Domenicale, 2 aprile 2023
Nuovo trattato sulla biodiversità
Ci sono trattati e trattati, convenzioni, accordi bilaterali e internazionali. Alcuni passano alla storia, vengono continuamente citati, come il Trattato di Versailles (1919), o la Conferenza di Yalta (1945), e fanno parte della cultura popolare. Altri, di non minore importanza, sembrano voler vivere una vita sotto traccia. Per esempio, nessuno celebra la data del 16 novembre 1993, a quanto ne so. Quel giorno si produsse un evento che non riuscì a farsi annunciare sulla prima pagina dei quotidiani (e nemmeno venne ricordato nelle pagine interne): la Guyana firmò la Convenzione delle Nazioni Unite sulla Legge del Mare (Unclos, dall’acronimo del nome inglese); e in quanto 60° stato ratificante, come richiesto dalla Convenzione conclusasi nel 1982, permise a quest’ultima di entrare in vigore.
Per l’Italia, come per molti altri Stati, si trattò di un evento con conseguenze enormi. Il suo territorio (di 301mila chilometri quadrati) venne aumentato di 542mila chilometri quadrati. Certo, originariamente non si pensava che le Zone Economiche Esclusive che si estendono nel mare fino a duecento miglia dalla linea di base della costa fossero dei territori a pieno titolo, ma l’interpretazione territoriale o quasi-territoriale viene sempre di più confortata da carte geografiche e prese di posizioni pubbliche.
Di fatto, con l’entrata in vigore dell’Unclos, un terzo dell’oceano mondiale viene inghiottito nominalmente dagli stati costieri; l’alto mare scompare dal Mediterraneo; gli Stati ex-coloniali (tra cui Francia, Spagna, Gran Bretagna e Portogallo) che hanno mantenuto dei capisaldi oceanici si ritrovano con immense aree sotto la propria giurisdizione; e stati molto «terrestri», ma con poca esposizione marina, quali la Cina, guardano con interesse alle debolezze e instabilità politiche del Pacifico, in cui gli i «piccoli stati isolani» come Tuvalu si ritrovano a essere «grandi stati oceanici».
Si noterà che gli Stati Uniti fanno parte degli Stati che hanno firmato ma non ancora ratificato Unclos; la Turchia, per via di controversie con la Grecia, non l’ha nemmeno firmata (in compagnia di Israele, Siria, Perù e anche San Marino).
Unclos introdusse il termine di «zona» per designare l’alto mare al di là delle giurisdizioni nazionali. Il nome fa l’effetto di un romanzo di fantascienza postapocalittico, e se si guarda che cosa avviene nella Zona non si è lontani dalla fantascienza. È sottile il confine mentale tra il patrimonio comune dell’umanità e la terra di nessuno, tra il santuario biologico e la miniera depredabile. Di fatto considerata libera per chiunque, marinai, pescatori e minatori dei fondi marini, la Zona ha incarnato l’ideale groziano di libertà dei mari: un universo pensato come inesauribile e non delimitabile, dove chi primo arriva meglio alloggia, e dove chi prende non fa danno agli altri.
Ben presto ci si è accorti che la zona poteva diventare il catalizzatore di molte crisi: l’inquinamento in particolare da plastiche sempre più frammentarie e insidiose, il riscaldamento planetario, l’eutrofizzazione, l’acidificazione, la pesca non regolata e il saccheggio dei fondali marini. Al di fuori delle giurisdizioni nazionali esiste solo un consorzio dell’Onu, la International Seabed Authority, basato a Kingston in Jamaica, che attribuisce delle licenze di estrazione dai fondi marini, dal funzionamento discusso in quanto parzialmente finanziato dall’industria mineraria che dovrebbe regolare.
Fanno particolarmente gola i noduli polimetallici del Pacifico, un tesoro enorme il cui sfruttamento viene oggi presentato come ineluttabile per la transizione energetica (pensiamo al litio per le batterie degli incongrui Suv elettrici).
Ci sono voluti vent’anni di ricerche e diverse tornate negoziali, ma alla fine la comunità internazionale, in uno sprazzo di multilateralismo assai lodevole coi tempi che corrono, si è messa d’accordo a inizio marzo 2003, sotto la Presidenza di Rena Lee (Singapore) su un testo per una convenzione che regoli l’attività umana nella Zona, il trattato Bbnj (Biodiversity Beyond Natural Jurisdiction). Ci vorranno anni perché il trattato venga ratificato. Ma intanto il cambiamento di tono è percepibile rispetto a quello dell’Unclos: se Unclos si affacciava soltanto sulle crisi ambientali e sociali, il trattato sulla biodiversità ne è investita in pieno. I suoi quattro pilastri sono lo sfruttamento delle risorse genetiche marine, compresa la condivisione dei benefici da parte di Stati non costieri; lo sviluppo di strumenti per la protezione della biodiversità marina, in particolare le Aree Marine Protette (Amp); la richiesta di valutazioni dell’impatto ambientale di nuove attività umane in alto mare; e lo sviluppo di capacità e trasferimento di tecnologie marine ai Paesi in via di sviluppo.
I dettagli della messa in opera sono demandati a un futuro lavoro di collaborazione, ma va segnalato che si sia raggiunto un primo consenso multilaterale, che mette Bbnj sul piano dei grandi trattati sull’Antartide, sulla pesca delle balene, e sui clorofluorocarburi. Nessuno strumento è perfetto, e lo stesso Bbnj non menziona se non di passaggio la pesca, ma si tratta di un primo, necessario approdo.