Corriere della Sera, 1 aprile 2023
Sergio Caputo celebra i 40 anni di "Un sabato italiano"
Quarant’anni fa «Un sabato italiano» fotografava il momento di passaggio fra gioventù ed età adulta con un indefinibile mix di leggerezza e malinconia, raccontando le notti inframmezzate da birre, amicizie, amori e sigarette. Sergio Caputo, in quell’aprile 1983, era lontano dall’immaginare che il suo primo album sarebbe diventato un classico della musica italiana, tanto da portarlo ora a festeggiare l’anniversario con un tour con big band, in cui suonerà tutto l’album più altri successi, che parte il 12 aprile dal teatro Lirico di Milano (data zero il giorno prima a Genova, poi 26 aprile a Roma e 28 a Napoli): «All’epoca ero un promettente art director di una grossa agenzia pubblicitaria, ma avevo l’hobby della musica che stava prendendo il sopravvento – racconta —. Facevo una vita spericolata, da vampiro. Di giorno lavoravo su progetti importanti e di notte giravo tra i locali in cui si suonava, assorbendo tutto».
L’età permetteva di non pensare al sonno perso: «Dormivo dalle 18.30 alle 23, mettendomi la sveglia. Poi con gli amici decidevamo l’itinerario della serata». In quel periodo «si respirava il sollievo dopo i conflitti e le paure degli anni 70», ricorda: «Ne è nato un album basato su emozioni elementari, sull’impazienza di vivere il futuro unita alla paura di buttarsi nel mare aperto. È un momento difficile da identificare, ma comune a tutti, senza agganci di circostanze o di tempo». Per questo, secondo Caputo, che oggi di anni ne ha 68, il disco non è mai invecchiato: «L’unico modo in cui mi spiego che un album degli anni 80 sia ancora attuale è che parla di cose che tutti possiamo provare».
Ai suoi concerti, il cantautore e chitarrista romano accoglie ormai diverse generazioni: «Ci sono adolescenti che sanno tutte le parole a memoria e anche intere famiglie. Non me lo sarei mai aspettato». Caputo non immaginava neanche che avrebbe fatto il musicista per tutta la vita, con una solida carriera nel jazz: «Di indole sono timido e schivo, ma sul palco divento un’altra persona: mi scatta quella marcia in più che non pensavo di avere e poi dopo ricordo molto poco dei concerti, come se fossi stato in un’altra dimensione». Proprio la sua indole l’ha portato a vivere all’estero, prima negli Stati Uniti e ora in Francia: «Sono più sereno a stare in un posto dove non vengo identificato. Anche se qualche anno fa, con la mia famiglia, siamo scampati per miracolo a un attentato molto grosso, preferisco non dire quale».
Le sue notti, rispetto agli anni 80, sono diventate meno spericolate: «Non potrei più fare la vita di quel periodo, né lo vorrei. Continuo a cantarla perché è rimasta nel tempo, ma adesso dopo i concerti mi piace fermarmi nel bar dell’hotel per stare un attimo con la band e non vado certo in giro per locali. Loro invece sì». Caputo si tiene lontano anche dalla scena musicale odierna: «Non conosco i nuovi artisti, vivendo all’estero non seguo granché, ma è sotto gli occhi di tutti che c’è molta musica usa e getta – dice —. Come fai a prendere sul serio canzoni che hanno magari dieci autori? Non so quante ce ne ricorderemo fra 10 anni. Io qui in Francia ascolto la radio e sento le canzoni vere, quelle che hanno passato l’esame di maturità del pubblico».
Anche per questo ha venduto il suo catalogo, come tanti cantautori internazionali: «Ho ceduto quel che era di mia proprietà dal 2008 in poi. Così gli album verranno gestiti meglio di come avrei potuto fare io e ho la certezza che mi sopravviveranno».