la Repubblica, 2 aprile 2023
Intervista a Neil deGrasse Tyson
«Non siamo noi a vivere nell’Universo. È lui che vive dentro di noi, grazie agli atomi di cui siamo fatti». Benvenuti nell’Universo di Neil deGrasse Tyson, astrofisico, star della tv americana e oggi coautore (gli altri sono due scienziati di Princeton, Michael A.
Strauss e J. Richard Gott) di un libro in uscita in Italia.Benvenuti nell’Universo. Tour astrofisico
(Hoepli) è appunto un viaggio alla scoperta di quanto abbiamo capito (vita e morte delle stelle, il nostro sistema solare, i buchi neri) e di quanto c’è ancora da scoprire (altre forme di vita intelligente, il nostro destino e quello del cosmo…). A fare da guida, in molti capitoli, è proprio deGrasse Tyson che esibisce qui il suo talento di scienziato-divulgatore, capace di suscitare meraviglia, curiosità e divertimento anche quando c’è da spiegare un numero come 100 miliardi: «Prendiamo 100 miliardi di hamburger e disponiamoli in fila uno di seguito all’altro.
Cominciamo da New York City, e andiamo verso ovest. Arriveremo a Chicago? Certo… Arriveremo fino alla Luna, e ritorno, con gli hamburger impilati (alti 5 centimetri ciascuno) dopo aver già fatto 216 volte il giro del mondo». È questo lo stile che ha reso deGrasse Tyson una celebrità.
Laurea a Harvard, specializzazione a Princeton, dirige l’Hayden Planetarium di New York, dove tutto cominciò nel 1967.
Professor deGrasse Tyson, come è iniziata la sua passione per le stelle?
«È stato l’Universo a trovare me, non il contrario. Avevo nove anni quando visitai l’HaydenPlanetarium. Ero cresciuto in città, dove l’inquinamento luminoso e quello atmosferico impediscono di vedere le stelle. Quando al planetario ci fecero reclinare le poltrone, si spensero le luci e comparvero le stelle, ero convinto che quello che ci stavano mostrando fosse falso, uno scherzo. Invece era vero, e bellissimo. La conferma la ebbi quando con la famiglia lasciammo la città e potei vedere per la prima volta il cielo notturno in campagna. A undici anni trovaiuna risposta alla classica domanda che si fa a tutti i bambini: cosa farai da grande? L’astrofisico».
Qual è il segreto per raccontare al grande pubblico i misteri dell’Universo?
«Studio e lavoro. Quando devo affrontare il pubblico, penso ai meccanismi mentali dello spettatore, a come il suo cervello riceve ed elabora le informazioni.
Non basta fare delle belle lezioni: occorre essere, oltre che dei bravi docenti, degli educatori. Perché l’educatore studia cos’è che contadi più per chi ascolta, plasma l’informazione attraverso la scelta delle parole, delle frasi, della sequenza delle informazioni, del tono della voce. Il tutto per massimizzare il piacere della ricezione, dell’assorbimento e magari far venire voglia, in chi ascolta, di raccontarlo ad altri. Ho affinato la tecnica attingendo dalle mie esperienze quotidiane: se viaggio in aereo e il mio vicino di posto scopre che sono un astrofisico, subito mi fa una domanda… Quando inizio arispondere guardo l’interlocutore per capire se mi segue o se si distrae, se appare annoiato o interessato. E modifico l’informazione di conseguenza. Ho speso molto tempo a costruire una ideale cassetta degli attrezzi, che ora porto sempre con me. Di volta in volta scelgo l’utensile migliore per comunicare».
Ricorda il suo esordio in tv?
«Guardavo le lenti della telecamera davanti a me, ma non riuscivo a immaginare il pubblico a casa. E allora misi sulla telecamera un post-it con una faccina sorridente, pensando che fosse il mio pubblico. Ora non ne ho più bisogno».
Di tutte quelle che ha raccontato, quale indicherebbe come la scoperta più importante nella storia dell’umanità?
«Abbiamo scoperto che gli atomi di cui sono composti i nostri corpi derivano dalla fusione termonucleare avvenuta nel centro di stelle vissute miliardi di anni fa. Quando queste stelle sono morte ed esplose hanno sparso tali atomi nella galassia, creando nuove generazioni di nebulose gassose, dalle quali sono nati sistemi solari e planetari come il nostro. Su uno di questi pianeti è comparsa la vita e noi stessi.
Dunque noi siamo, non solo poeticamente ma prosaicamente, polvere di stelle. Guardare il cielo di notte e pensare che noi stessi siamo parte di quell’Universo, e non qualcosa di separato, è il modo giusto di concepire il nostro ruolo.
È una scoperta scientifica che confina con la spiritualità. E uno dei pilastri fondamentali su cui si basa la conoscenza».
Quali sono gli altri?
«Abbiamo scoperto che l’Universo ha avuto un inizio. E che è stato molto tempo fa, assai prima dellanostra comparsa. Poi abbiamo scoperto che noi umani abbiamo una parentela genetica con tutte le forme di vita presenti sulla Terra: abbiamo un dna, così come ce l’ha un filo d’erba, una medusa, un verme o un batterio. Non siamo qualcosa di distinto e separato dagli altri esseri viventi, anzi il codice genetico è simile e le parti in comune aumentano più si è vicini sull’albero della vita. Infine il pilastro fondamentale: abbiamo il potere della mente per capire tutto questo, per comprenderel’Universo».
Siamo l’unica specie sulla Terra a porci delle domande. È questo a renderci intelligenti?
«Ce lo diciamo da soli. Ma guardando alle minacce che rivolgiamo alla Terra e ai nostri simili, alle guerre, ai confini che tracciamo e alle barriere basate sul colore della pelle, beh dei visitatori alieni potrebbero concludere che non c’è traccia di vita intelligente sulla Terra».
Tra le minacce più urgenti c’è la crisi climatica. Cosa pensa dell’incapacità della politica di trovare soluzioni?
«Le soluzioni non vanno trovate, le abbiamo già. Sappiamo già come generare energia in modo alternativo alla combustione dei fossili. E poi c’è un equivoco: non dobbiamo farlo per salvare la Terra. La Terra continuerà a esserci con o senza di noi, indipendentemente da quello che faremo. Il vero obiettivo è salvare noi stessi».
Lei è nato nel Bronx. Spesso le viene chiesto se la sua carriera sia un esempio per i giovani afroamericani.
«E io rispondo che un astrofisico nero che dirige il planetario di New York deve essere di esempio anche per i bianchi, contro gli stereotipi.
Quando ero al college mi dicevano: dovresti fare l’atleta. E io rispondevo: no, voglio fare il fisico.
Ma no, saresti un atleta fortissimo.
Non era razzismo esplicito, come quello che avevano sperimentato i miei genitori, ma creava comunque una forte resistenza alla realizzazione delle mie ambizioni. Se non avessi avuto l’energia per vincere quelle resistenze, non so cosa farei oggi, certamente non sarei un astrofisico».