il Giornale, 2 aprile 2023
Contro l’élite della (non) cultura
Esempio. Il quotidiano La Stampa, 60mila copie vendute, che corrispondono allo 0,1 per cento degli italiani, scrivendo un pezzo sui giovani che cambiano sesso, una percentuale ancora più irrilevante nel Paese, nella titolazione invece di scrivere «ragazze» usa la perifrasi «persone assegnate femmine alla nascita». La pretesa, da parte di un minuscolo gruppo di opinione, di dettare i grandi temi della discussione pubblica – che in realtà toccano solo le redazioni dei giornali, gli editor delle case editrici o i talk show televisivi – è uno splendido caso di studio a proposito della sempre più intollerabile e intollerante dittatura delle minoranze. Quanti lettori della Stampa, i quali sono una percentuale minuscola dei lettori di quotidiani, i quali lettori di quotidiani sono una nicchia insignificante tra i cittadini italiani, sono davvero preoccupati del fatto che usare le parole «ragazza» o «donna» sia offensivo per chi è nato femmina ma non si sente tale? Le grandi battaglie per i diritti civili esplodono quando, dietro le rivendicazioni, ci sono milioni di persone che si sentono minoranza e vivono una discriminazione reale. Il resto sono mode intellettuali. Come usare l’asterisco o lo schwa. O intestardirsi a usare la cosiddetta duplicazione retorica dei due generi – «cittadine e cittadini...» – invece del più efficace, e per nulla discriminatorio, maschile sovraesteso, come insegna l’intoccabile Costituzione, che parla di «cittadini» e basta. Come intestardirsi nel volere cancellare toponomastica e monumenti legati al Ventennio, invece di chiedersi in che modo tentare culturalmente una reale pacificazione nazionale, senza abbassare la guardia davanti al minimo rigurgito postfascista ma senza neppure lisciare il pelo, a ogni giro, all’antifascismo «a gettone», strumentale, «l’antifascismo prêt-à-porter», quello buono per tutte le stagioni e alla fine del tutto depotenziato. O come chiudere gli occhi – «la cancel culture non esiste....» – di fronte alle pazzie censorie, inquisitorie, manipolatrici degli opposti estremismi americani, i repubblicani ultraconservatori così come i democratici ultraliberal, Trump vs «Woke!», che chiedono e ottengono di non mostrare in classe il David di Michelangelo nella sua nudità assoluta, o di ritirare i libri sul gender dalle biblioteche scolastiche, o di togliere la parola «nigger» dai romanzi di Mark Twain e di Norman Mailer, o di ritoccare le pagine (presunte) razziste o omofobe o sessiste di Ian Fleming o di Roald Dahl o di Agatha Christie, in nome di una malintesa «sensibilità moderna». O come difendere, fino all’incostituzionalità, un disegno di legge come quello del deputato Alessandro Zan che voleva silenziare la libertà di opinione, di educazione e di pensiero della maggioranza in nome della difesa delle minoranze. A proposito. La scrittrice J.K. Rowling è stata violentemente accusata di essere transfobica dalla piccola ma potentissima comunità LGBTQ – altro insieme di organizzazioni che brandiscono il loro essere minoranza come un clava – perché ha ribadito una ovvietà: quelle che loro chiamano «persone con utero» sono in realtà, semplicemente, «donne». Ecco un’autrice bestseller, amata da centinaia di milioni di lettori (le copie vendute dei suoi libri dovrebbero sfiorare il mezzo miliardo nel mondo) messa sotto scacco mediatico da un pugno di fanatici che sventolano la correttezza politica come unica bandiera di giustizia sociale, emancipazione e libertà. Proprio lei, J.K. Rowling, sarebbe stata perfetta – lo scriviamo sapendo delle difficoltà estreme di averla come ospite – per aprire il Salone del libro di Torino, il prossimo maggio, con una lectio introduttiva sul valore assoluto della libertà di parola. Avremo invece la scrittrice premio Nobel Svetlana Aleksievic, madre ucraina e padre bielorusso. E, naturalmente, va benissimo così. Ma è un peccato che la libertà di parola, di scrittura e di idee – da cui tutto il resto dipende – non sia centrale nella maggiore manifestazione culturale del Paese. L’assoluta moralità dell’arte è proprio quella di non avere moralità. E poi c’è la libertà di satira. Ormai a rischio. Siamo #CharlieHebdo a giorni (e giornali) alterni. Le vignette che mettono nel mirino politici (di destra o di sinistra) e giornalisti (di Repubblica o della Verità) si condannano o si accettano a seconda colpiscano l’area di appartenenza culturale o quella avversaria. E a montare la canea sulla stampa, nei talk o sui social è sempre la minoranza che si sente più offesa in quel momento. E addio anche alla secolare tradizione bipartisan di provocare, pungere e ferire anche nel profondo dell’animo umano. Però, attenzione: spuntare la matita della satira è pericoloso. Le idee, le religioni, i leader e i pensatori più forti sono proprio quelli in grado di tollerare la risata su se stessi. È strano, poi. A rivendicare con maggiore forza l’inclusione e la difesa delle minoranze sessuali, etniche e religiose non è mai la maggioranza degli elettori, dei cittadini o al più dei consumatori. Ma le grandi aziende multinazionali oppure élite ristrette di attivisti e di intellettuali. Di più. Oggi nel libero e democratico mondo dei giornali, del web, dell’editoria, dell’università e dei social network, i peggiori biblioclasti, i «silenziatori» di opinioni sgradite, gli abbattitori di statue e i censori dei classici – chissà perché – sono sempre gruppi ristretti di professori, studenti, lettori forti, direttori di musei, critici, editorialisti... Il politicamente corretto e la cancel culture sono movimenti che provengono dall’alta accademia, dai grandi giornali e dai college anglosassoni, non certo dalle immense retrovie «analfabete» alla periferia del mondo... Dal modo di parlare a quello di scrivere, dai gusti letterari (quella scrittrice sì, al netto del talento, perché le donne sono state a lungo discriminate; Peter Pan di J.M. Barrie no perché contiene stereotipi di genere; le opere di William Burroughs «ni», perché sono importanti ma comunque lui ha sparato in testa alla moglie...) a quelli musicali (l’Aida di Verdi no perché complice del colonialismo, la Carmen sì ma solo se cambiamo il finale), il «sistema culturale» chiede di regolare tutto in funzione delle minoranze. Che, a pensarci bene, è un’immensa contraddizione rispetto all’universalità della letteratura, della musica, dell’arte.