la Repubblica, 2 aprile 2023
Il lavoro dei cinesi
C’è un’ombra costantemente proiettata sugli affari più delicati del nostro Paese. Quando si parla di Difesa, quando si discute di sicurezza e delle nuove tecnologie applicate. Quando si dibatte di ricerca, energia, grandi investimenti o più genericamente di futuro. Molto spesso, anzi, quasi sempre, spunta una parola: Cina. E questo perché – come ben spiegato anche nell’ultima relazione al Parlamento del Dis, il vertice della nostra Intelligence – le aziende cinesi da anni provano costantemente ad acquistare segmenti del tessuto finanziario e produttivo europeo e dunque anche italiano, immettendo sul mercato centinaia di milioni di euro. Il punto che questo avviene non sempre nell’ambito di normali regole di mercato. Ma spesso sulla base – questo, per lo meno, è quello che sostengono i nostri apparati di sicurezza – di un’iniziativa politica di Pechino. Attraverso aziende che soltanto all’apparenza risultano essere private, il governo cinese punterebbe a controllare pezzi strategici del mercato occidentale e ad acquisire direttamente il nostro know how. ***
Come risposta a questo tipo di azioni era stato pensato il Golden power, lo strumento che consente al Governo di dettare specifiche condizioni all’acquisito di partecipazioni, di porre il veto all’adozione di delibere societarie e di opporsi all’acquisto di quote in aziende considerate strategiche. Questo genere di potere speciale è sempre stato usato con parsimonia fino a due anni fa quando hanno conosciuto un boom: le notifiche nel 2022 sono state 608, con un aumento del 22 per cento rispetto all’anno precedente.
E in almeno due casi su tre, direttamente o indirettamente, il problema riguardava proprio la Cina. Che, però, ha sempre contestato questo tipo di ragionamento. Sostenendo che tutte le operazioni al centro del dibattito fossero normali iniziative imprenditoriali. Lo ha detto il Governo cinese. E lo hanno ripetuto i suoi amici italiani, primo tra tutti il fondatore del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo, che non ha mai nascosto le sue simpatie verso il paese asiatico. E che, ancora qualche giorno fa nell’incontro con i suoi parlamentari, non ha mancato occasione di ricordare la necessità di favorire l’investimento cinese nel porto di Taranto, considerato centrale da Pechino nello sviluppo della Via della Seta, il corridoio via mare che permetterebbe a merci e tecnologie cinesi di arrivare facilmente in Europa.
Repubblica ha tuttavia avuto accesso a documenti che testimoniano come il governo cinese, nascondendosi dietro alcune società e con la complicità di diversi soggetti, anche italiani, abbia effettivamente provato a comprare aziende strategiche. Mentendo alle nostre autorità. E portando fuori dall’Italia tecnologie che invece dovevano restare in Europa. Il caso più clamoroso è quello di Alpi Aviation, un’azienda di Pordenone che progetta e realizza droni, aerei leggeri ed ultraleggeri, elicotteri. Per quel tentativo di acquisto sei persone stanno per essere mandate a processo, in un’inchiesta che la Procura di Pordenone ha chiuso nelle scorse settimane. E che racconta tanto, quasi tutto, di questo chinese job. ***
Alpi Aviation
È una piccola azienda della provincia di Pordenone che produce velivoli dal know how completamente italiano. Da qualche tempo ha sviluppato dei brevetti interessanti sui droni quando – siamo nell’estate del 2019 – le si avvicina un’azienda di Hong Kong interessata all’acquisto. Chiede informazioni e, soprattutto, mette sul tavolo un’offerta economica di primissimo livello: quattro milioni di euro per il 75 per cento di quote per un’azienda che, fino a quel momento, tutti consideravano valesse meno della metà. Un affare. Ma cosa piace a Hong Kong? I compratori si dicono interessati in particolare a un drone militare, sviluppato da Alpi: lo Strik-Df. «Si tratta di uno strumento – si legge negli atti sequestrati dalla Guardia di Finanza – che serve a un lavoro di «sorveglianza, pattugliamento confini, intelligence, ispezioni, acquisizione bersagli e ricognizione». «Può essere schierato entro 8 minuti e può eseguire missioni diurne e notturne – si legge ancora- pesa dieci chili e le ali, con un’apertura di tre metri, contengono una fotocamera, uno spotter laser a infrarossi e un telemetro laser».
In sostanza si tratta di una “spia” volante, in grado di recepire tutta una serie di dati e di elaborarli. «È a tutti gli effetti un’arma», annota la procura di Pordenone. Che, quindi, deve sottostare a tutte le rigide normative in materia. E invece le cose vanno diversamente. La società che sta per acquisire le quote di Alpi prende il drone e lo invia in Cina, «affinché venisse esposto a fini esibizionisti in occasione della seconda edizione della fiera internazionale dell’import tenutosi a Shangai dal 5 al 10 novembre 2019». E lo portano via dall’Italia mentendo: alla Dogana dicono che si tratta di un “modello di aeroplano” e non del drone.
nella produzione dei semiconduttori e slegarsi dalla dipendenzadall’estero». ***Miliardi in CinaEmblematica è la storia che riguarda la Famà Helicopters, azienda specializzata nella produzione di elicotteri ultraleggeri. Come emerge dagli atti analizzati da Datenna, la cinese Duofu International Holding Group nel 2022 non solo ne ha acquisito gli impianti di produzione, ma anche il suo dipartimento di ricerca e sviluppo, il know how e i diritti di proprietà intellettuale. «Osservando la struttura societaria – spiega Datenna – si nota che Duofu International Holding ha la piena proprietà di Wenzhou Dover Aviation Industry Group Co. e di altre tre filiali che operano nel settore dell’aviazione. Anche se l’accordo è stato concluso nel campo dell’aviazione civile, la Cina punta ad aumentare l’interazione tra ricerca civile e settori commerciali e la loro applicazione militare attraverso un piano strategico denominato Military-Civil Fusion. Gli investimenti che sono stati recentemente conclusi nel settore dell’aviazione, tra cui uno con Airbus, sottolineano la volontà cinese di raggiungere l’indipendenza nella catena produttiva». Il punto è che la Duofu ha avuto direttamente collaborazioni con entità governative del regime cinese. In un’area di sviluppo, quella dell’aviazione, centrale nella strategia militare di Pechino.Il governo italiano ha posto il veto alla cessione di rami aziendali della Applied Materials Italia, che tratta in semiconduttori, circuiti integrati e la stampa serigrafica per la materializzazione delle celle solari. L’acquirente che si è presentata con una proposta di aumento di capitale, la cinese Zhejiang Kesheng Intelligent Equipment Company: i prodotti principali dell’azienda sono forni automatici di crescita a cristallo singolo, forni per lingotti di silicio policristallino, forni a cristallo di zaffiro, forni a cristallo singolo di silicio a fusione di zona. L’importanza di questi risiede nel fatto che vengono utilizzati nella produzione dei semiconduttori, nel solare fotovoltaico, nei LED. «Il piano prevedeva l’investimento di 120 milioni di dollari per prendersi il business delle apparecchiature per la stampa serigrafica di Applied Materials», osservano gli analisti di Datenna. «Il settore semiconduttori si inserisce perfettamente negli obiettivi dettati dal piano nazionale “Made in China 2025”: raggiungere l’indipendenzaMa c’è un altro tassello fondamentale della strategia della Cina che punta a “risucchiare” energie dall’Europa e dall’Italia in particolare. E riguarda il riciclaggio dei capitali frutto dell’evasione fiscale e il trasferimento di miliardi di moneta europea nelle casseforti delle banche di Stato di Pechino.Repubblicaha pubblicato una ampia inchiesta lo scorso 6 marzo (e ancora scaricabile sul sito) per raccontare la Banca “segreta” cinese in Italia: la China underground bank, con filiali sparse in tutto il nostro Paese. Un “istituto” che offre servizi agli evasori italiani, consentendo loro di ripulire i conti correnti pieni di soldi frutto dell’evasione attraverso pagamenti coperti da fatture fittizie verso le banche di Stato cinesi. In cambio poi gli evasori italiani ricevono sacchi di contanti, probabilmente a loro volta risultato del nero dell’economia illegale cinese in Italia.Negli ultimi anni tra uno e due miliardi di euro all’anno sono stati trasferiti in Cina con questo meccanismo. Dopo l’inchiesta di Repubblica il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo ha chiesto a tutte le procure di segnalare casi di truffe o pagamenti per conto delle mafie e degli evasori che coinvolgono cinesi e trasferimento di fondi in Cina. Sì, perché questa banca sommersa offre servizi anche alle mafie italiane per fare pagamenti all’estero ai grandi cartelli della droga in Colombia o in Spagna. Il ricavato finisce sempre in Cina. Di certo c’è che nelle ultime settimane sono state concluse operazioni su truffe miliardarie e questa volta sono stati arrestati anche alcuni cinesi che si erano occupati del trasferimento dei soldi. Ad esempio nell’indagine sulla truffa da oltre 2 miliardi sul superbonus edilizio scoperta dalla procura di Asti, ma che ha riguardato imprenditori italiani di diverse regioni, è venuto fuori che per liberare i conti correnti sono stati mandati in Cina con regolari bonifici (coperti da finte fatture) milioni di euro in cambio di contanti.Anche la procura di Milano ha appena concluso una indagine per truffa ed evasione fiscale che ha coinvolto direttamente alcuni cinesi che, per conto degli italiani, si erano occupati del trasferimento dei soldi. Diceva un imprenditore intercettato: «Io faccio falsa fatturazione ma c’è il riciclaggio di mezzo. Perché poi loro li mandano in Cina». In questa inchiesta è la prima volta che vengono arrestati cinesi per aver trasferito illegalmente fondi dall’Italia a Pechino. Un salto di qualità che potrebbe aprire il vaso di pandora della banca sotterranea: per capire se questa “banca” ha una unica regia, oppure se si tratta di una organizzazione non piramidale ma che ha comunque collegamenti con lo Stato cinese. Perché resta la domanda di fondo: se miliardi di euro arrivano in Cina in questo modo, davvero lo Stato di Pechino non si accorge di nulla? In ogni caso avere miliardi di euro per la Cina è come avere un tesoretto in una moneta straniera stabile e di valore. Inoltre con l’evasione fiscale e il non reinvestimento in Italia di queste somme illegali comunque si prosciuga un pezzo di economia: come sta accadendo in alcune aree del nostro Paese in maniera chiara, da Venezia a Prato. ***Ungheria quinta colonna di PechinoUn altro elemento che accomuna molte di queste operazioni condotte dalla banca sotterranea cinese è che spesso le transazioni passano da istituti di credito e da società che hanno sede in Ungheria. E non è un caso. Secondo diversi analisti il Paese guidato da Viktor Orban sta diventato una quinta colonna della Cina in Europa. Già nel giugno 2022 un dossier dell’Unità d’informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia lanciava l’allarme: «Diverse imprese operanti nel settore tessile, ubicate nell’Italia centrale e riconducibili a titolari effettivi di origine cinese, effettuano trasferimenti di fondi di ingente importo a favore di società ungheresi. Tali imprese, riconducibili anch’esse a soggetti cinesi, inviano i fondi ricevuti a favore di società dell’Asia orientale. L’operatività complessiva induce a ipotizzare un fenomeno di sotto-fatturazione di prodotti importanti con finalità di evasione di Iva e dazi».Il sistema prevedeva società cartiere e trasferimento di denaro attraverso bonifici con regolare fattura (ma senza scambio di merce). Molte delle società in Ungheria erano intestate a un prestanome ungherese. «Il caso si colloca nell’ambito di un fenomeno ampio e articolato di flussi finanziari anomali presumibilmente connessi alla importazione dalla Cina di merci tessili sotto-fatturate, per cui è stato dichiarato un valore imponibile inferiore a quello veritiero in occasione dello sdoganamento ammesso». Il meccanismo della sotto-fatturazione, grazie alle bolle doganali delle merci cinesi arrivate in Ungheria, consente da una parte l’evasione delle imposte e dall’altra permette di creare una “provvista di denaro liquido rappresentato dalla differenza tra il valore fatturato e quello reale dei beni importati”. Non a caso dal 2017 «risulta un notevole incremento delle quantità di prodotto tessili di origine cinese sdoganate e successivamente trasferite in altri paesi europei». Scrivono gli investigatori dell’Uif: «La sotto-fatturazione comporta l’esigenza da parte delle società destinatarie delle merci di corrispondere ai fornitori cinesi non solo il prezzo indicato nella documentazione doganale ma anche la differenza tra il minor valore fatturato e quello reale. Il primo è corrisposto mediante l’invio in Cina di bonifici intermediati dalle società ungheresi, mentre il secondo viene trasferito con modalità meno tracciabili». La Uif ha calcolato che soltanto in un biennio recente «sono stati accertati versamenti in contante superiori a un miliardo di euro sui conti correnti di alcune società ungheresi». Solo per dare l’idea dell’enorme volume di denaro che dall’Italia (e dall’Europa) vola verso la Cina in maniera illegale: e sempre in euro. D’altronde l’Ungheria ha un rapporto “speciale” ormai da diversi anni con la Cina. Nel 2020 l’interscambio commerciale ha avuto una crescita del 14,4 per cento arrivando a 10 miliardi di euro. Allo stesso tempo la Cina è diventata il primo Paese per investimenti esteri in Ungheria. Il tutto grazie ad accordi bilaterali tra Orban e Xi Jinping: come quello sulla zona pilota per il commercio online transfrontaliero di Ganzhou, nel Jiangxi, e la Central European Trade and Logistics Cooperation Zone, situata in Ungheria. Un accordo di cooperazione che prevedeva l’avvio di 1.000 treni merci tra Cina ed Europa: per la precisione da Ganzhou a Budapest. I lavori per il nuovo collegamento ferroviario con Belgrado sono iniziati. Si tratta di un appalto da 1,75 miliardi di euro per la costruzione del tratto ungherese di 150 chilometri: la gara è stata vinta da un consorzio cino-ungherese composto dalla RM International e dalla China Railway Electrification Engineering Group, cioè le ferrovie cinesi. Il governo ungherese si è impegnato a finanziare i lavori per l’85 per cento tramite un prestito dalla banca cinese Exim: l’obiettivo è migliorare la linea Atene-Skopje-Belgrado-Budapest. Così le merci arriveranno nel porto di Atene (il Pireo diventato un hub cinese) e raggiungeranno velocemente il cuore dell’Europa.Ma non finisce qui. La Cina sta finanziando anche la realizzazione del più grande polo universitario ungherese. A pochi passi dalla stazione di Kozvagohid sta sorgendo l’ateneo Fudan, che ospiterà 8 mila studenti e 500 accademici. Un progetto da 1,5 miliardi di euro: 1,3 miliardi li finanzierà sempre la banca cinese Exim come prestito. E cinese è anche l’azienda che ha vinto l’appalto: la China State Construction Engineering Corporation. Un gruppo finito nella black list del Dipartimento di Stato americano perché sospettato dagli Usa di spionaggio in Etiopia. Sul Fudan e i rapporti di Orban con la Cina ha acceso i riflettori il portale investigativo ungherese Direkt36, che ha intervistato esperti ed ex funzionari ungheresi. La conclusione è che oggi Budapest sia «il cavallo di Troia della Cina in Europa». Il Fudan, in Cina, è considerata una scuola di formazione del Partito comunista cinese. E adesso aprirà una sede “distaccata” in Ungheria. In questa inchiesta il giornale online ricorda anche l’iniziativa Hungarian Residency Bond Program del 2012, che ha consentito a 20 mila cinesi di diventare cittadini ungheresi, quindi europei. E i funzionari ungheresi del controspionaggio, oberati di pratiche, non hanno fatto praticamente alcuna verifica. Ma c’è di più: la Cina ha ufficializzato che consentirà la ripresa dei tour di gruppo in 20 Paesi. E in Europa c’è solo l’Ungheria, la porta di accesso di Xi Jinping nell’Ue che si sta sempre di più indebitando con Pechino.
Ora, perché lo fanno? Il sospetto è che l’obiettivo fosse studiare il velivolo, probabilmente per capirne appieno le potenzialità tecnologiche e poi copiarlo. Ma la domanda cruciale è un’altra: perché una società di Hong Kong porta un drone a Shanghai? La risposta la si ritrova negli atti dell’inchiesta: «La vera proprietà della società era cinese». Secondo la ricostruzione fatta dalla Guardia di Finanza, infatti, l’azienda Mars Information che aveva acquistato Alpi era di proprietà della Crrc Group, «a sua volta – scrive la Procura nell’avviso di conclusione delle indagini – controllata al 100 per cento dal SASAC (State owned Assets Supervision and Administration commission of the State Council), ovvero la commissione per la supervisione e l’amministrazione dei beni di proprietà dello Stato cinese. E della Wuxi, azienda del comitato di gestione della zona di Wuxi». Dove, secondo quanto emerge dalle indagini, «era previsto un trasferimento di know how e tecnologia italiana alla società cinese da svilupparsi mediante la realizzazione di una nuova struttura produttiva proprio nella città di Vuxi, nella quale avrebbe dovuto essere incardinata anche la produzione dei droni militari». Dunque, si potrebbe così riassumere la vicenda: i cinesi stavano provando a rubarci un’avanzata tecnologia per realizzare dei droni militari. Lo facevano tramite un complesso sistema di scatole societarie che partiva da Roma passava per Hong Kong e finiva a Pechino. Per questo ora rischiano il processo in sei: tre cinesi e tre italiani, i proprietari della Alpi. Che è rimasta in mani italiane anche perché, insieme con l’inchiesta della magistratura, è arrivato il Governo con il Golden power a bloccare l’operazione. ***Ma la questione è assai più interessante di una vendita bloccata di un’azienda che produce droni. Perché negli atti dell’inchiesta è depositato un verbale che spiega molto della strategia cinese. E che documenta come l’operazione Alpi fosse soltanto un tassello di un piano ben più ampio. A spiegarlo è un manager italiano, Riccardo Maria Monti, un passato da presidente dell’Ice, l’Istituto di commercio estero, e un presente su molti tavoli, anche della politica. Monti in qualche modo segue l’operazione Alpi e viene ascoltato come testimone (non è mai iscritto nel registro degli indagati) dalla Finanza.«Durante l’Expo del 2015 a Milano da presidente dell’Ice ho assistito moltissime delegazioni estere. La Cina aveva ben tre padiglioni: uno ufficiale del governo, uno della città di Shanghai e un altro fatto da un gruppo di aziende che intendevano farsi conoscere in Europa. ll manager di questo padiglione era il signor Wei», l’uomo che secondo la procura di Pordenone ha gestito l’affare Alpi. Monti racconta di aver fatto una serie di incontri istituzionali, «la Cina voleva rilanciare la sua economia e intendeva passare da una basata sulle esportazioni a una sui consumi, motivo per cui le aziende cinesi avevano cominciato a investire all’estero. Andammo in visita ufficiale in Cina, con il sottosegretario Ivan Scalfarotto e incontrammo anche il capo di Wei, mister Zang che credo fosse il numero uno di una delle maggiori aziende cinesi».«Wei – continua Monti – mi contattò ad aprile 2016 e mi disse che un gruppo di aziende che avevano partecipato all’Expo avevano creato un fondo di investimento e avevano lanciato una grande campagna di investimenti in Europa: in Repubblica Ceca avevano speso oltre 2 miliardi comprando la principale birreria, grandi immobili, la squadra di calcio dello Slavia Praga e altri assets come un’assicurazione». Monti giura che non sapesse nulla del rapporto di mister Wei, «che noi chiamavamo Richard», con il governo cinese. «Mi ha raccontato di essere stato un funzionario del partito a Shanghai per poi aver riorientato la sua carriera come top manager. Percorso tra l’altro molto comune nel sistema cinese».Bene. Wei, ripresi i contatti con Monti, gli chiede di costituire una società in Italia, la Ccui Europe. «Doveva servire a supportare lo sforzo degli investitori cinesi in un processo di investimento che immaginavamo molto ambizioso perchè si parlava di comprare grandi immobili, alberghi e aziende nel mondo dell’alimentare e della moda, oltrechè in quello informatico. Lo sforzo era prevalentemente logistico, di accompagnamento delle delegazioni che arrivavano». La Cina, dunque, crea delle scatole vuote in Italia per acquisire aziende. Sì, ma quali? «Ci focalizziamo su due principali investimenti: la Green Holding Milano, società attiva nelle tecnologie ambientali e trattamento delle acque e dei rifiuti. E Almaviva, una delle principali società informatiche». Almaviva è una dei fiori all’occhiello dell’innovazione tecnologica in Italia. Partner delle principali aziende del Paese nonché del nostro Governo. E, prima della pandemia, era un obiettivo del governo cinese. Le due operazioni, poi, racconta Monti saltarono perché il flusso di denaro che doveva arrivare da Pechino si interruppe.«Quello – ragiona oggi il manager conRepubblica- era un momento nel quale si guardava con speranza e non con paura agli investimenti cinesi. Io, davvero, non ho mai sospettato che dietro “Richard” ci fosse il Governo. Io poi della vicenda Alpi non ne ho mai saputo nulla: era un’azienda che non fatturava nulla, quando ho saputo che l’avevano valutata quattro milioni…». ***Il porto di TarantoIl modello di intervento, dunque è chiaro. Ecco perché oggi in molti sono preoccupati da quanto sta accadendo al porto di Taranto, uno snodo cruciale della sicurezza dell’intero Mediterraneo. Per capire la posta in gioco è necessario fare un passo indietro. Da tempo l’Italia è al centro del progetto della “Via della Seta”, la strada via mare che nelle ambizioni del governo di Pechino dovrebbe consentire alle merci di arrivare dall’Asia in Europa. Il Mediterraneo è l’hub finale del tragitto. Dunque il più importante. Per questo i cinesi avevano comprato il porto del Pireo (in Grecia è possibile acquistare direttamente l’infrastruttura) e avevano progettato diversi investimenti in Italia, a Taranto e a Trieste. In Puglia la questione è però particolarmente delicata perché, a pochi chilometri dal porto commerciale, c’è la base Nato oltre alle navi delle Nazioni unite. «Si tratta» spiega una fonte della nostra intelligence, «di uno degli snodi cruciali della sicurezza del Mediteiraneo. Dunque, dell’Europa». È evidente che, in un quadro del genere, l’arrivo delle aziende cinesi crea qualche timore. Visto il collegamento che hanno con Pechino.Due anni c’era stato un antipasto. Il gruppo Ferretti – accolto con tutti gli onori dal governo Conte e in particolare dal sottosegretario alla presidenza, il tarantino Mario Turco – ha preso in gestione una banchina del porto per realizzare un cantiere per la realizzazione di yacht e navi di lusso. Ferretti è uno storico marchio della cantieristica italiana ma da qualche anno è passato in mani cinesi. «Non c’è alcun rischio» aveva rassicurato tutti Sergio Prete, presidente dell’Autorità portuale assai stimato proprio in Cina per le sue doti di manager. Proprio l’ente che gestisce lo scalo di Taranto sta però per assegnare una nuova concessione, per un’area ancora più strategica rispetto a quella assegnata a Ferretti. Sono circa 150mila metri quadrati di piattaforma logistica e sono stati aggiudicati a una società, Progetto Internazionale 39, assai particolare. La storia è singolare: ne hanno parlato per primila Verità e Formiche,se ne stanno interessando almeno tre ministri del governo Meloni e presenta, comeRepubblicaha potuto verificare, molte stranezze. Innanzitutto nei tempi: il 10 settembre la società presenta all’Autorità portuale di Taranto la richiesta di utilizzare un’area di 132.171 metri quadrati che «si occuperà di movimentazione e stoccaggio di merci e container». È un’operazione importante che però si offre di fare un’azienda senza alcuna esperienza e stabilità finanziaria. Ha un capitale sociale da 10mila euro e soprattutto fino a dieci giorni prima faceva tutt’altro. Il 30 agosto il notaio Domenico Russo di Roma aveva depositato il cambio di denominazione della società: Progetto Internazionale 39, «società che ha per oggetto l’esercizio di attività di tipo energetico, trasporti, concessioni, logistico» era la Pumma srl, un’azienda che curava una catena di pizzerie. In comune le due compagnie hanno soltanto il commercialista, Tommaso Celletti, che risulta proprietario del 33 per cento della Progetto Internazionale 39, che ha sede nel suo ufficio di piazzale Clodio (come la Pumma, tra l’altro). Ma il nome più interessante nella compagine è quello di Gao Shuai, che è proprietario di un altro 33 per cento della Progetto, imprenditore molto conosciuto in alcuni ambienti finanziari: è la cintura di trasmissione di molti affari tra l’Italia e il governo cinese, per cui ha lavorato.Dunque, a Taranto arriva una società senza alcuna esperienza specifica. Con un commercialista e un imprenditore amico del governo cinese come proprietari. Sembra di leggere la storia di Alpi Aviation.***Gli altri acquistiD’altronde, non c’è da meravigliarsi. Come si diceva, nell’ultimo biennio si è registrato il numero record di veti e prescrizioni (496 notifiche solo nel 2021) imposti da Palazzo Chigi sfruttando il cosiddetto golden power per proteggere gli asset strategici. E la maggior parte sono stati fatti proprio per proteggersi dalla Cina. C’è il caso del 5G con il Viminale che ha escluso dai bandi Huawei e Zte: troppo rischioso affidare le proprie reti di comunicazione a una società che – seppur i manager giurano assoluta indipendenza – hanno i server in Cina. Non solo: Zte avrebbe anche partecipazioni dirette del governo cinese. Per questo entrambe le aziende sono state inserite nelle black list statunitensi perché considerate una minaccia per la sicurezza nazionale per la potenziale presenza di backdoor nelle apparecchiature che consentirebbero di compiere atti di spionaggio. L’intelligence italiana ha poi lanciato un allarme specifico sulle Startup e sugli investimenti su ricerca e sviluppo, sui quali la Cina avrebbe puntato proprio per dribblare le tagliole del Golden Power: con i nostri Atenei in costante penuria di fondi, il terreno è molto fertile.Repubblica in questi mesi ha condotto un’inchiesta con Datenna, azienda olandese che monitora i movimenti delle compagnie cinesi tramite fonti aperte (Osint – Open source intelligence). Datenna ha individuato una serie di acquisizioni di aziende strategiche da parte di compagnie cinesi, le quali a loro volta sono collegate in vari modi con il governo. La maggior parte di queste compravendite sono state bloccate o, comunque, regolamentate in modo stringente grazie al golden power. In taluni casi, però, il sistema di autoprotezione non è ancora intervenuto.Il Viminale ha escluso dai bandi del 5G le società Huawei e Zte perché ha considerato rischioso affidare ad aziende cinesi le reti tlc