il Giornale, 3 aprile 2023
Il business del vino in Italia
«Guarda il calor del sol che si fa vino, giunto a l’omor che de la vite cola»: l’analogia con cui Stazio, nel XXV canto del Purgatorio, spiega a Dante l’infusione dell’anima razionale nel corpo e quindi il passaggio dall’animale all’uomo, dimostra quanto la cultura del vino e la coltura della vite siano connaturati al nostro Paese. Un’industria che, dai campi alla catena distributiva, impiega 1,3 milioni di persone e che poggia su un «asset» – cioè sui vigneti – a cui si può attribuire un valore di 56,5 miliardi. Ogni ettaro a vite è insomma valutato 84 mila euro, quattro volte più della media delle superfici agricole, ha calcolato l’Osservatorio Uiv-Vinitaly dopo aver passato in rassegna le quotazioni dei 674 mila ettari di grappoli che si estendono da Nord a Sud della Penisola, generando un tesoro oltre 30 miliardi l’anno. E questo «tesoretto» nel 51% dei casi si trova tra collina e montagna, un baluardo anche paesaggistico che riqualifica aree interne e a rischio spopolamento. I vitigni sono quindi uno degli investimenti più redditizi in assoluto sul piano fondiario, complice l’interesse crescente dimostrato dal «family office», la parte più esclusiva del private banking, per le etichette più blasonate e le regioni a maggior vocazione enologica. Le quotazioni massime dei filari italiani si riscontrano in provincia di Bolzano, nella zona di Barolo e Barbaresco, sulle colline di Conegliano e Valdobbiadene e a Montalcino. Il vino rappresenta però soprattutto, insieme alle nostre eccellenze culinarie, un grande ambasciatore del made in Italy nel mondo. Non per nulla, sottolinea Coldiretti, lo scorso anno a trainare il fatturato del settore fino al record di 14 miliardi è stata la corsa delle esportazioni (+10%) per un controvalore di 7,9 miliardi, mentre gli acquisti domestici calavano del 2,2%. Un primato, quello italiano, messo a rischio anche in seno alla stessa Unione Europea da iniziative come quella dell’Irlanda. Determinata, sulla falsariga di quanto già accade per il tabacco, a imporre ai produttori di specificare sulle bottiglie indicazioni sanitarie sui danni dovuti all’alcool. Non solo Dublino auspica che la strada sia poi seguita dal resto dell’Unione. Un bel problema per il governo, già alle prese con le contraddizioni del Nutriscore. «Il vino fa bene, con buona pace di quelli che dicono che il vino fa male. Noi difenderemo sempre la qualità del nostro prodotto, difenderemo il principio che il vino non è una sostanza cancerogena», ha rimarcato ieri all’inaugurazione di Vinitaly il ministro degli Esteri Antonio Tajani, evidenziando come la produzione vinicola costituisca «un fiore all’occhiello» dell’identità italiana e «una parte determinante della dieta mediterranea». Anche per contrastare con la carta della qualità il cosiddetto italian sounding: le bottiglie made in Italy, stando sempre ai dati di Coldiretti, sono per circa il 70% Docg (76 vini), Doc (332) e Igt (118) e per restante 30% prodotti da tavola. Numeri che fanno il Belpaese leader mondiale della bevanda sacra a Dioniso davanti a Francia e Spagna, con una produzione che ha sfiorato i 50,3 milioni di ettolitri grazie a 310mila aziende agricole. «Il vino è specchio dell’uomo», recita un famoso verso del poeta greco Alceo e il suo nettare ne svela sovente i pensieri più veri. Speriamo che anche a Bruxelles qualcuno se lo ricordi.