La Lettura, 2 aprile 2023
Su "La suprema inchiesta" di Alberto Casadei (il Saggiatore)
«La sfida è trovare forme stilistiche adatte a questi mezzi, inventarsi una sintesi in cui, per esempio, scrittura, musica, elementi visuali non siano solo giustapposti ma cooperino. Una sfida che è anche sociale. Il rischio che l’arte diventi sempre più commerciale, addomesticata, è già reale, ma abbiamo ancora le potenzialità per creare opere originali. La fusione di elementi molto diversi, già presenti nel web, darà presto vita a nuove forme artistiche». Era il 14 gennaio 2018 e, presentando su «la Lettura» il suo libro Biologia della letteratura (il Saggiatore), Alberto Casadei parlava da critico postosi di fronte al possibile impatto dei nuovi mezzi tecnologici e dei contenuti digitali — rischi, ma anche possibilità — sulla creazione artistica. Non solo: ragionava da studioso che da diverso tempo ormai coniugava l’analisi letteraria alle neuroscienze, arrivando alla conclusione che ciò che per secoli ha reso tali le opere d’arte sia in primo luogo lo stile. Nel frattempo l’italianista, ordinario all’Università di Pisa, si è messo in gioco in prima persona. Dalla teoria alla pratica, accettando lui stesso la sfida e scrivendo La suprema inchiesta, romanzo in uscita dal Saggiatore il 7 aprile.
Un’opera affascinante di per sé, oltre a quello che, come vedremo, è il rapporto con il percorso critico di Casadei. Pagine (e non solo, c’è anche un video) attraverso cui veniamo posti di fronte all’universale tema del nostro continuo cercare e, non di rado, al suo fallimento; allo scacco del desiderio umano, ancora e proprio oggi che tutto sembrerebbe, almeno virtualmente, raggiungibile. Al centro ci sono Angelo Consani, architetto che vuole costruire la Nuova Città Ideale; Livia Bianchi, sua moglie, vicequestore che non si piega alle logiche tradizionali delle indagini; la figlia Giovanna, di nove anni, che ama dipingere ma i cui disegni non sempre sono compresi; il figlio diciottenne Lorenzo, che prima crea con i compagni il blog «Gli accontentati», poi si lascia coinvolgere nei movimenti giovanili contro la finanza spregiudicata e in seguito in difesa dell’ambiente. Il tutto tra il 2010 e il 2011 in una Roma feroce e corrotta, dove la escort Bella di Rodi è stata uccisa vicino a Palazzo Grazioli.
La struttura narrativa all’inizio appare tradizionale, ma si lascia via via attraversare, persino interrompere, da movimenti imprevisti e frammenti improvvisi, inserti con fatti storici, allusioni politiche, riferimenti letterari, elementi grotteschi, fantastici, allegorici, richiami a immagini incluse anch’esse nel libro — tele di Monet e Kiefer, un progetto dell’architetto futurista Antonio Sant’Elia, la foto degli Indignados in Spagna... — accostate per analogia con quanto si narra. Quasi che il lettore, ricomponendo tutto questo, o almeno provandoci, dovesse inseguire anche lui la sua inchiesta. Intanto anche i piani temporali scivolano gli uni sugli altri, senza cadere comunque in un eccesso di sperimentalismo. «Il tentativo — spiega Casadei — è che le informazioni siano raccolte e date in modo fluido, molteplice e mobile, come nel cloud, la “nuvola” digitale in cui archiviamo e affianchiamo i più disparati contenuti. In questo senso la narrazione riflette il nostro tempo, le sue strutture conoscitive».
Ma non solo. L’idea non è tanto trasporre il cloud nella scrittura, quanto costruire un romanzo cloud: «Anche se siamo ormai entrati nella complessità della Rete, nell’era della giustapposizione e dell’accumulo di informazioni, cui la creatività può attingere, traendone energia, abbiamo però sempre bisogno che lo stile, le scelte linguistiche e narrative diano al contenuto letterarietà. E che in questo modo catturino la nostra attenzione, ci sollecitino, ci interroghino su una visione del mondo. Le nostre necessità, le propensioni biologico-cognitive, la sete di conoscenza e la domanda sull’esistenza sono sempre le stesse. Serve ancora una forma romanzo. Il problema è come costruirla».
In queste pagine Alberto Casadei, nel doppio ruolo di critico e scrittore, dialoga a partire da La suprema inchiesta, ma anche sulle possibili strade del romanzo, con altri due studiosi di letteratura contemporanea: Daniela Brogi, docente all’Università per Stranieri di Siena, uscita l’anno scorso con il saggio Lo spazio delle donne (Einaudi), specialista delle forme della narrazione anche nel mondo del cinema e delle arti visive, e Gianluigi Simonetti, che insegna all’Università di Losanna, autore nel 2018 de La letteratura circostante (il Mulino) e ora di Caccia allo Strega (Nottetempo, dal 21 aprile), un’analisi del romanzo italiano d’oggi a partire dall’osservatorio del più prestigioso premio letterario del nostro Paese.
Professor Casadei, come nasce «La suprema inchiesta»?
ALBERTO Casadei — Uno spunto è stato la riflessione sul romanzo contemporaneo e su quanto sia ormai invaso da immagini, da flussi, da tutto ciò che troviamo nella Rete. Naturalmente, essendo un testo solo scritto, fatica a inseguire una tale varietà. Così ho provato a cercare una mia soluzione. Come fanno numerosi romanzi cosiddetti massimalisti o epici, ho intersecato anche io molti spazi e tempi, tentando però di evitare uno schema ripetitivo o rigido, ma allargando le connessioni in maniera quasi casuale. Credo ci sia ormai la necessità di un romanzo che — magari partendo ancora dalla sua capacità di rappresentazione intera di una vita — vada poi al di là delle esistenze dei singoli personaggi, che estenda i confini. In questo senso, i fili narrativi che adotto sono talora un’imitazione di generi forti, come il giallo, nel caso dell’investigatrice Livia, o la storia di un inetto, nel caso del marito architetto, ma inframmezzati o in alternanza con scene e materiali inattesi, frutto di una ricognizione non stereotipata della nostra realtà. La tecnica è quella di un montaggio ispirato soprattutto dall’analogia, l’effetto probabilmente quello di un iper-romanzo, di un romanzo cloud.
GIANLUIGI SIMONETTI — La suprema inchiesta si inserisce coerentemente nel percorso di Alberto Casadei. In Biologia della letteratura si confrontava sia con la tradizione sia con il presente e il futuro dell’arte, della letteratura, dell’estetica, ponendo la questione, in particolare, di come la narrativa possa assorbire energia dalla Rete e proponendo già l’idea del cloud. Adesso affronta tutto questo da romanziere. E lo fa cercando un organismo ipertestuale: sia nel senso che non sia esclusivamente scritto ma dialoghi con le immagini, i video e il digitale in generale, sia nel senso che si rapporti con diversi generi e sottogeneri, come appunto il giallo o anche scritture di non-fiction. Caratteristiche queste ultime che ricorrono in parte della narrativa di oggi, come mostra appunto l’osservatorio dello Strega. Penso a La ferocia (Einaudi, 2014) di Nicola Lagioia, che è proprio un noir, o a La scuola cattolica di Edoardo Albinati (Rizzoli, 2016), che gioca anche con la letteratura di inchiesta e la cronaca nera. Oppure, fuori dall’Italia, a quello che fa Michel Houellebecq con la narrativa d’anticipazione e la fantascienza. Il che non deve del tutto sorprenderci, visto che il romanzo è da sempre un genere proteiforme, aperto all’ibridazione. Oggi questa caratteristica si mette spesso alla prova nel cosiddetto non-fiction novel, il romanzo che racconta fatti reali nei modi tipici della narrativa di finzione, del quale è capostipite Truman Capote e il cui mercato in Italia negli ultimi dieci anni cresce quanto quello della fiction.
DANIELA BROGI — Il bisogno di contaminazione è intrinseco alla nascita del romanzo moderno, dunque l’attuale ipertestualità è una spinta centrifuga coerente con il percorso di questo genere. Ciò che è interessante nel libro di Casadei è che non si tratta tanto di un’ipertestualità di tipo retorico o combinatorio alla maniera di cui già parlava Italo Calvino. Semmai, pur all’interno di un’opera certamente diversa, di un’ipertestualità più avvicinabile per esempio a Jennifer Egan: una sperimentazione plurale di forme, linguaggi e codici che costruiscono un ecosistema in dialogo con la contemporaneità e i suoi molteplici sguardi. Ancora sul romanzo nel contesto attuale, un’altra questione fondamentale riguarda il posto che ha nelle nostre esistenze, non solo nei manuali o negli studi accademici, ma proprio dentro la vita quotidiana: in metropolitana, in treno, nelle pause dal lavoro, in vacanza o la sera sul divano. In quelli, cioè, che erano gli spazi abitati dai libri e che invece adesso sono sempre più occupati dalle tecnologie, dalle comunicazioni social, dall’iPhone. Il che non significa che il romanzo e gli strumenti digitali siano solo in antitesi, perché noi di fatto continuiamo a cercare narratività, storie, anche se stiamo guardando Instagram. Però certamente siamo di fronte a mezzi e linguaggi che stanno rimescolando abitudini e forme della lettura nelle nostre vite.
ALBERTO Casadei — Il grande problema della forma romanzo oggi è trovare nuovi modi di gestire la sua spinta centrifuga, le ibridazioni, le relazioni con i sottogeneri, la visualità sempre più invadente. Spesso nei tentativi che si fanno c’è una giustapposizione di elementi, si mantiene la forma tradizionale e dentro ci si mette dell’altro. Il mio tentativo è stato invece, appunto, pensare in termini di cloud: nella nuvola non c’è un punto che rimane fisso e le varie connessioni tra informazioni, dati, contenuti si modificano da un momento all’altro. Ecco perché, partendo per esempio da un giallo apparentemente standard, lo rendo sempre più instabile, sperando che proprio questo intercetti una caratteristica del nostro tempo. Ci attrae sempre di più infatti ciò che in qualche modo rompe gli schemi mentali, qualunque cosa risulti varia, mutevole e ci costringa a ragionare. Il mio procedimento si può cogliere anche nel video che accompagna il libro, realizzato con l’artista Ilaria Mai. Quasi un «correlativo visivo», in cui abbiamo evidenziato alcuni elementi ispiratori del romanzo proprio come fossero nella «nuvola», cercando di ricreare l’incubazione che dà il via alla creazione artistica.
Quali sono le forme del romanzo oggi e le possibili prossime strade?
GIANLUIGI SIMONETTI — La salute della narratività in generale è ottima. Non ce n’è mai stata tanta come in quest’epoca dominata, a tutti i livelli, dallo storytelling. Il problema è appunto che tipo di romanzi si scrivono. Ne La letteratura circostante notavo come caratteristiche di questa fase soprattutto la velocità e la frammentarietà, molto legate all’audiovisivo, alla Rete, ai social. Il frammento ha una grande tradizione sperimentale, che affonda nel primo Novecento, ma quello di oggi è diverso, spesso aleatorio, consumistico. So che può sembrare in contraddizione con la circolazione di narrazioni lunghe come le saghe, ma non è così: sul modello delle serie tv, infatti, la loro ritmica è comunque serrata, spettacolare, con un linguaggio scorrevole, scelto per non creare problemi al lettore. Più in generale, nei romanzi contemporanei si nota anche una certa tendenza a escludere forme e strutture stratificate e a buttarsi su temi già acquisiti, di moda. Oggi ricorrono ad esempio figure di bambini sofferenti o donne forti; malattie, lutti, catastrofi naturali, traumi di vari tipi, come mostrano anche quasi tutti i titoli in dozzina allo Strega 2023. Il che non esclude a priori che, a partire da tali temi, nascano grandi romanzi, ma sono queste le linee di tendenza con cui dobbiamo confrontarci e che di solito rappresentano più una scorciatoia che uno stimolo.
DANIELA BROGI — È vero, assistiamo al riuso alla moda o persino talora parassitario di certi temi, come il trauma storico o individuale, ma non significa che non siano importanti, perché le storie — non banalmente come contenuti, ma come esperienze formalizzate in costruzioni di voci, intrecci, punti di vista — contano. La letteratura di cui spesso non si ritiene che sia prestigioso o significativo occuparsi dice questo, nel bene e nel male. Inoltre, a proposito di frammentarietà, l’attuale contesto è stato straordinariamente fecondo per i racconti. Penso ad Antonio Franchini, Francesco Pecoraro, Alessandra Sarchi, Rossella Milone... La scrittura d’autrice poi ha conquistato spazio: il mercato è pieno di libri di donne, e la cosa bizzarra è che ancora sembri strano. La tendenza della narrativa d’oggi a comporre opere ibride, come in una sorta di bricolage, ad esempio, l’avevano già sperimentata Lalla Romano nei suoi romanzi per immagini o Clara Sereni in Casalinghitudine (Einaudi, 1987), unendo narrazione e ricette di cucina. Mentre Anna Banti in Artemisia (Sansoni, 1947) operava già quella riscrittura delle biografie d’altri che ancora oggi è praticata, penso a Due vite di Emanuele Trevi (Neri Pozza, 2020) o Diario di un’estate marziana di Tommaso Pincio (Perrone, 2022). Infine, quanto alla prosa che sta diventando meno problematica, certe volte potremmo anche dire: finalmente! Siamo oltre una stagione che in alcuni casi aveva scambiato lo sperimentalismo per un iper manierismo formale e che finiva per uccidere la lettura come esperienza dell’altro e non solo del bello stile.
ALBERTO Casadei — La tendenza dei romanzi d’oggi non dovrebbe essere più il manierismo o una complessità quasi fine a sé stessa. Ma neppure solo gli schemi tranquillizzanti dei social o delle serie tv. Piuttosto, una «complessità buona», che scuota il lettore, lo «spaventi» senza però allontanarlo. Come critico, cerco i «picchi» all’interno di una letteratura circostante che oggi in genere varia di poco, ma in cui credo ci siano autori e opere di valore che si distinguono. Tra i possibili esempi, Mircea Cartarescu con la trilogia Abbacinante (1996-2007, edita in Italia da Voland, 2008-2018); Jonathan Littell con Le benevole (2006; Einaudi, 2007); Don DeLillo con Underworld (1997; Einaudi, 1999), in cui passato e presente si mescolano dentro una quête forte: la ricerca di una palla da baseball che diventa una sorta di nuovo Graal. Infine, Richard Powers con Il sussurro del mondo (2018; La nave di Teseo, 2019). Il titolo originale è The Overstory, evocativo di una storia che sta sopra la condizione umana, quella delle piante millenarie. Il romanzo è fondato su un montaggio di vicende tra loro lontane, e c’è sì il tema oggi ricorrente della natura, ma è problematizzato, interpretato. È a questo livello che si vede la differenza fra una serie tv anche ben fatta, fra un frammento bello sul web e la grande costruzione romanzesca. Magari adesso quest’ultima può essere in forma di cloud, ma a renderla significativa sono sempre le scelte narrative e di stile.
DANIELA BROGI — Le prime cento pagine de Il sussurro del mondo mi lasciano senza respiro. È proprio grandissima esperienza della felicità che può procurarti la letteratura. Ma vorrei menzionare anche un altro romanzo che per me è uno dei libri più belli dell’ultimo decennio: Il Re Ombra di Maaza Mengiste (2019; Einaudi, 2021), una straordinaria narrazione epica, una controstoria e una contronarrazione delle imprese coloniali italiane in Etiopia. L’autrice, nata ad Addis Abeba nel 1971, raggiunge questo risultato raccontando la vicenda di tre donne etiopi e, insieme, servendosi del repertorio di fotografie e filmati dell’Istituto Luce. Questo libro ha spostato il mio sguardo: ti stana, ti porta fuori di te.
GIANLUIGI SIMONETTI — Tornando infine all’Italia, un problema serio è il dilagare nei romanzi di una lingua sempre meno letteraria e organizzata: segno di un rapporto problematico con il passato culturale, di una rimozione. Di solito apprezzo chi nella lingua e nello stile mantiene un rapporto con la tradizione: non vuol dire per forza riprenderla, ma sapere che c’è stato qualcosa prima e scrivere cose che portino il segno di tale consapevolezza, come fanno oggi autori come Michele Mari, Walter Siti, Domenico Starnone. Un possibile antidoto all’estetica del frammento veloce, abitudine formale ormai troppo scontata, è leggere chi invece insiste su un’estetica dell’intero, su un’opera che sia tutta densa e compatta, in cui il come conti più del cosa. È sempre il congegno formale a dare senso e valore a ciò che leggiamo. Senza, qualsiasi storia, anche la più nobile, rischia di restare inerte, e quindi inascoltata.