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 2023  aprile 03 Lunedì calendario

Intervista a Teresa Vergalli - su "Una vita partigiana. Perché la battaglia per i nostri diritti continua ancora oggi" (Mondadori)

«È un 25 aprile diverso dalle altre feste di Liberazione. L’attuale governo di destra non ha mai fatto i conti con il fascismo storico, la premier non riesce neppure a pronunciare la parola antifascisti, e il presidente del Senato non perde occasione per gettare ombre sulla Resistenza. Per me tutto questo è solo un grande dolore, una sofferenza sorda che oscura tutto il resto. Ma mi chiedo: cosa non abbiamo fatto abbastanza?». Basterebbe questa domanda per mostrare il vergognoso paradosso della storia. A interrogarsi sull’immaturità del Paese è Teresa Vergalli, classe 1927, combattente partigiana con il nome di Annuska. A 95 anni il fisico è ancora forte e asciutto, la voce potente. Mi accoglie con modi franchi e affettuosi nella sua casa nella periferia Sud della città, un’isola di verde che interrompe la fila interminabile di palazzoni lungo viale Togliatti. Sul tavolino del soggiorno è poggiato il bellissimo libro che uscirà domani, Una vita partigiana, sottotitolo espressivo: Perché la battaglia dei nostri diritti continua ancora oggi. «Non bisogna darla mai per scontata la democrazia. A me pare che i diritti siano sempre meno eguali per tutti. I più giovani condannati a precarietà e sfruttamento, le donne a disparità non ancora risolte, gli anziani a solitudine e povertà. E poi la scuola, la grande dimenticata: io ero figlia di contadini poveri e sono diventata maestra elementare, ma oggi chi crede più nella cultura? E chi ha fiducia nella storia?». Non aveva ancora 17 anni, Annuska, quando cominciò ad accompagnare in bicicletta i comandanti partigiani per i sentieri sotto la via Emilia, la piccola rivoltella nascosta nel reggiseno, le gambe ghiacciate dalla neve perché solo le signore avevano i pantaloni per la montagna, non le figlie dei mezzadri. Per un anno intero ha rischiato la vita nei posti di blocco, partecipato ai sabotaggi, vestito i bisognosi, difeso i diritti femminili nei Gruppi di difesa delle donne, organizzato la propaganda «perché noi sappiamo esser più leggere e concrete degli uomini, meno enfatiche». Pensava che dopo tanto tempo la sua storia dovesse essere solo un ricordo di famiglia, la guerra partigiana ormai consegnata alla religione civile dell’Italia repubblicana. E invece? «Invece credo sia necessario raccontarla un’altra volta», dice. «Perché questo nostro Paese non sa ancora che cosa è stato il fascismo. E che cosa è stata la Liberazione. Subito dopo la fine del conflitto, gli italiani hanno fatto finta di dimenticarsene. E noi partigiani di sinistra siamo stati costretti al silenzio, zitti e buoni, perché nell’Italia normalizzata i partigiani avevano fama di delinquenti. Neppure a scuola se ne poteva parlare, il 25 aprile era l’anniversario di Guglielmo Marconi, non la Festa della Liberazione. E poi l’onda nera è rimontata negli anni Novanta, quando gli ex fascisti sono arrivati al governo e molti hanno ricominciato a infangarci con la storia del Triangolo Rosso e dei delitti efferati». «Cosa mi aspetto ora per il 25 aprile? Non mi aspetto proprio niente. Magari la premier Meloni si inventerà qualche furbata, un’operazione di marketing politico, una corona di fiori, un discorso sulla guerra fratricida che parifica tutti, fascisti e antifascisti, saloini e resistenti, stragi nazifasciste e foibe. Ma certo, i partigiani non erano tutti stinchi di santo, errori sono stati commessi anche dalla nostra parte. Ma devo ricordare le parole del commissario Kim nel celebre libro di Italo Calvino Il sentiero dei nidi di ragno? Tutti sparavano con eguale furore. Ma a dividere gli uni dagli altri c’è «la storia»: la storia, che dà un senso giusto alla furia degli uni; e ricaccia gli altri nell’oppressione e nella schiavitù. Ci sono state allora solo due scelte possibili: quella dalla parte della democrazia e quella dalla parte della dittatura e dell’oppressione nazista. Ma davvero è necessario ricordarlo?». «Nel dopoguerra tanti partigiani si sono tenuti il dolore dentro. Soprattutto le donne hanno raccontato poco delle violenze subìte dai fascisti e dai tedeschi. Neppure a casa potevano parlarne, i mariti preferivano non sapere. Perfino la mia amica Mimma s’è decisa a raccontarci del suo seno martoriato solo pochi anni fa, dopo quasi settant’anni di silenzio. E non ci ha voluto dire come i nazisti le avessero strappato il capezzolo. Ma di che ti vergogni?, la incoraggiavamo. Sono loro che dovrebbero umiliarsi. E lei muta d’una vergogna che non l’ha mai abbandonata». «Dei nostri silenzi si è parlato poco. Anche nel libro avrei voluto scrivere di più, ma c’è qualcosa che mi trattiene. Per le donne non è stato facile imporsi sulla cultura maschilista dei capi partigiani, che ci relegavano nei ruoli tradizionali codificati dal fascismo: lavori di casa, rammendo, cura. Qualcuna tra noi s’è ribellata al capo: hai le mani, impara a usarle! Ma tra uomini e donne non sempre era conflitto, nascevano anche grandi amori. Per porre fine alla promiscuità, un dirigente cattolico, il professor Marconi, decise di istituire un distaccamento femminile: le donne da una parte, i maschi dall’altra. Anche per noi la guerra partigiana ha rappresentato un passaggio importante, il primo momento di liberazione sentimentale e sessuale. Io ero molto giovane e bacchettona, e non capivo niente. C’era una ragazza di Parma che non tornava la sera, o tornava troppo tardi. E io mi lamentavo con Pasquino, il mio comandante: Tamara non si comporta bene, e poi dicono che siamo tutte poco di buono. Pasquino un giorno mi riprese: ma che ne sai tu? Ma se la Tamara fa un regalo a un partigiano che magari tra una settimana muore? Allora io annuivo: forse hai ragione tu». «Non era facile neppure con i nostri uomini. La Laila era fidanzata con un operaio delle Officine Reggiane che le impose di scendere giù in pianura: altrimenti non sei degna di essere la madre dei miei figli, le disse. Ma lei rischiava l’arresto, così scelse di continuare la guerra partigiana in montagna. La storia finì e lei s’innamorò d’un compagno poi scomparso nella battaglia di Monte Caio: sarebbe stato ritrovato in fondo al crepaccio soltanto con la neve sciolta. Laila è l’unica delle mie amiche partigiane che non s’è mai sposata. Non me l’ha mai confidato, ma forse l’amore col partigiano è stato l’unico della sua vita». «Vuoi sapere se ho mai sparato? No, tenevo una piccola rivoltella nel reggipetto ma non la sapevo usare. Pensavo che mi sarebbe servita a tirarmi un colpo in testa nel caso mi avessero catturato i nazifascisti. Avevo terrore della violenza fisica, ancor più della morte. Sì, molte donne usavano le armi. Ma tutte noi, armate o disarmate, facevamo guerra alla guerra. Combattevamo per avere la pace, questo era il senso della nostra battaglia. E ancora oggi c’è chi contesta le armi agli ucraini perché così il fuoco non si ferma. Ma cosa dovremmo fare? Lasciarli ammazzare dai soldati di Putin? Appoggiare la loro resistenza mi sembra il male minore. Anche loro fanno la guerra alla guerra». «Cosa vorrei dire per il 25 aprile al presidente del Senato La Russa, un ex fascista che si dichiara antiantifascista? Penso che le sue uscite non siano casuali. Penso che davvero voglia cambiare il patto della memoria con gli italiani, riabilitando ciò che non può essere riabilitato. Vorrei dirgli che le colpe di Mussolini non solo state solo le leggi razziali e l’accordo con il Führer, ma tutto quello che il regime ha fatto patire al popolo italiano. Presidente, si metta all’ascolto di chi ha sofferto a causa del fascismo. Testimonianze minute di chi ha avuto il padre al confino, soffrendo fame e povertà. O di chi ha visto il genitore morire sotto le bastonate delle camicie nere, come è capitato alla mia amica Mimma. Mio papà che era un antifascista non ha mai voluto raccontarci di essere stato pestato a sangue. Solo per la sua festa dei novant’anni accettò di rispondere a qualche nostra domanda. Perché è umiliante dover dire di essere stato accerchiato da tre persone, buttato a terra e massacrato finché il padrone non ha urlato: ora basta! La violenza è un’umiliazione che ti segna per tutta la vita». «Ma io mi domando: in che cosa abbiamo sbagliato, per permettere che finisse in questo modo? Forse non abbiamo fatto abbastanza per educare le nuove generazioni. Non avrei mai pensato di vedere l’antifascismo calpestato, e ora di vedere una nuova guerra nel cuore dell’Europa. Quello che provo oggi è un dolore sommesso che è il sottofondo di tutti i miei pensieri. La democrazia è un equilibrio prezioso e delicato, che va maneggiato con cura. Non dovremmo dimenticarcelo mai».