il manifesto, 1 aprile 2023
Da "La mia Battaglia. Franco Maresco incontra Letizia Battaglia" di Franco Maresco (il Saggiatore)
Letizia, mi piacerebbe partire dalla follia. Dalla tua esperienza meravigliosa all’ospedale psichiatrico di Palermo, testimoniata in qualche superotto e video. Erano gli anni dell’antipsichiatria, c’era stato Basaglia. Tu sei venuta in contatto direttamente con quella che viene chiamata la malattia mentale, no? La malattia che si voleva isolare e tenere ai margini. Non credi tu che Palermo, la nostra città dannata che continuiamo a odiare e amare, sia la città più pazza d’Italia? Che la sua sia una follia radicata, antica? Non credi che tutti i siciliani siano pazzi, che amino girare sempre la «corda pazza», come la definiva Sciascia citando Pirandello. Dico la tua, la nostra Palermo…
Letizia Battaglia: Palermo mi sembra sia una città che soffre molto e che non è abbastanza pazza. Io vorrei che fosse più pazza, che reagisse di più e invece la sua è una pazzia silenziosa. Forse anche più malata. La follia all’ospedale psichiatrico era evidente, era là. Io mi ricordo che ero innamorata di loro, mi piacevano molto, li amavo. Mi ricordo che puzzavo sempre, che loro puzzavano, puzzavamo insieme. Li ho cercati veramente i pazzi, perché avevo bisogno di questo per sentirmi… [cerca le parole] persentirmi a posto. Palermo pazza… No, non è abbastanza pazza, perché sennò sarebbe per le strade, a urlare, a recriminare, a piangere anche. È silenziosa questa pazzia e mi piacerebbe che fosse più pazza, ecco.
E quindi, secondo te, questa nostra città non è abbastanza pazza?
Io non vivo un buon rapporto con Palermo. Sono delusa perché non ha abbastanza forza in sé. Io vedo tanti talenti in questa città, ma è pure vero che tanti se ne vanno oppure si arrendono. Sì, non è abbastanza pazza per reagire. Io sono stata un po’ pazza. La mia pazzia è stata un trampolino per amare di più, per conoscere di più. Palermo oggi mi è ostica. Oppure non è ostica, sono forse io che sono un po’ contro Palermo. Perché mi ha deluso, perché io volevo con loro – con la gente di Palermo – trovare uno sbocco, una felicità per la città, per il mare, per la gente, per i vicoli. E invece poi… C’è rimasta la lotta di pochi, di pochissimi, troppo pochi. (…)
Io a differenza di te sono pessimista, non ho creduto al riscatto di Palermo. E la prova definitiva l’ho avuta dal modo in cui questa città ha elaborato il dopo stragi…
Il dopo… ?
Parlo di quello che è successo dopo le stragi del ’92, di quella occasione epocale di reazione emotiva dei palermitani che portò qualcuno a sperare – probabilmente ci hai sperato anche tu – che la città potesse prendere finalmente coscienza di se stessa. Invece, dopo appena due anni, Berlusconi scese in campo. Palermo dimenticò le stragi e diventò berlusconiana. A quel punto molti fecero propria la considerazione di Sciascia. Si disse: «È una terra irredimibile». La follia di questa città non era follia. E, se lo era, mancava di creatività, di autentico abbandono. Ti chiedo: come la superi la tua delusione oggi, con quegli anni alle spalle? Quale altra occasione di riscatto potrebbe esserci, una volta elaborato l’orrore di quelle stragi? Perché dovremmo ancora sperare?
Al contrario di te io non sono pessimista. Sono addolorata, ma non pessimista. Io credo nella lotta, nella possibilità della lotta. Intanto possiamo sperare di scegliere i politici migliori per questa nostra terra, per questa Italia, perché è da lì che partono le cose. La nostra disgrazia parte da Roma e anche da tutto il resto dell’Italia. Perché siamo rimasti soli,dovevamo avvantaggiare dei partiti con i nostri voti ignoranti. Io ci credo che possiamo farlo, io non posso finire la mia vita senza credere. Difatti continuo a lavorare, continuo a partire, faccio una rivista di donne per le donne… Non voglio morire così, senza credere che Palermo possa diventare una città felice.
(…) C’erano due follie: c’era la follia che tu vivevi, quella umana, quella che era il risultato di soprusi, che era la repressione di innocenti – come tu li hai chiamati – e c’era però anche la follia criminale, quella dei corleonesi.
Che era una follia prepotente, era la mafia. E l’ho detta ’sta parola che non volevo dire! Era la mafia, la prepotenza e il potere politico colluso. Era Palermo che andava a fuoco.
Io, Franco Zecchin, Shobha e tanti altri fotografi eravamolì con quest’ansia ad aspettare che ci chiamasse il giornale per andare a documentare quell’orrore. E quando suonava il telefono, ognuno cercava di dire no. «No, questa volta non ci vado. Questa volta no». Perché era diventato molto angoscioso. Il mio archivio fotografico è anche un tesorodi vita e di bellezza, ma dentro questo archivio c’è [in un crescendo] tanto, tanto, tanto – è brutto dirlo – tanto sangue. Per questo era un conforto per me andare allo psichiatrico, perché la città era pesante. La stessa cattiveria che subivano quelli dentro lo psichiatrico, la subiva Palermo. La subiva per colpa di mille cafoni – non lo so se erano mille o diecimila – arrivati sia dai paesi sia dalla città stessa, che avevano l’obiettivo di impadronirsi della città e di tutto quello che di bello possedeva. Per cui abbiamo vissuto questi anni così… Però non smettevamo di sperare. No, non possono vincere loro, non possono. Non può vincere chi provoca tutto questo male.
Ma allora è il potere, quello della mafia e della politica, a essere la vera follia?
Non lo so. Non lo so più che cos’è la follia. Quello però era un calcolo. Un calcolo che in qualche modo è una follia. Perché è una follia che produce il capitalismo, che produce il potere, che produce il volere le cose. Il volere è follia. Ma una follia diversa dalla mia.