transizione energetica e imprese
Per ridurre i consumi energetici bisogna fare tutti le stesse cose: graduale abbandono dei combustibili fossili, miglioramento dell’efficienza energetica e semplificazione delle procedure per l’ampliamento della produzione di energie rinnovabili. Questo comporta investimenti tecnologici comuni che nel decennio porteranno a benefici (sull’ambiente e nella creazione di nuovi posti di lavoro) quantificabili in 420 miliardi. La digitalizzazione delle piccole e medie imprese, norme comuni sui lavoratori delle piattaforme digitali e una robusta protezione dei dati e della riservatezza delle comunicazioni significherebbero un valore aggiunto pari a 327 miliardi di euro.
Salari e immigrazione legale
Uno dei grandi successi dell’Unione europea sono stati i fondi strutturali, che hanno fatto da volano alla crescita di Spagna e Portogallo e poi di Paesi come Polonia, Ungheria e Baltici. Aumentarne la dotazione per favorire le aree meno sviluppate, combattere povertà e disuguaglianze armonizzando verso l’alto il salario minimo e creando percorsi comuni per l’immigrazione legale, si tradurrebbe in un plus valore di 356 miliardi. «I benefici – spiega lo studio – deriverebbero dall’aumento dell’occupazione, dal miglioramento del salari, che si traducono in una base imponibile più ampia, una più efficiente allocazione del capitale umano e una migliore integrazione dei lavoratori mobili e dei cittadini di Paesi terzi».
Politiche sanitarie e difesa comune
Gli anni del Covid hanno mostrato tutta la necessità di una politica sanitaria comune, che oggi invece è di competenza degli Stati membri. La creazione di un Fondo Ue destinato a migliorare le strutture ospedaliere, con acquisti congiunti di attrezzature e medicinali e nuove norme per più trasparenza nella fissazione dei prezzi porterebbero un maggior guadagno di almeno 34 miliardi. Quanto alla difesa europea, la guerra di aggressione russa in Ucraina ha riportato d’attualità il tema della sua assenza. «Eppure – ricorda il capo dell’Unità del Servizio Ricerca del Parlamento Europeo Lauro Panella – se sommassimo l’attuale spesa militare dei 27 Paesi, sarebbe quasi pari a quella cinese, seconda solo a quella degli Stati Uniti». Ma la spesa dell’Ue per la difesa è frazionata, coordinata poco e male, segnata da duplicazioni, incapace di economie di scala. Un esempio per tutti, i 14 diversi modelli di carri armati prodotti in Europa. Una maggiore integrazione del bilancio per la difesa porterebbe invece non solo risparmi ed efficienza, in termini di minori costi amministrativi e minori sovrapposizioni, ma anche a una spinta nel campo della ricerca e sviluppo ad applicazioni civili. I guadagni potrebbero essere compresi tra 24 e 75 miliardi l’anno, solo in questo settore.
Il modello per il futuro
Investire in un Paese dove la giustizia non funziona bene ha costi enormi. Rafforzare la lotta alla corruzione potenziando il quadro legislativo europeo, rendere più severi i requisiti di trasparenza per gli appalti pubblici genererebbe quasi 140 miliardi di euro. Occorre anche rendere più intensa la cooperazione di polizia e quella giudiziaria e migliorare le misure europee per il sequestro di proventi e beni di individui e organizzazioni criminali. La forza dell’Unione europea si è vista durante la crisi pandemica, quando l’azione comune ha assicurato vaccini a prezzi ragionevoli per tutti i suoi Stati, mentre il fondo europeo Sure ha ammortizzato i rischi della disoccupazione e il Next Generation Eu ha avviato la transizione verde rimettendo l’Europa sulla strada della crescita e dello sviluppo sostenibile. L’estensione di questo modello porterebbe ad una Europa più efficiente, forte e prospera.